Tag - James Salter

James Salter o della scrittura come cocktail Martini
Forse, fra i lettori, proprio coloro che provano una certa inquietudine al pensiero di ritrovarsi su un aereo e dover volare, spesso loro malgrado, finiscono per apprezzare maggiormente i racconti e i romanzi dedicati a questo strano desiderio umano di “staccare l’ombra da terra”. Siamo, o siamo stati, tutti lettori appassionati di Saint-Exupéry nonché, in tempi più recenti, di quel notevolissimo e sfortunato scrittore – sfortunato come uomo, ma fortunato e talentuosissimo come scrittore – che è stato Daniele Del Giudice.  Il mondo degli aerei e dei piloti torna prepotentemente in primo piano nell’opera di un altro grande scrittore del Novecento, lo statunitense James Salter, ancora troppo poco conosciuto da noi, benché Guanda ne abbia pubblicato quasi tutta l’opera. Di Salter ricorre ora un doppio anniversario: cent’anni dalla nascita, avvenuta il 10 giugno 1925 e dieci dalla morte, il 19 giugno 2015, subito dopo il compimento dei novant’anni. Una vita lunga e, come vedremo, anche complessa, a cui non corrisponde la mole di pubblicazioni che ci si potrebbe forse aspettare. In termini quantitativi l’output è stato nell’insieme modesto, insomma, ma se si passa, come si dovrebbe, a una valutazione qualitativa, il discorso cambia radicalmente, perché Salter è da considerarsi una figura di assoluto spicco nella letteratura statunitense del secondo dopoguerra. La sua scrittura, scrive John Irving nella postfazione all’edizione italiana di A Sport and a Pastime(Un gioco e un passatempo, edito da Rizzoli nel 2006 e riproposto da Guanda nel 2015) – un titolo, sia detto per inciso, tratto curiosamente da una sura del Corano – “trasforma i suoi libri, romanzi o memorie che siano, in risultati letterari eccezionali”, tanto che qualunque scrittore contemporaneo “si sentirà umiliato dalla sua lingua”. Nato nel New Jersey, all’età di appena due anni Salter, che in realtà si chiamava James Arnold Horowitz, segue la famiglia a Manhattan, e New York diventa la sua città, la città in cui frequenta anzitutto le scuole superiori (fra i compagni di scuola si annoverano fra gli altri Julian Beck e Jack Kerouac), pubblicando le prime poesie, a suo dire terribili, sul giornalino scolastico. È uno studente brillante e molto portato per le materie scientifiche, e al momento della scelta dell’università, indeciso fra il MIT e Stanford, si lascerà convincere dal padre, un ex militare, a entrare – siamo nel 1942 – all’Accademia militare di West Point. Si arruola poi nell’aviazione, ma nel frattempo si laurea e ottiene anche un master alla Georgetown University, e, dopo alcuni incarichi nelle Filippine, in Giappone e alle Hawaii, partecipa alla guerra di Corea eseguendo un centinaio di missioni di combattimento nei cieli coreani. Da questa esperienza ricava nel 1956 il suo primo romanzo, The Hunters (Per la gloria, Guanda, 2016), che per non dare nell’occhio fra i commilitoni pubblica con lo pseudonimo di James Salter, nome che in seguito deciderà di adottare anche nella vita civile. Da The Huntersverrà anche tratto nel 1958 un fortunato film con Robert Mitchum. Segue nel 1961 The Arm of Flesh, ripubblicato quasi quarant’anni dopo con varie modifiche e con il nuovo titolo di Cassada, un altro romanzo incentrato sulle sue esperienze di pilota, ma ambientato stavolta alla base aerea di Bitburg, in Germania. Nel frattempo, tuttavia, Salter ha capito che, se davvero vuole dedicarsi alla letteratura, deve cambiare vita. Un segnale di una possibile crisi esistenziale, a ben vedere, si coglie già in alcune pagine di Per la gloria (cito qui dalla traduzione di Katia Bagnoli) che sembrano attagliarsi a chiunque vada in pensione o smetta un’attività:  > “Fare parte di una squadriglia era una sintesi dell’esistenza. Quando arrivavi > eri un bambino. C’erano opportunità infinite, e tutto era nuovo. Gradualmente, > quasi senza rendertene conto, i giorni degli studi faticosi e del piacere > erano finiti, avevi raggiunto la maturità; e poi all’improvviso eri vecchio, e > volti e persone nuove che faticavi a riconoscere ti spuntavano intorno in > fretta, fin quando scoprivi di non essere più il benvenuto fra loro perché > tutti quelli che avevi conosciuto e con cui avevi vissuto se ne erano andati e > la guerra non era diventata altro che una serie di ricordi