Abitiamo festosamente le macerie del Novecento, scimmiottando la società
letteraria ricca di vizi ma anche di virtù, che adesso non c’è più. Cucù. Anche
i suoi presunti ultimi rappresentanti sono giunti al capolinea e, per carità,
resistano finché possono, i poeti nati fra il ’45 e la fine degli anni
Cinquanta, quelli che hanno potuto esordire in Feltrinelli, Mondadori, Guanda,
Garzanti, Einaudi e giù di lì, poco più che ventenni, con illustri e
lungimiranti padrini come garanti. Resistano, per carità, perché dopo di loro
c’è il vuoto – o almeno così sembra. O la definitiva anarchia. Del resto, oggi
le case editrici (anche le summenzionate) sono diventate bazar dove più del
valore della merce conta il marchio.
Il marchio, a sua volta, è sempre meno quello dell’editore, sostituito dal nome
dell’influencer di turno (maître à penser, per i nostalgici), che di scrivere un
libro manco ci pensava (e talvolta al posto suo ci ha pensato, in effetti,
qualche ghostwriter in affitto a prezzi stracciati, giacché l’IA incombe, e ciao
ciao ben presto anche a questi servizi). Le riviste, i giornali? E chi li
considera ancora? Giorni fa, sui social, Jonathan Bazzi (autore Mondadori, con
titoli che sono stati sulla cresta dell’onda e pluripremiati, mica l’ultimo
arrivato), pubblicava l’impietoso resoconto mensile del proprio conto corrente,
sollevando l’annosa questione del precariato intellettuale. Vivere di scrittura,
in Italia, è come mendicare, e poco vale addizionare recensioni, valanghe di
traduzioni, anticipi su libri ancora da cominciare e chissà che altro: se
rientri delle spese è un miracolo. Figurati se ti tocca vivere a Milano (gli
scrittori di provincia? Suvvia. Altro tema del Novecento, rifiutato persino dal
rigattiere, malgrado l’Italia resti, in sé stessa, una sterminata provincia).
Però, su Radio3, incalzato dal conduttore di Fahrenheit, Bazzi stesso non sapeva
come rispondere al dato, mercantile e impietoso: se a uno scrittore non va bene
la paghetta, c’è una fila che aspetta. Rieccoci al problema della quantità:
tutti scrivono e son pronti a tirare la cinghia, pur di mettere la firma dove
ancora sbrilluccica l’aureola (un po’ infangata, vabbè, ma basta passarci su la
manica e fa ancora la sua porca figura).
Abitiamo festosamente macerie. Siamo zombie tra lapidi. Siamo naufraghi su
qualche scoglio del web, da fare bello come un atollo delle Maldive.
Ah, mica tutti, però. Perché se di scrittura c’è chi muore, di scrittura c’è
anche chi vive. Dove?
Intanto, c’è un palazzo signorile, benché decadente, che resiste:
l’Accademia. Solitamente è abitato da persone un po’ snob, che magari di
letteratura ci capiscono fino a un certo punto. Per arrivare lì, del resto,
hanno camminato con la testa all’indietro. Esperti di qualsiasi epoca, fino
suppergiù al 1961. Lì si assediano i Novissimi, sigla che basta a certificare
competenze aggiornate. Questi centri di ricerca dovrebbero
sfornare anche narrazioni del contemporaneo, interpretazioni del presente, guide
per districarsi nella produzione ipertrofica di presunti talenti. Macché.
Terreno instabile, l’oggidì. Questi signori non investirebbero mai in talenti
(peggio delle criptovalute): vogliono rendite sicure, perciò si occupano
unicamente di patrimoni solidi, firmano quando il mucchietto di contanti è al
sicuro sotto il materasso, si insediano nei latifondi in cui persiste una
visione feudale e rassicurante del potere. Un giovane ricercatore, per esempio,
mi ha spiegato qualche mese fa che la sua proposta di occuparsi di Simone
Cattaneo è stata rifiutata. Avesse proposto un approfondimento su Nino Costa si
sarebbe garantito il dottorato.
C’è aria frusta, in questi palazzi. Il vantaggio di poter propinare qualsiasi
revisione del passato ai propri studenti, e quindi di vendere persino (udite
udite) libri di saggistica letteraria (esiste merce più indigesta al mercato?),
impone polmoni assuefatti. In ogni caso, a un certo punto ci si accorgerà di
avere il fiato corto, se si sono mantenute velleità di scrittori. Nei propri
versi l’aria frusta si sentirà eccome. Ma la riverenza ai nobili che circolano
in carrozza è ancora dovuta. Chiarissimi dottori, né più né meno. I titoli sono
depositati in borsa, conquistati con la fatica della fronte dopo anni di
addestramento alla pazienza, di devozione ai maestri, di sopportazione dei
colleghi a cui si sono fatte le scarpe con scaltrezza, al momento opportuno.
