Nel 1915, quasi in latitanza, uscì un libro che diremmo umile, inutile perfino.
Raccoglieva una sessantina di poesie di Adelaide Crapsey, sistemate con
devozione dagli scarsi amici. Tutto di questa donna – nonostante il corpo
esagonale e una certa severità nello sguardo – ha a dire: scava a te una tana,
arginati, disarginata, nell’altrui dimora. Il libro – con lo stesso titolo, di
screanzata evidenza, Verse – fu ripreso – con l’aggiunta di altri testi – nel
1922 dalle edizioni Knops di New York. L’autrice era morta nel 1914, razziata
dalla meningite tubercolare – aveva passato gli ultimi anni in un ricovero lungo
le rive del lago Flower; i prefatori scrissero di “una vita segnata dalla
tragedia”, di “un’opera sostanziosa, sostanzialmente incompiuta”, di “anni
passati in esilio, sulla soglia di una finestra” (così Claude Bragdon). Da qui,
forse, non soltanto lo statuario sentore dell’inevitabile che trafigge quei
versi, ma, soprattutto, l’elemento naturale che li pervade: metereologica
cronaca di un animo cronicamente vigile. Nei versi di Adelaide Crapsey non
sfugge il minimo moto della neve; la poetessa si accorge della più infima foglia
che, ad avvenuto autunno, molla gli ormeggi e crolla. Anche lei, forse, si
sentiva come quella foglia.
Si disse, tra l’altro, della “tenacia nello studio degli aspetti tecnici della
poesia inglese” – nel 1918 Knopf aveva pubblicato il suo A study in English
metrics – della capacità di “ritrarre la bellezza della vita secondo l’esempio e
lo spirito di Keats e di Stevenson”. In particolare, Adelaide aveva architettato
una formula lirica spiazzante per l’epoca: la chiamava cinquain, riferendosi a
una poesia di cinque versi in cui, di solito, il primo e l’ultimo sono di una
parola soltanto. Potremmo dire: un cinguettio, quando non, un urlo rattenuto. La
chiglia di un poemetto; la cruna dell’iceberg; Moby Dick nel diorama. “Questo
tipo di poesie caratterizza l’originalità suprema di Adelaide Crapsey. Si tratta
di una compressione lirica estrema. L’artista riduce l’idea ai minimi termini –
e la presenta in una singola, folgorante impressione” (Jean Webster).
Adelaide comincia a sperimentare questa formula nel 1911; la perfeziona negli
anni della malattia, quasi fosse un lenitivo – o un veleno. A tratti, queste
poesie che riassumono il cosmo in una federa, ricordano i tanka, la poesia
giapponese classica di cinque versi, ma la poetessa scansa la ‘giapponeseria’:
in lei, piuttosto, aleggia lo spettro di Emily Dickinson. Estranea allo
sperimentalismo dell’epoca, Adelaide Crapsey ignorava che Ezra Pound si aggirava
in direzioni liriche analoghe: l’Imagismo – che postulava nitidezza del verso,
concisione, brevità e brutale procedere per associazioni, secondo le formule
della poesia cinese e giapponese – nasce nel 1915; si sviluppa dal 1911. Non è
un caso che Marianne Moore riconobbe in lei una sorella, pur cresciuta in
cattività, in un mondo, si direbbe, distante dalle concrezioni letterarie
dell’epoca:
> “L’isolamento le ha permesso di muoversi appartata, la ‘bianchezza’ e il
> vigore dei suoi versi sono impressionanti”.
Cresciuta in una famiglia d’alta tempra culturale, Adelaide Crapsey studiò al
Vassar College, si perfezionò all’American Academy a Roma. La sua giovinezza fu
funestata dalla morte delle sorelle – Ruth, undicenne, di brucellosi; Emily, a
ventiquattro anni, di appendicite – e dalla vulcanica prestanza del padre. Il
pastore Algernon Sidney Crapsey, uomo di vaste letture, alto ministro della
chiesa episcopale, fu dichiarato eretico nel 1906 ed espulso dalla parrocchia
che guidava, a New York – con sua somma gioia. Da anni, in pubblico, il pastore
Crapsey si scagliava contro l’ottusità della chiesa; affermava di credere
nell’umanità più che nella divinità di Cristo; contestò la nascita verginale e
la resurrezione di Gesù. Pubblicò le proprie asserzioni in un libro, Religion
and Politics (1905), che fece scandalo. L’indomito teologo – nel frattempo,
diventato socialista – raccontò la sua vita in un’autobiografia dal titolo
eclatante, The Last of the Heretics, edita da Knopf nel 1924 – riscosse un
discreto credito.