incondivisibili di > eventi avvenuti tanto tempo prima.” Salter lascia quindi l’aeronautica e per guadagnare qualcosa si dà alle sceneggiature di film e documentari, vincendo anche un premio alla Mostra di Venezia del 1962, scrivendo nel 1969 la sceneggiatura di un film ambientato a Roma, L’appuntamento, diretto da Sidney Lumet e interpretato da Anouk Aimée e Omar Sharif, e collaborando, fra gli altri, con Robert Redford, per il quale scrisse la sceneggiatura di Downhill Racer(Gli spericolati). Quest’ultimo tuttavia infine rifiutò, perché il protagonista gli sembrava troppo riservato e inadatto a lui, la sceneggiatura per un altro film, Solo Faces, incentrato sul mondo degli scalatori, che lo scrittore decise in seguito di trasformare in un romanzo, uscito nel 1979. Romanzo che diventerà un libro di culto nell’ambiente appunto degli appassionati di quello sport. Ma la strada di Salter è decisamente quella della narrativa pura, e se sarà ricordato, come credo e spero, ciò avverrà grazie a una manciata di romanzi e volumi di racconti che hanno rappresentato un’alternativa forse minoritaria, ma non per questo meno presente e proficua, rispetto alla tradizione prevalente nella recente letteratura statunitense, quella delle narrazioni fluviali, da Bellow a Roth, da Updike a Mailer, da Ford allo stesso Irving, e oggi da De Lillo a Franzen. Tanto divergente è potuto sembrare a molti critici il suo cammino che Salter è stato presto bollato come atipico ed “eurocentrico”, il che forse non è del tutto errato, se si pensa ai forti legami da lui intrattenuti con diverse letterature europee, e in particolare con quella francese (per un periodo ha anche vissuto a Parigi). Dagli scrittori europei Salter mutua forse la riflessione sulla letteratura come modalità di vita, e la sua forza sta nel far sì che, grazie a un instancabile lavoro di cesello, ogni sua opera, dal romanzo più corposo al più breve dei racconti, sia un piccolo o grande capolavoro. Nei suoi quasi sessant’anni di attività come scrittore, da The Hunters all’ultimo romanzo uscito nel 2013, All That Is (Tutto quel che è la vita, Guanda, 2015), Salter ha saputo mantenere inalterata nel tempo la tensione e la profonda meditazione che si avverte dietro ogni sua pagina, ogni paragrafo, persino ogni frase da lui formulata – quella che considerava, cioè, la vera unità di misura della narrativa. A proposito della sua frase, appunto, e di quanto sia ben tornita, Richard Ford ha scritto una volta che “It is an article of faith among readers of fiction that James Salter writes American sentences better than anyone writing today” (“È articolo di fede tra i lettori di narrativa che James Salter scrive oggi frasi americane meglio di chiunque altro”). Grande estimatore delle metafore, Salter riesce quasi sempre a stupire, a coniarne di nuovissime. Per farmi capire meglio prendo, praticamente a caso, un suo paragrafo, uno dei tanti che potrei citare, l’inizio del secondo capitolo di Una perfetta felicità (nella traduzione di Katia Bagnoli). Ecco cosa scrive:  > “Era l’autunno del 1958. Le bambine avevano sette e cinque anni. Sul fiume, > del colore dell’ardesia, si riversava la luce. Una luce morbida, un’indolenza > divina. In lontananza il ponte nuovo scintillava come una dichiarazione > d’intenti, come un’affermazione che in una lettera costringe chi legge a > soffermarsi.”  Un paragrafo praticamente perfetto. Scrivere, cancellare e riscrivere continuamente, questa la sua tecnica, acquisita quando i computer non esistevano ancora, ma mantenuta poi anche in seguito, a garanzia di una ricerca incessante e faticosa dell’espressione migliore, più calzante. Diceva di odiare quanto sgorgava direttamente dalla mente, e che l’unico piacere dello scrivere consisteva in realtà nel correggere e riscrivere. A questa inclinazione artigianale Salter univa una grande curiosità per gli altri e per il mondo, che gli consentiva di archiviare prima nella sua mente e riutilizzare poi nelle sue storie impressioni e frammenti di discorsi accumulati nei decenni, giungendo il più delle volte, come ha confessato, a creare personaggi che sono spesso un originale collage di diverse persone reali, colte in una battuta o in un singolo atteggiamento. Sebbene qualche critico abbia definito il suo stile impressionistico, o addirittura affine al pointillisme in pittura, Salter ha regolarmente sottolineato di aver voluto solo e sempre ricercare la massima chiarezza, insistendo non tanto sulle grandi teorie, quanto sulle gioie e sulle asperità della vita quotidiana.  