L’ideale, però, per chi ambisce a vivere di scrittura, sarebbe calcare i palchi
dei festivals, recitare la parte della star nei vernissage, okkupare le
poltroncine rimaste disponibili in tivvù. Ecco l’ambiente migliore: la casta. Il
problema è accedervi. E le vie per raggiungere la Casta sono infinite e
misteriose. L’unica prova provata è che l’ultimo dei problemi è la qualità
dell’opera letteraria. Potrei fare nomi e cognomi e spulciare pagine e pagine
per dimostrare quanto spesso siano stati promossi al rango di eletti scrittori
mediocri. E sia chiaro fin da subito che non c’è livore, non c’è invidia, nella
constatazione. Senza spoilerarvi il finale di queste paginette, si sappia che
non accetterei di sottoscrivere l’opera dei colleghi che ho visto partire dalle
retrovie e che adesso sono celebrità, se ciò mi garantisse di prendere il loro
posto. Anzi, diciamola fino in fondo: so bene che dietro alla loro brillante
carriera si cela spesso l’ombra di una vita sacrificata sull’altare del
successo.
La casta si riconosce perché non considera mai chi non appartiene alla casta
stessa. Il filo spinato che la protegge è stato nominato: amichettismo. Cartelli
graziosi per infiocchettare il putridume. E si capisce: i privilegi vanno
protetti. Le vie di accesso nascoste. Non si può rischiare di subire l’assalto
degli affamati di gloria che impestano la città. L’arte, si sa, non è per nulla
democratica.
Talvolta tra la casta e l’accademia esistono stanze in comune cui si accede
attraverso corridoi esclusivi. Ma normalmente i nobili diffidano dei parvenus.
Le star non hanno mica il sangue blu. (O caro Marx, ci manchi tu).
Ma se i piani alti non risultano accessibili, si possono trovare gradevoli
appartamenti da condividere. Ci sono nicchie comode, magari non sempre con vista
sul mare, ma affacciate su qualche piazza vivace, di nuova ideazione oppure con
un illustre passato. I servizi non mancano e l’unione fa la forza. Pare di stare
nella pubblicità di Del Piero e dei suoi condòmini: ognuno si sente a turno un
fenomeno, in mezzo a gente simpatica. Niente amichettismo: qui si respira aria
pulita di amicizia vera. La fibra regge, le novità arrivano, le assemblee sono
festose e produttive. Non si confondano perciò queste nicchie letterarie con le
case popolari dedite a pratiche folcloristiche (tipo la scrittura in metrica) o,
peggio ancora, le sterminate periferie degradate, così liriche, maledette e
lamentose.
E i social, come si inseriscono nel contesto? Direi che si tratta,
semplicemente, delle finestre su questi palazzi: ci restituiscono l’immagine che
noi vi proiettiamo. In effetti, le vetrine dell’Accademia sono oscurate, per lo
più. Meglio non disturbare certi ambienti ancora vagamente sacri. Le finestre
della casta, invece, sono costantemente illuminate e ci si affaccia solo ben
vestiti e in posa. Sono palcoscenici di una recita. Quelle delle nicchie
letterarie invece sono per lo più grandi occasioni di chiacchiera, se non di
dibattito o addirittura di impegno civile. Qualche screzio potrà capitare, ma al
più basterà cambiare lato e scegliere la finestra che si affaccia sul cortile
opposto, in modo da restare in compagnia di gente simpatica, tutti amici con cui
sparlare del resto del mondo.
Abitiamo festosamente le macerie del Novecento. Siamo alla crisi della crisi.
Nutriamo la decadenza della decadenza. Scriviamo storie dopo la fine della
storia. Animiamo i sussulti post mortem del cadavere occidentale. Ci
consideriamo postmoderni, post-postmoderni, postpoeti. Siamo posteri di noi
stessi, poster di ectoplasmi.
Ed è uno scenario bellissimo, tremendamente propizio. A parte le luminose
eccezioni di persone e scrittori pazzeschi che si trovano ovunque
(nell’accademia, nella casta radical chic, nelle nicchie iperletterarie, nei
quartieri popolari e nelle periferie) e che attendono, come pepite dormienti nel
fango, di essere trovati (basterebbe uno sguardo capace di discernere e una
mente intenta a dimostrare), viviamo un’epoca così terminale da essere già
pervasa, in qualche oscuro vicolo misconosciuto, dalla luce di un nuovo inizio.
Basterebbe, forse, vivere di vita, e non pretendere di vivere di scrittura.
Scrivete al cinque per cento, allora. Non aumentate la dose.
Andrea Temporelli
*In copertina e nel testo: disegni di Giandomenico Tiepolo (1727-1804)
L'articolo Siamo posteri di noi stessi, poster di ectoplasmi. L’Accademia, la
Casta, la Nicchia, ovvero: vivere di scrittura in Italia proviene da Pangea.
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Ci sono millanta poeti oggi che millantano la loro poesia: troppi, per
permettersi il lusso di continuare a brucare la terra polverosa e non alzare il
capo al Sommo Poeta, pronto a falcidiarci. Dante, l’insuperabile. Chi non
accetta di scoprire la gola, chi nicchia e cerca di sgamarla, come lo studente
che fa lo struzzo e abbassa gli occhi per non essere interrogato, non è poeta e
non ama la poesia. Chi non accetta la morte non sarà mai immortale.
