Gliel’ho detto così, brutale, a bruciapelo. Il tuo libro non mi è piaciuto.
Sembrava saperlo. Sembra sapere tutto. Sembrava sollevato. Poi ho capito
qualcosa – che dirò più tardi.
Con La Repubblica italiana dei poeti – Edizioni Industria & Letteratura, 2025 –
Andrea Temporelli tenta di costruire un orizzonte per comprendere la poesia
italiana contemporanea. Lo fa consapevole del frainteso, per un bene più grande,
a mo’ di lascito. Più che la costruzione di un nuovo canone, mi pare la sua
disfatta – qualcosa di simile all’Uranometria di Johann Bayer, dove gli ammassi
stellari possono sembrare draghi, pellicani ed eroi omerici fuori tempo, oppure
meri emblemi del nostro disorientamento. In sostanza, Temporelli passa in
rassegna oltre seicento poeti. Neppure troppi, se si pensa che Pier Vincenzo
Mengaldo, nel ’78, ne ha riferiti, a rappresentare i Poeti italiani del
Novecento, una cinquantina – non tutti indimenticabili –; un numero che è
andato, con lo svolgersi dei decenni, drammaticamente levitando.
La Repubblica italiana dei poeti – io propendo ancora per la “Dittatura
dell’unico” – è costruita a contrario rispetto a una comune antologia. Dopo aver
impilato i poeti di cui occorre “leggere tutto”, “tutto o quasi”, “tutto o quel
che si può” (il che è tutto risolto a pagina 28), l’autore si impegna – per le
successive duecento e passa pagine – a dar conto degli esclusi. Questa porzione
del libro s’intitola La cura degli assenti; non è secondario ricordare – a dire
della mente simbolica dell’autore, nel senso che tiene assieme tutto – che
quello è anche il titolo di una recente poesia di Temporelli (il quale, per buon
gusto – anzi, con alta malizia –, non si auto-antologizza), apparsa su un numero
di “Poesia” (n.31, Maggio-Giugno 2025). Ne ricalco alcuni lacerti, i più belli:
> “La neve invece
> prepara il fango, l’usura del gelo, il silenzio
> ingoiato per fame, vera fame. […]
> L’osso scartato dai cani
> è la prima idea del mattino”.
Nel circuito di queste parole – la neve e la fame, l’osso, il mattino, i cani –
si trova forse la chiave per comprendere La Repubblica dei poeti.
Smetto di cianciare.
Il lavoro di Temporelli è folle: richiede la mente di Cartesio in un corpo
dionisiaco. La danza, selvaggia, pretende, perché la profezia si avveri, di
polverizzare tutto: così un figlio s’india nel padre e il padre può smettere di
essere padre, ma acqua, mano, neve.
La Repubblica italiana dei poeti, attaccavo, è un libro che non mi piace. Ovvio:
la vertigine dei nomi – legionedirebbe l’evangelista – fa svenire, fa venir
voglia di consacrarsi ad altro. Ma sarebbe sbagliato perché ogni singola vita –
insegna l’autore o la sua ombra – va benedetta. Non mi piace, dicevo, perché ho
avuto il privilegio di scorrazzare nella savana di “Atelier”, la rivista ideata
da Marco Merlin – l’altro lato di Andrea Temporelli, il suo idolo – trent’anni
fa e da lui diretta fino al 2013. A quell’epoca – di cui potete leggere tutto –,
era già tutto chiaro, con furia lungimirante, ad alto grado di ebbrezza: la fine
dei ‘maestri’, l’implosione di ogni ordine di autorevolezza (ergo: pubblicare
per ‘Lo Specchio’ Mondadori equivale a stampare per l’editore-artigiano sotto
casa), la latitanza da ogni orizzonte di gloria, il brigantaggio del linguaggio,
la critica spettrale, atta a certificare la lebbra, la morte-in-vita. Alla
letteratura, appunto – con le sue stole, le moine, i premi, il delirio
patologico dell’egotismo – preferimmo la vita. Per intenderci, così scriveva
Marco Merlin nell’editoriale di “Atelier” del marzo 2004:
> “La nostra parte ci è chiara. Quello che spetta a noi è stare, verticali,
> dentro il nostro respiro, smemorati del nostro nome, aperti a tutto, senza
> privilegio alcuno da difendere. Ma anche senza la paura di testimoniare le
> passioni che ci animano e di soffiare sull’orizzonte, per vedere se qualche
> zolla comincia a bruciare”.