La sua abilità nel descrivere la passione sentimentale e sessuale – ne è un esempio evidente A Sport and a Pastime –, così come la pulsione di ciascuno di noi verso le novità e il cambiamento, palesa uno studio appassionato di diversi antecedenti letterari, fra cui Salter stesso ha sempre annoverato un altro militare, Isaac Babel’, ma anche Gogol’, Gide, Kawabata, Nabokov, Karen Blixen, Thomas Wolfe e Marguerite Duras. Uno studio, peraltro, ravvicinato e intenso, senza limitazioni o timori reverenziali, fondata sull’augusta e oggi troppo frettolosamente abbandonata pratica della mimesi. Con Light Years, del 1975 (tradotto in italiano da Guanda nel 2015 con il titolo Una perfetta felicità),Salter riesce a raccontare con un’ispirazione felicissima e uno stile ellittico e obliquo una storia, d’amore prima e di bruciante separazione poi, basandosi sulla convinzione più volte espressa che nella vita non conti tanto la realtà oggettiva, quanto la memoria, i ricordi che riusciamo a strappare all’oblio. Scriverne e descriverli è anzi l’unico modo per farli e farci vivere ancora. “There is no complete life,” sostiene. “There are only fragments” (“Non esiste la vita completa, ci sono solo frammenti”). Ma la forza del libro sta anche nella sua capacità di descrivere le conseguenze della dissoluzione di una famiglia per tutti i suoi componenti e di farci entrare con discrezione, ma anche con consumata maestria, nella mente dei protagonisti: la bella, sofisticata e confusa Nedra, avvinta dalla lettura della biografia di Alma Mahler, e il marito Viri, un architetto ebreo elegante e a suo modo romantico – ebreo proprio come quel Salter il cui matrimonio andrà in pezzi poco dopo la stesura del libro. Ma d’altra parte in Salter l’autobiografia, seppur ben dissimulata, è sempre in agguato: la storia d’amore torrida con la ragazza francese di A Sport and a Pastime è tratta di peso dalle sue esperienze personali, e la vita, fra il divorzio, la morte improvvisa di una figlia in circostanze drammatiche e le malattie che contrappuntano l’avanzare dell’età, non lo ha certo risparmiato. Ma nelle sue opere ha saputo sempre evitare qualsiasi tentazione di ripiegamento su sé stesso e di sentimentalismo. Sulla fine di un amore tornerà anche con il bellissimo racconto che dà il titolo alla raccolta Dusk and Other Stories, uscita nel 1988 (Crepuscolo e altre storie, Guanda, 2022), racconto seguito da una serie di altre piccole gemme. Il libro otterrà il PEN/Faulkner Award, un premio di grande prestigio. Lo stesso livello qualitativo si riscontra senz’ombra di dubbio nella seconda raccolta, dal titolo Last Night, che esce nel 2005 (L’ultima notte, Guanda, 2018). In Burning the Days, del 1997 (Bruciare i giorni, Guanda, 2018), che è invece una specie di memoir o autobiografia per frammenti, in cui si muove senza alcuna remora da un periodo all’altro della propria vita, lo scrittore spinge ancora oltre l’idea della reminiscenza come (unica) base della narrazione. Anche in questo caso Salter sfugge all’assillo, secondo lui deleterio, di dover evocare tutto e ribadisce invece il proprio diritto al parziale silenzio, alla cernita, alla scelta, che oltre tutto ha il potere di stimolare la collaborazione del lettore, la cui curiosità a volte inappagata diventa un asse trainante del libro. James Salter (1925-2015) Una curiosità per chiudere. Come il nostro Filippo Tuena, che ha voluto dedicare al cocktail Martini un libro collettaneo uscito qualche anno fa per Nutrimenti, anche Salter ne è stato per tutta la vita un adepto. Una volta calcolò quanti Martini aveva bevuto in vita sua, e giunse alla conclusione che dovevano essere all’incirca ottomilasettecento. Dev’essere, questa predilezione per il cocktail Martini, un’altra caratteristica degli scrittori di oggi, almeno dei più interessanti: qualcuno, prima o poi, potrebbe farne magari l’argomento di una tesi di laurea. Raoul Precht *In copertina: poster di Downhill Racer (“Gli spericolati”), 1969, film di Michael Ritchie, scritto da James Salter, con Robert Redford e Gene Hackman L'articolo James Salter o della scrittura come cocktail Martini proviene da Pangea.
June 16, 2025 / Pangea