Che poi il giochino viene facile: Dante è laggiù in fondo, nel mito, nel
passato, in un mondo che non c’è più, pigolano i poetini. Oggi siam tanti e gli
spazi di festa son pochi, stai fresco se dobbiamo confrontarci con i classici
(ma stiamo pure all’altroieri: Montale Luzi Zanzotto Sanguineti Caproni e
compagnia briscola). E qui scatta la mannaia di ogni avanguardia,
neoavanguardia, postavanguardia, non-avanguardia-ma-ricerca et similia: fare
tabula rasa. E potrebbe persino essere la volta buona, crollati tutti i punti di
riferimento, per cui si salvi chi può. Chi attraversa la selva oscura della
contemporaneità con cognizione di causa? Accidenti, mi sono tirata la zappa sui
piedi: di poetini che danno la mano, e forse non solo quella, al loro presunto
Virgilio d’oggidì ce ne sono fin troppi. Ma mica si prestano ad attraversare
l’inferno: cercano subito l’ascensore per i piani alti, per gli open space con
vista sui laghetti artificiali. Epperò gli editori pubblicano ciò che vendono,
della poesia non si occupano davvero più, così gli specchi diventano specchietti
per allodole, giusto per ricordarci del settore, dell’angolino in basso in fondo
alle librerie, quello spazietto da riempire tra i classici latini e il
teatro. Del resto si diventa editori per fare affari, e le scadenze sempre più
immediate impediscono di imbastire piani non si dica nemmeno stalinianamente
quinquennali, ma berlusconianamente trimestrali (cento giorni, via). Figurarsi
se i manager della carta stampata pensano al capitale simbolico da accumulare
nel corso dei decenni, al prestigio, alla rendita quando un autore finirà nei
manuali scolastici. I quali, poi, o restano cautamente fermi alla compagnia
briscola di cui sopra o tentano sortite con logiche sempre più vaghe,
confondendo le idee ai già confusi.
Che dite? Il compito di riconoscere i valori in campo spetterebbe ai critici?
No, per carità, smettetela di credere a babbo Natale. I critici non esistono
più. Oppure esistono in queste sottocategorie inutili e perniciose:
a) i critici militanti, i partigiani di una particolare idea di poesia, che poi
resta vaga perché va bene sia la prosa sia il sonetto, sia il testo
iper-retorico sia quello tendente al grado zero dello stile, sia l’approccio pop
sia l’impegno civile, qualsiasi cosa insomma purché si faccia parte di quella
nuvola di scrittori-insetti che continuano a ronzare intorno al capo del capo.
L’importante è che la poesia non sia sincera esposizione delle proprie
entraglie. E ci mancherebbe;
b) critici del post. No, non è questione di post-poesia, non ancora. E nemmeno
di post sui social, anzi. E non parlo nemmeno dei post-critici (in merito
leggetevi la Postcritica di Mariano Croce: vi farà bene). I critici del post
sono quelli che vivono della morte stessa della critica, ma continuano ad
abitarne le spoglie. Sono i critici postumi, quelli che fanno salotto attorno al
ring dove i poeti se la danno di santa ragione, pronti a intervenire solo dopo,
per premiare i vincitori. Sono quelli che ripetono ciò che si sa già (tipo:
Montale è il maggior poeta del Novecento – verità che tra l’altro sarebbe ora di
ridiscutere, ma questo un’altra volta), che non si occupano dei contemporanei
perché non è in caso di compromettersi e di rendersi responsabili,
maieuticamente, di ciò che di buono potrebbe anche venir fuori. Prima si faccia
il canone (con quali criteri: l’amichettismo e i giochi di potere? Io se ci sono
non guardo non vedo non sento non parlo, gesticola il suddetto), poi il critico
del post arriverà a incoronare il poeta e qualunque poesia proponga (tali
critici non hanno gusti difficili, anzi, non hanno gusti punto);
c) i critici accademici che, se animati dalle migliori intenzioni contro “la
cultura in scatola” (leggetevi adesso lo splendido Universitaly di Federico
Bertoni), restano comunque schiacciati dalla pila di libri che si accumula sulle
loro scrivanie e alla fine vanno un po’ a caso, pescando una volta a destra e
una volta a sinistra, una volta in alto e una volta in basso; se invece
ferocemente addestrati alle logiche del loro mondo, evitano la menoma
contaminazione col presente e preferiscono dedicarsi alla raccolta delle lettere
dell’ultimo riesumato futurista di turno, tanto loro sono accademici quindi
patentati e schifiltosi di qualsiasi immersione nella Palus Putredinis
oggidiana, in cui, francamente, non saprebbero affatto destreggiarsi: forse
meglio così, giacché farebbero soltanto danni maggiori;
d) i critici para accademici, che sono indubbiamente accademici e quindi guai a
presentarli con il titolo sbagliato, ma sono anche scrittori e intellettuali
ruspanti, scattanti di fronte a ogni possibile comparsata in tivvù, scattosi nei
social dove danno vita ai loro avatar, con cui non vanno confusi (studiosi del
dadaismo che si travestono e ballano il dadaumpa su TikTok), scazzati nei loro
stessi corsi di scrittura creativa, giacché di tesine scritte con l’IA ne han
già piene le balle o le ovaie, figurarsi di romanzi purtroppo scritti senza
l’IA;
e) i critici massimalisti, che possono sentenziare su chiunque, da Dante
compreso in giù, e affrontare qualsiasi argomento con la stessa reboante
loquacità di Cacciari, tanto i testi li guardano sempre con il binocolo, mica
impiccano lì le loro teorie, mica arrotano i versi come coltelli: qualunque
autore è una brodaglia insulsa, se solo non si adegua completamente al loro
imperscrutabile gusto.