Ho conosciuto Marco Merlin attorno a un editoriale dal titolo che ancora brucia,
“Militare più che militante”. Era il 2001. Quegli editoriali (dai
titoli-emblema: “Siamo poeti o giullari?”; “Fine del Novecento”; “Lo scisma
della poesia”; “La poesia è una marchetta”; “Liberarsi dalla letteratura”), che
costituiscono una delle audacie più pure e più folli della poesia recente, sono
stati poi raccolti in un libro, Smarcamenti, affondi e fughe(Giuliano Ladolfi
Editore, 2016). L’autore di quel libro risulta essere Andrea Temporelli – in
realtà è Marco Merlin. Andrea Temporelli – che ho chiamato al dialogo – ha
inglobato e divorato Marco Merlin, maestro di cui sono ormai orfano.
Ricalco alcune frasi – come sempre di miliare potenza, che istigano a un compito
– con cui Temporelli chiude La Repubblica dei poeti. “La competizione, semmai, è
crescere verticali su sé stessi per raccogliere più luce”; “Riconosciamo nel
dissenso e nella diversità di vedute l’unica opportunità sensata e interessante
per superare la palude contemporanea. Il nemico leale sarà il vero maestro, la
pietra per saggiare e rafforzare il talento”.
Ora ho capito – dicevo al principio. La ridda di nomi serve per disfarsene – per
disfarsi, soprattutto, del proprio sguardo ‘critico’, del proprio io. Un
ritornare puri dopo la puritana guerra. Sporchi, luridi – ma vivi.
Andrea Temporelli ha scelto il deserto – che lo dica bosco è lo stesso. Lo
chiamerò Ismaele. Il figlio di Abramo “abitò nel deserto e divenne un arciere”
(Gn 21, 20). Arciere in ebraico si dice qashshath, parola che viene usata
soltanto una volta in tutto il Testo, per onorare Ismaele. Il figlio sinistro ha
destrezza nell’arco, non si fa addestrare dalla trafila del Patto. Alla Terra
Promessa preferisce il Nessundove dei rettili e dei cavalli rudi, dal pelo
ispido, le dune e le tende al giardino del tempio. Mi viene in mente il bel
libro di Octavio Paz, L’arco e la lira – ma lì si parlava di Apollo. Chissà se
il dardo sibila in endecasillabi prima di avverarsi nella preda. Parole,
parole.
Immagino Temporelli, di spalle, l’arco a tracolla – ed è tutto.
Andrea Temporelli: che fine ha fatto Marco Merlin?
Finalmente si è tolto dalle scatole. Me lo sono divorato e sbocconcellato fino
all’ultimo brandello e ora, dopo una bella dieta dimagrante, posso scattare
senza ingombri oltre il suo territorio limitato. Averlo fatto fuori, mi
permetterà di scrivere, disinibito, lasciando ad altri la teoria e il lavoro
critico. Temo solo che qualcuno voglia fare pagare a me i suoi debiti. Ma, si
sappia, non ci penso nemmeno. Mi chiedo, divertito, quanto tempo gli altri ci
metteranno a capire che non c’è più.
Che rapporto c’è tra “L’opera comune” e “La Repubblica italiana dei poeti”?
Idealmente, sono due meravigliosi fallimenti concentrici. Il primo, entro il
raggio ristretto dell’amicizia; il secondo, con un raggio quasi illimitato che
rilancia in una dimensione politica la medesima utopia.
Che rapporto c’è, nel tuo ‘metodo’ poetico – dunque, esistenziale – tra il
deserto che ti sei scavato e la massa di poeti – una schiera, una falange, una
squadriglia – che hai scovato?
Non lo so. Era una domanda da porre a quell’altro, che non c’è più. Io non
possiedo il metodo, semmai ne sono posseduto e solo dall’esterno qualcuno potrà
descriverlo. Per me la massa è il deserto.