Adelaide Crapsey (1878-1914)
Per un po’, Adelaide accompagnò il padre nelle peregrinazioni in Europa e negli
Stati Uniti: era un eccezionale conferenziere; all’Aia e in Francia la figlia
fungeva da efficace traduttrice. L’insegnamento – a Stamford, Connecticut – durò
poco, come quello a Northampton, Massachusetts, dove occupava la cattedra di
“Poetica”: il male aveva iniziato ad assalirla. Fu sepolta al Mount Hope
Cemetery, Rochester, nella cappella di famiglia; qualcuno scrisse “Qui riposa
chi/ non ha mai avuto posa”. Il “Boston Evening Transcript” – reso celebre da
una poesia (non bella) di T.S. Eliot – scrisse che le sue cinquain “sono la
straordinaria testimonianza di uno spirito che ha lanciato la propria ‘indomita
sfida alle stelle’”. I Verse furono ristampati con costanza fino al 1938, poi,
lentamente, ci si dimenticò di Adelaide, donna dall’animo irto di luci. Fu Carl
Sandburg, il grande poeta di Chicago, Premio Pulitzer nel 1951, a riscoprirla;
le aveva dedicato una poesia, Adelaide Crapsey, appunto, che commuove:
“…ho letto il tuo cuore in un libro.
E la tua bocca che medita in blu – so di averla vista, in qualche luogo di
piogge perenni.
E vidi una donna con la testa tra le ginocchia nude, la testa tesa ad ascoltare
il mare, il vasto nudo oceano che portava sulla schiena un vagone di sale…”
Nel 1977 Susan Sutton Smith ha curato per la University of New York Presse The
complete poems and collected letters of Adelaide Crapsey. Ma Adelaide era
arrivata, ancora una volta, troppo tardi: di rado i reperti antologici della
poesia americana fanno riferimento a lei. Si è fatta piccola come i suoi versi,
Adelaide, fino a nascondersi in quel greto di parole: come chi, a riparo da
tutto, si mette sotto il tavolo a scrivere, sottocoperta, e dà alle sedie nomi
stellati, Pegaso, Andromeda, Aldebaran, Sirio…
***
Novembre, notte
Ascolta.
Stordisce scricchiolio
come di emigranti spettri
delle foglie cristallizzate dal gelo che
cadono.
*
Fuggiasco
Rude
e vasto il moto di quel
magnifico braccio: sbrecciò
le porte del dolore che segregava l’anima
dalla vita.
*
Niagara
Visione in una notte di novembre
Così fragile
sopra la matassa
d’acqua che si frange
autunnale vana avventata
luna.
*
Trappola
È bene
che giorno segua giorno
che l’anno, esausto, sia
sostituito da un altro anno… e così anni e giorni…
è il bene?
*
Triade
Triade
del silenzio:
la neve che cade, l’ora
che precede l’alba, la bocca
del cadavere.
*
Stupore
È vero:
queste non sono le mie mani
eppure, sono certa che siano quelle
di una donna che un tempo aveva mani
come queste.
*
Susanna e i vecchioni
“Perché
scagli il male
contro di lei?” “Perché
è bella e pura: non
ti basta?”
*
Neve
Guarda
dalle colline blatte
baluginano le froge del vento,
è inverno… guarda e senti l’odore
della neve!
*
Angoscia
Serba
la veglia senza lacrime
tutta la notte, ma quando l’alba
è blu e sgattaiola la luna, allora piangi, è l’ora
di piangere.
*
Ombra lunatica
Immobile
come le ombre proiettate
dalla luna nelle notti senza vento
sarà il mio cuore quando sarò
morta.
*
Giovinezza
A me
non toccherà
vecchiaia né morte, la strana
ignominiosa fine dei vecchi
morti viventi.
*
A guardia della ferita
Se
fosse più leggera
di un petalo di fiore sospeso
sull’erba, oh, sarebbe ancora troppo pesante
troppo pesante!
*
Notte, vento
Gli antichi
antichi venti che soffiano
da quando era il caos, dicono
agli strepitosi, strepitanti alberi che
devo piangere.
*
Dopo aver visto l’Eva di Lucas Cranach
Oh,
è mai esistito un tempo
in cui Eva dimorava in Paradiso
con questo corpo, così placida, così
giovane?
*
La fonte
Hai dragato
il riso da un pozzo
di lacrime sepolte
per questo risuona elfico – beffardo
e dolce.
*
Morte solitaria
Farà freddo e sarò io ad alzarmi
e a lavarmi in acque gelate; io
tremerò, intonerò la confessione
solitaria, all’alba; io mi ungerò
la fronte, i piedi e le mani
chiuderò le finestre
allestirò quattro vertiginose
candele e le accenderò mentre
il grigio divora il mattino; io
mi poserò, rigida, nel letto, io
stenderò il lenzuolo fin sotto il mento.
Adelaide Crapsey
*In copertina: Mary Cassatt, Peasant Mother and Child, 1894 ca.
L'articolo “La veglia senza lacrime”. Adelaide Crapsey, la poetessa che ha
riassunto il cosmo in cinque versi proviene da Pangea.