Trovatemene uno che sappia ridimensionare qualche poeta maggiore di oggi, non
dietro l’anonimato di una giuria di premio condivisa con altri, ma con saggi
acuti, con analisi testuali, necessari altresì per addestrare lettori
competenti.
Tabula rasa, allora, dicevamo, poiché editori e critici non fanno filtro. “E se
ci pensassero i poeti stessi?” – filtra l’ultima bava di ottimismo da qualche
irriducibile novecentista caduto nel secolo sbagliato. Prendere atto: quei pochi
poeti che possono permetterselo, appunto perché arrivano fin qui con il
prestigio dovuto alle ultime onde del millennio scorso, di essere padri o madri
letterariamente non ci pensano nemmeno (e forse anche biologicamente arrancano:
intervenga il sociologo a indagare). Loro esercitano con compiacimento il potere
di scegliere, e scelgono con contezza di promuovere i mediocri, per meglio
evidenziare la loro statura letteraria e il loro potere editoriale. Fosse per
loro, applicherebbero la damnatio memoriae sistematicamente su chiunque
rivendicasse diritto di eredità (mica soldi, neh, si parla sempre di poesia) per
più antico lignaggio o per altra, irregolare, intrusione nella casata. Niente
bastardi, insomma. (Vallo a spiegare ai tali che la damnatio memoriae, appena
lasceranno la poltrona, toccherà a loro).
Ah, il malseme di Dante. Sommo poeta, pensaci tu.
*
Ma che significherebbe, oggi, tornare a volgere lo sguardo a Dante? Puro atto di
masochismo, verrebbe da sentenziare, poiché Dante è insuperabile per ovvie
ragioni: egli è la massima espressione di un mondo che non c’è più, capace di
portare a sintesi un’intera cultura. Dopo di lui, con impressionante rapidità
(già Petrarca è moderno) la sintesi si disgrega e passo dopo passo lirica,
economia, politica, scienza, medicina, filosofia e via elencando vanno
specificandosi iuxta propria principia, lungo una serie di rivoluzioni che hanno
portato dritti all’irreversibile agonia del tedio contemporaneo. Copernico,
Darwin e Freud sono i picconatori dell’antropologia occidentale, a cui
aggiungere volendo gli altri filosofi del sospetto per apparecchiarci alle
catastrofi novecentesche. Come non bastasse, appena riemersi dalle apocalissi
storiche e ideologiche, ecco l’avvento del digitale e l’intelligenza artificiale
adesso a consegnarci a una condizione che taluni già definiscono postumana.
Come guardare ancora a Dante, su quali fronti la sua grandezza ci interpella?
Tre questioni su tutte porrei come cartelli sulla strada di chi vorrebbe, da
poeta, tentare almeno di uscire dal labirinto della buona, patinata, mediocre
letteratura che inebetisce, e imbruttisce, l’epoca: l’ampiezza di registro
espressivo, il poema e l’esilio.
Qui, soffermiamoci sulla prima.
*
Varrà la pena ricordare ai versificatori meno avvezzi alla letteratura italiana
che Dante Alighieri non è il modello vincente della nostra tradizione. Ben
presto abbiamo tradito sì gran padre (anche se in tal caso il crimine non è solo
il parricidio letterario di generazioni successive, considerato il trattamento
riservatogli dai fratelli concittadini: del resto i luoghi comuni
dell’intellettuale che non sarà mai profeta in patria e del poeta destinato solo
a gloria postuma in qualche parte hanno radice). Ha vinto, semmai, Petrarca.
Come spiegano quelli bravi, Petrarca ha azzerato Dante (già frastornato
dall’improvviso revival del latino) e, con il beneplacito di quel curiale
grammatico del Bembo, la lirica italiana ha trovato nell’autore del Rerum
vulgarium fragmenta (volgarmente, il Canzoniere) la matrice del proprio
vocabolario. La ragione è elementare: costruire un dizionario della lingua
italiana sul repertorio vastissimo della Divina commedia (capace di aprirsi e
abbracciare tutti e tre gli stili: l’umile, il medio e il sublime) era
impraticabile. La soluzione ottimale, invece, era già pronta all’uso: la lingua
vaga, elegante, sufficientemente generica e allusiva, ma soprattutto
circoscritta, del Canzoniere. Perfetta per imbalsamare l’italiano (scritto) per
secoli, fino almeno a Leopardi, a sua volta capace del prodigio, giunti ormai al
secolo decimonono, di rispolverarlo e farlo suonare persino sorgivo. Roba da
necrofili prestidigitatori. Che poi, certo, in quello stesso secolo Dante torni
prepotentemente in auge in virtù degli umori romantici e risorgimentali è vero,
ma abbiamo dovuto re-inoculare la lingua sperimentale di Dante recuperandola
dalla finestra, via Eliot (senza dimenticare, tuttavia, l’edizione critica
delle Rime dovuta al giovane e talentuoso Contini: ma qui si è nutrita ancora
primariamente la vena lirica, attraverso lo stilnovismo mutante assorbito da
Montale. Del resto la Commedia in quei decenni veniva tagliuzzata da Croce
intento a separare l’oro della poesia dall’ottone della struttura, manco fosse
lui il miglior fabbro del parlar materno).