I maestri sono scimmie ammaestrate che desiderano portaborse, l’autorevolezza
editoriale è defunta da un pezzo, gli editori ‘di peso’ equivalgono ai pesi
piuma. In questo spazio – che dura da più di un ventennio – di libertà assoluta,
che senso ha rifondare un canone, perimetrare un ‘orizzonte’?
Tutta la vicenda umana consiste nell’innalzare castelli di ghiaccio nel deserto!
Lo si fa per obbedienza a un senso di bellezza, alla bellezza di un senso che ci
sfugge. Detto questo, tu lo sai bene e lo hai spiegato: si fa l’appello per lo
sterminio della vanità, per attraversare il fuoco dell’opera (nostra, altrui,
comune) che ci travalica, che diventa dono. Di maestri non ne ho più bisogno,
ormai. Ma non fraintendermi: preferirei averne ancora desiderio, significherebbe
essere ancora giovani e aperti a molteplici sviluppi. Alla mia età, però,
sarebbe patologico insistere a cercare “padri”. Quelli che si sono presentati
come tali, erano padrini incapaci di riconoscere e difendere la profezia degli
eventuali figli e, dunque, non c’è stato reciproco riconoscimento. Hanno
preferito, come indichi nella domanda, la gratificazione immediata del
rispecchiamento. Si sono bruciati da soli, in tal senso. E sono fiducioso: la
loro eredità, per fortuna, andrà perduta. La loro autoconsacrazione nel canone
non ha fondamento. Io, con questo libro, rimetto idealmente tutto in
discussione. I conti con la tradizione, vivaddio, sono sempre aperti, e lo
sguardo determinante è quello dei posteri, degli alieni che equivocheranno,
rimedieranno, rimuoveranno secondo la loro logica, non secondo quella di chi li
ha preceduti.
Lui è Andrea Temporelli o Marco Merlin?
Nella tua “Repubblica” pare che la quantità abbia soppiantato la qualità. Mentre
il secolo scorso si può riassumere entro una piramide di nomi e di dicotomie
(Pascoli/D’Annunzio; Ungaretti/Montale/Svevo; Luzi/Zanzotto/Sereni/Caproni etc.,
con singolarità satellitari – es. Campana, Sbarbaro, Rosselli, Bertolucci,
Pasolini, Pozzi…) l’oggi è l’assembramento di centinaia. Il poeta è detronizzato
dallo storicismo, dall’orizzontalità dilagante, da una analfabeta
alfabetizzazione? Cosa?
Siamo passati dall’umanesimo aristocratico, con i suoi pregi e difetti, alla
democratura dell’individualismo capitalistico. Ma la rete si sta formando: i
nodi strategici si rafforzeranno, le cricche saranno poste ai margini, la
coscienza generale lascerà emergere le nuove strutture, e anche la matassa ora
apparentemente indistricabile in cui ognuno pare avere il diritto di
autorealizzarsi (in qualsiasi pratica sociale o forma d’arte) avrà una sua
figura riconoscibile. Manca qualcuno, nel mio catalogo? Indubbiamente. Tu
aggiungeresti, mi hai detto, Ivano Fermini, io Sonia Gentili e, forse, Ugo
Magnanti e Domenico Segna; ma anche qualche decina di nomi ulteriori non
smuoverebbe la massa critica di oltre seicento autori (selezionati!). Per questo
la fotografia del panorama resta complessivamente credibile e, adesso che il
perimetro è ragionevolmente chiuso, si potrà anche eleggere i pochi che
veramente svettano – spiegando perché, rendendo ragione, insomma, di tutti gli
altri. Questo è l’intento del libro. Se poi si vorrà ammettere che non svetta
nessuno, che abbiamo tante colline e che in generale la produzione poetica è
buona (una visione ottimistica e inclusiva), sia pure. Saremo un’epoca di
produzione di massa da cui prendere, di volta in volta, esempi a capriccio. Per
quel che riguarda me, invece, arriverei a dire che i poeti che mi interessano e
che continuerò a seguire sono pochissimi. Due mani per contarli basteranno.
Che rapporto c’è, cioè, tra il singolare talento di un poeta e la ‘comunità’ dei
poeti?