Dante paradisiaco secondo Moebius
Fatto sta che i conti con Dante si sono riaperti in fondo soltanto di recente.
Ma a giudicare dalla medietà patinata (aurea mediocritas?) e dal lirismo di cui
è ancora impregnato quanto meno il sottofondo comune del diffuso poetare nel
Belpaese, rinomata terra popolata di poeti a ogni latitudine, l’apertura alare
del Sommo all’interno della lingua materna ci relega al ruolo di pulcini in
ombra.
Oh, certo, di sperimentatori e di avanguardie si fa ricco il Novecento, ma
l’impressione è che vengano alla fine sempre spinti ai margini del canone,
mentre risultano vincenti ancora gli autori riconoscibili e brandizzabili, dallo
stile complessivamente monocorde, costante dall’inizio alla fine, che procede al
più per piccoli, equilibrati adattamenti. Facile, troppo facile motivare questa
tendenza, qualora fosse verificata (o storicamente, anche per pigrizia,
avallata): l’identità di un poeta si costruisce attorno all’autenticità di una
voce e per mezzo dell’abbandono di ogni orpello retorico, di ogni posa, di ogni
“canto” oggi insostenibile. Siamo nell’epoca del tono basso, dell’assenza di
pubblico, del poeta che si rivolge a un tu (in cui spesso si rispecchia sé
stesso). Siamo nell’epoca del relativismo, del pensiero debole, del male di
vivere. E siamo perciò rassegnati ai mugugni, pronti semmai a puntellare le
nostre rovine. Di costruire altre cattedrali non se ne parla nemmeno.
Diverrebbero in breve tempo chiese sconsacrate da riempire di libri insulsi, non
più in grado di consolare la carne triste dell’umanità inebetita sui display.
Siamo nell’infinita fine occidentale. Se mai passasse di qui un nuovo poeta
visionario, lo spediremmo subito all’esilio, spernacchiandolo a dovere. Dante,
più che insuperabile, è irraggiungibile. Lo si innalza, per imbalsamarne il
busto e rimuoverlo nella sua aura di perfezione. Italia, terra non solo di
poeti, ma anche di santi, ricordi che cosa scriveva Joseph Roth nella Cripta dei
cappuccini?
> “La Chiesa romana […] in questo marcio mondo è l’unica ormai in grado di dare,
> di conservare una forma. Anzi, si può dire, di dispensare una forma. In quanto
> racchiude nella dogmatica, come in un palazzo di ghiaccio, l’elemento
> tradizionale delle cosiddette ‘antiche usanze’, procura e concede ai suoi
> figli tutt’intorno, fuori di questo palazzo di ghiaccio che ha un ampio e
> spazioso vestibolo, la libertà di coltivare l’indolenza, di perdonare
> l’illecito, e anzi di commetterlo. Mentre statuisce i peccati, già li perdona.
> Non ammette assolutamente uomini perfetti: questo è il suo contenuto
> eminentemente umano. I suoi figli perfetti essa li santifica. Con questo
> ammette implicitamente l’imperfezione umana. Anzi, ammette l’inclinazione al
> peccato nella misura in cui non considera più come umani quegli esseri che al
> peccato non sono soggetti: questi diventano beati o santi. Con ciò la Chiesa
> romana dà testimonianza della sua fondamentale propensione al perdono, alla
> remissione. […]”.
Ridotta a parrocchia periferica zeppa di epigoni, la poesia italiana innalza
Dante e concede plenaria indulgenza a sé stessa. Così, tra nani svetta chi ha la
sigla editoriale più spessa, e per ciò stesso si potrà legittimamente
autoinserire nelle antologie, mentre rigira per l’ennesima volta la frittata dei
propri versicoli strascicati.
Ahi, serva Italia.
Andrea Temporelli
*In copertina: William Blake, The Circle of Corrupt Officials: The Devils
Tormenting Ciampolo, 1825 ca.
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L'articolo Dante, l’insuperabile. Ecco perché la poesia italiana è una
parrocchia periferica zeppa di epigoni proviene da Pangea.
Gliel’ho detto così, brutale, a bruciapelo. Il tuo libro non mi è piaciuto.
Sembrava saperlo. Sembra sapere tutto. Sembrava sollevato. Poi ho capito
qualcosa – che dirò più tardi.
Con La Repubblica italiana dei poeti – Edizioni Industria & Letteratura, 2025 –
Andrea Temporelli tenta di costruire un orizzonte per comprendere la poesia
italiana contemporanea. Lo fa consapevole del frainteso, per un bene più grande,
a mo’ di lascito. Più che la costruzione di un nuovo canone, mi pare la sua
disfatta – qualcosa di simile all’Uranometria di Johann Bayer, dove gli ammassi
stellari possono sembrare draghi, pellicani ed eroi omerici fuori tempo, oppure
meri emblemi del nostro disorientamento. In sostanza, Temporelli passa in
rassegna oltre seicento poeti. Neppure troppi, se si pensa che Pier Vincenzo
Mengaldo, nel ’78, ne ha riferiti, a rappresentare i Poeti italiani del
Novecento, una cinquantina – non tutti indimenticabili –; un numero che è
andato, con lo svolgersi dei decenni, drammaticamente levitando.
La Repubblica italiana dei poeti – io propendo ancora per la “Dittatura
dell’unico” – è costruita a contrario rispetto a una comune antologia. Dopo aver
impilato i poeti di cui occorre “leggere tutto”, “tutto o quasi”, “tutto o quel
che si può” (il che è tutto risolto a pagina 28), l’autore si impegna – per le
successive duecento e passa pagine – a dar conto degli esclusi. Questa porzione
del libro s’intitola La cura degli assenti; non è secondario ricordare – a dire
della mente simbolica dell’autore, nel senso che tiene assieme tutto – che
quello è anche il titolo di una recente poesia di Temporelli (il quale, per buon
gusto – anzi, con alta malizia –, non si auto-antologizza), apparsa su un numero
di “Poesia” (n.31, Maggio-Giugno 2025). Ne ricalco alcuni lacerti, i più belli:
> “La neve invece
> prepara il fango, l’usura del gelo, il silenzio
> ingoiato per fame, vera fame. […]
> L’osso scartato dai cani
> è la prima idea del mattino”.
Nel circuito di queste parole – la neve e la fame, l’osso, il mattino, i cani –
si trova forse la chiave per comprendere La Repubblica dei poeti.
Smetto di cianciare.
Il lavoro di Temporelli è folle: richiede la mente di Cartesio in un corpo
dionisiaco. La danza, selvaggia, pretende, perché la profezia si avveri, di
polverizzare tutto: così un figlio s’india nel padre e il padre può smettere di
essere padre, ma acqua, mano, neve.
La Repubblica italiana dei poeti, attaccavo, è un libro che non mi piace. Ovvio:
la vertigine dei nomi – legionedirebbe l’evangelista – fa svenire, fa venir
voglia di consacrarsi ad altro. Ma sarebbe sbagliato perché ogni singola vita –
insegna l’autore o la sua ombra – va benedetta. Non mi piace, dicevo, perché ho
avuto il privilegio di scorrazzare nella savana di “Atelier”, la rivista ideata
da Marco Merlin – l’altro lato di Andrea Temporelli, il suo idolo – trent’anni
fa e da lui diretta fino al 2013. A quell’epoca – di cui potete leggere tutto –,
era già tutto chiaro, con furia lungimirante, ad alto grado di ebbrezza: la fine
dei ‘maestri’, l’implosione di ogni ordine di autorevolezza (ergo: pubblicare
per ‘Lo Specchio’ Mondadori equivale a stampare per l’editore-artigiano sotto
casa), la latitanza da ogni orizzonte di gloria, il brigantaggio del linguaggio,
la critica spettrale, atta a certificare la lebbra, la morte-in-vita. Alla
letteratura, appunto – con le sue stole, le moine, i premi, il delirio
patologico dell’egotismo – preferimmo la vita. Per intenderci, così scriveva
Marco Merlin nell’editoriale di “Atelier” del marzo 2004:
> “La nostra parte ci è chiara. Quello che spetta a noi è stare, verticali,
> dentro il nostro respiro, smemorati del nostro nome, aperti a tutto, senza
> privilegio alcuno da difendere. Ma anche senza la paura di testimoniare le
> passioni che ci animano e di soffiare sull’orizzonte, per vedere se qualche
> zolla comincia a bruciare”.
Ho conosciuto Marco Merlin attorno a un editoriale dal titolo che ancora brucia,
“Militare più che militante”. Era il 2001. Quegli editoriali (dai
titoli-emblema: “Siamo poeti o giullari?”; “Fine del Novecento”; “Lo scisma
della poesia”; “La poesia è una marchetta”; “Liberarsi dalla letteratura”), che
costituiscono una delle audacie più pure e più folli della poesia recente, sono
stati poi raccolti in un libro, Smarcamenti, affondi e fughe(Giuliano Ladolfi
Editore, 2016). L’autore di quel libro risulta essere Andrea Temporelli – in
realtà è Marco Merlin. Andrea Temporelli – che ho chiamato al dialogo – ha
inglobato e divorato Marco Merlin, maestro di cui sono ormai orfano.