Vedo che fatichi anche tu a ricordarti che Marco Merlin non c’è più. È una
domanda a cui lui avrebbe saputo rispondere. Non a caso, la Repubblica italiana
dei poeti non è un suo libro, perché non ha metodo e uniformità di sguardo
critico. È il bolo fermentante, il rigurgito con cui ho digerito ciò che lui
avrebbe voluto apparecchiare con perizia tecnica. Perdonerai l’immagine
infelice, che però coglie nel segno.
Che differenza c’è, cioè, tra generosità ed ecumenismo, tra dottrina e
indottrinamento?
Non lo so. Umanamente e intellettualmente, mi addestro alla generosità, con
risultati alterni. L’ecumenismo e l’indottrinamento spettano a chi ha qualche
idea da imporre agli altri. Magari qualche poetica. Io invece non ne ho. Non a
caso, nel libro non escludo nessuna ipotesi di poesia, nessun orientamento
specifico.
In un recente incontro, hai usato la parola ‘benedire’. Spiegami: cosa significa
nel contesto della tua ricerca?
Benedire significa dire bene. Pronunciare un nome in modo che il chiamato si
senta compreso, rispettato, amato. Significa riconoscere l’alterità. Anche
quando si convoca l’altro per una responsabilità, per chiedere di rispondere a
qualcosa che ha che fare con la relazione. Occorre benedire ogni poeta, e
benedire ogni epoca. Anche la propria, che è sempre così facile da disprezzare.
La poesia all’epoca dell’Intelligenza Artificiale: che senso ha? Che poeta
verrà?
Non lo so. Ma sono molto curioso. Penso che mi troverò a mio agio nella
strategia della continua evoluzione di pensiero e di stile. L’IA è il terreno in
cui coltivare la Maniera. L’arte sopravvivrà in forme più selvatiche. L’errore,
l’imperfezione, lo scatto qualitativo imprevisto rispetto al sistema saranno le
stimmate della verità poetica. E l’errore evolutivo, lo scarto, ogni forma di
smarcamento hanno a che fare con l’emozione, che resta supporto
dell’intelligenza umana, come ha dimostrato Damasio.
Ma chissà, staremo a vedere.
Mi pare che la poesia abbia perso premura di profezia, è così orientata al tempo
presente da perderlo di vista. Sbaglio, sono un qualunquista?
Ciò che è davvero presente, pre-sente. Ma molti poeti, hai ragione, non sono
presenti a sé stessi, perché si fissano nello specchio, anziché guardare la
scena in cui sono essi stessi inseriti. Forse, la fotografia dell’oggidì
scattata in questa Repubblica italiana dei poeti fornirà a qualcuno la scossa
per risvegliarsi dall’incantamento.
E ora… cosa scrivi?
Ho una raccolta di poesie quasi pronta; si intitola Luz. Ho in gestazione un
poema, per ora informe. Queste le sento come due opere urgenti, che vorrei
licenziare quanto prima, per determinare un punto di non ritorno. Ma sto
concependo anche un romanzo fantasy, o forse più propriamente epico, che
potrebbe anche abortire e ho un semenzaio di appunti su quaderni e diari
piuttosto vasto. Ho il presentimento di un flusso poetico che vuole emergere in
modo continuativo con una sua particolare struttura, insieme mossa e
determinata. Mi tenta, per tutte queste avventure, l’ipotesi di dedicarmici in
una condizione di libertà dalla pubblicazione. Molto di ciò che scriverò, oltre
ai prossimi due passi poetici (Luz e il poema), potrebbe restare inedito per
scelta. Non so. Non vorrei che fosse il segno di una resa, un alibi rispetto
alla “lotta” per difendere ciò in cui si crede. Ma l’idea di attendere i
fatidici nove anni prima di rileggersi ed eventualmente proporsi a un editore mi
piace, mi dà pace. O magari andare ben oltre i nove anni. Ci pensi anche tu?
Scrivere per non pubblicare, ma solo per dedicarsi all’opera. Che vertigine di
libertà!
*In copertina: Leonardo da Vinci, Studio per la testa di un guerriero, 1504 ca.
L'articolo “Benedire tutto, crescere verticali su sé stessi”. Dialogo con Andrea
Temporelli proviene da Pangea.