Ricalco alcune frasi – come sempre di miliare potenza, che istigano a un compito
– con cui Temporelli chiude La Repubblica dei poeti. “La competizione, semmai, è
crescere verticali su sé stessi per raccogliere più luce”; “Riconosciamo nel
dissenso e nella diversità di vedute l’unica opportunità sensata e interessante
per superare la palude contemporanea. Il nemico leale sarà il vero maestro, la
pietra per saggiare e rafforzare il talento”.
Ora ho capito – dicevo al principio. La ridda di nomi serve per disfarsene – per
disfarsi, soprattutto, del proprio sguardo ‘critico’, del proprio io. Un
ritornare puri dopo la puritana guerra. Sporchi, luridi – ma vivi.
Andrea Temporelli ha scelto il deserto – che lo dica bosco è lo stesso. Lo
chiamerò Ismaele. Il figlio di Abramo “abitò nel deserto e divenne un arciere”
(Gn 21, 20). Arciere in ebraico si dice qashshath, parola che viene usata
soltanto una volta in tutto il Testo, per onorare Ismaele. Il figlio sinistro ha
destrezza nell’arco, non si fa addestrare dalla trafila del Patto. Alla Terra
Promessa preferisce il Nessundove dei rettili e dei cavalli rudi, dal pelo
ispido, le dune e le tende al giardino del tempio. Mi viene in mente il bel
libro di Octavio Paz, L’arco e la lira – ma lì si parlava di Apollo. Chissà se
il dardo sibila in endecasillabi prima di avverarsi nella preda. Parole,
parole.
Immagino Temporelli, di spalle, l’arco a tracolla – ed è tutto.
Andrea Temporelli: che fine ha fatto Marco Merlin?
Finalmente si è tolto dalle scatole. Me lo sono divorato e sbocconcellato fino
all’ultimo brandello e ora, dopo una bella dieta dimagrante, posso scattare
senza ingombri oltre il suo territorio limitato. Averlo fatto fuori, mi
permetterà di scrivere, disinibito, lasciando ad altri la teoria e il lavoro
critico. Temo solo che qualcuno voglia fare pagare a me i suoi debiti. Ma, si
sappia, non ci penso nemmeno. Mi chiedo, divertito, quanto tempo gli altri ci
metteranno a capire che non c’è più.
Che rapporto c’è tra “L’opera comune” e “La Repubblica italiana dei poeti”?
Idealmente, sono due meravigliosi fallimenti concentrici. Il primo, entro il
raggio ristretto dell’amicizia; il secondo, con un raggio quasi illimitato che
rilancia in una dimensione politica la medesima utopia.
Che rapporto c’è, nel tuo ‘metodo’ poetico – dunque, esistenziale – tra il
deserto che ti sei scavato e la massa di poeti – una schiera, una falange, una
squadriglia – che hai scovato?
Non lo so. Era una domanda da porre a quell’altro, che non c’è più. Io non
possiedo il metodo, semmai ne sono posseduto e solo dall’esterno qualcuno potrà
descriverlo. Per me la massa è il deserto.
I maestri sono scimmie ammaestrate che desiderano portaborse, l’autorevolezza
editoriale è defunta da un pezzo, gli editori ‘di peso’ equivalgono ai pesi
piuma. In questo spazio – che dura da più di un ventennio – di libertà assoluta,
che senso ha rifondare un canone, perimetrare un ‘orizzonte’?
Tutta la vicenda umana consiste nell’innalzare castelli di ghiaccio nel deserto!
Lo si fa per obbedienza a un senso di bellezza, alla bellezza di un senso che ci
sfugge. Detto questo, tu lo sai bene e lo hai spiegato: si fa l’appello per lo
sterminio della vanità, per attraversare il fuoco dell’opera (nostra, altrui,
comune) che ci travalica, che diventa dono. Di maestri non ne ho più bisogno,
ormai. Ma non fraintendermi: preferirei averne ancora desiderio, significherebbe
essere ancora giovani e aperti a molteplici sviluppi. Alla mia età, però,
sarebbe patologico insistere a cercare “padri”. Quelli che si sono presentati
come tali, erano padrini incapaci di riconoscere e difendere la profezia degli
eventuali figli e, dunque, non c’è stato reciproco riconoscimento. Hanno
preferito, come indichi nella domanda, la gratificazione immediata del
rispecchiamento. Si sono bruciati da soli, in tal senso. E sono fiducioso: la
loro eredità, per fortuna, andrà perduta. La loro autoconsacrazione nel canone
non ha fondamento. Io, con questo libro, rimetto idealmente tutto in
discussione. I conti con la tradizione, vivaddio, sono sempre aperti, e lo
sguardo determinante è quello dei posteri, degli alieni che equivocheranno,
rimedieranno, rimuoveranno secondo la loro logica, non secondo quella di chi li
ha preceduti.
Lui è Andrea Temporelli o Marco Merlin?
Nella tua “Repubblica” pare che la quantità abbia soppiantato la qualità. Mentre
il secolo scorso si può riassumere entro una piramide di nomi e di dicotomie
(Pascoli/D’Annunzio; Ungaretti/Montale/Svevo; Luzi/Zanzotto/Sereni/Caproni etc.,
con singolarità satellitari – es. Campana, Sbarbaro, Rosselli, Bertolucci,
Pasolini, Pozzi…) l’oggi è l’assembramento di centinaia. Il poeta è detronizzato
dallo storicismo, dall’orizzontalità dilagante, da una analfabeta
alfabetizzazione? Cosa?
Siamo passati dall’umanesimo aristocratico, con i suoi pregi e difetti, alla
democratura dell’individualismo capitalistico. Ma la rete si sta formando: i
nodi strategici si rafforzeranno, le cricche saranno poste ai margini, la
coscienza generale lascerà emergere le nuove strutture, e anche la matassa ora
apparentemente indistricabile in cui ognuno pare avere il diritto di
autorealizzarsi (in qualsiasi pratica sociale o forma d’arte) avrà una sua
figura riconoscibile. Manca qualcuno, nel mio catalogo? Indubbiamente. Tu
aggiungeresti, mi hai detto, Ivano Fermini, io Sonia Gentili e, forse, Ugo
Magnanti e Domenico Segna; ma anche qualche decina di nomi ulteriori non
smuoverebbe la massa critica di oltre seicento autori (selezionati!). Per questo
la fotografia del panorama resta complessivamente credibile e, adesso che il
perimetro è ragionevolmente chiuso, si potrà anche eleggere i pochi che
veramente svettano – spiegando perché, rendendo ragione, insomma, di tutti gli
altri. Questo è l’intento del libro. Se poi si vorrà ammettere che non svetta
nessuno, che abbiamo tante colline e che in generale la produzione poetica è
buona (una visione ottimistica e inclusiva), sia pure. Saremo un’epoca di
produzione di massa da cui prendere, di volta in volta, esempi a capriccio. Per
quel che riguarda me, invece, arriverei a dire che i poeti che mi interessano e
che continuerò a seguire sono pochissimi. Due mani per contarli basteranno.
Che rapporto c’è, cioè, tra il singolare talento di un poeta e la ‘comunità’ dei
poeti?
Vedo che fatichi anche tu a ricordarti che Marco Merlin non c’è più. È una
domanda a cui lui avrebbe saputo rispondere. Non a caso, la Repubblica italiana
dei poeti non è un suo libro, perché non ha metodo e uniformità di sguardo
critico. È il bolo fermentante, il rigurgito con cui ho digerito ciò che lui
avrebbe voluto apparecchiare con perizia tecnica. Perdonerai l’immagine
infelice, che però coglie nel segno.
Che differenza c’è, cioè, tra generosità ed ecumenismo, tra dottrina e
indottrinamento?
Non lo so. Umanamente e intellettualmente, mi addestro alla generosità, con
risultati alterni. L’ecumenismo e l’indottrinamento spettano a chi ha qualche
idea da imporre agli altri. Magari qualche poetica. Io invece non ne ho. Non a
caso, nel libro non escludo nessuna ipotesi di poesia, nessun orientamento
specifico.
In un recente incontro, hai usato la parola ‘benedire’. Spiegami: cosa significa
nel contesto della tua ricerca?
Benedire significa dire bene. Pronunciare un nome in modo che il chiamato si
senta compreso, rispettato, amato. Significa riconoscere l’alterità. Anche
quando si convoca l’altro per una responsabilità, per chiedere di rispondere a
qualcosa che ha che fare con la relazione. Occorre benedire ogni poeta, e
benedire ogni epoca. Anche la propria, che è sempre così facile da disprezzare.
La poesia all’epoca dell’Intelligenza Artificiale: che senso ha? Che poeta
verrà?
Non lo so. Ma sono molto curioso. Penso che mi troverò a mio agio nella
strategia della continua evoluzione di pensiero e di stile. L’IA è il terreno in
cui coltivare la Maniera. L’arte sopravvivrà in forme più selvatiche. L’errore,
l’imperfezione, lo scatto qualitativo imprevisto rispetto al sistema saranno le
stimmate della verità poetica. E l’errore evolutivo, lo scarto, ogni forma di
smarcamento hanno a che fare con l’emozione, che resta supporto
dell’intelligenza umana, come ha dimostrato Damasio.
Ma chissà, staremo a vedere.
Mi pare che la poesia abbia perso premura di profezia, è così orientata al tempo
presente da perderlo di vista. Sbaglio, sono un qualunquista?
Ciò che è davvero presente, pre-sente. Ma molti poeti, hai ragione, non sono
presenti a sé stessi, perché si fissano nello specchio, anziché guardare la
scena in cui sono essi stessi inseriti. Forse, la fotografia dell’oggidì
scattata in questa Repubblica italiana dei poeti fornirà a qualcuno la scossa
per risvegliarsi dall’incantamento.
E ora… cosa scrivi?
Ho una raccolta di poesie quasi pronta; si intitola Luz. Ho in gestazione un
poema, per ora informe. Queste le sento come due opere urgenti, che vorrei
licenziare quanto prima, per determinare un punto di non ritorno. Ma sto
concependo anche un romanzo fantasy, o forse più propriamente epico, che
potrebbe anche abortire e ho un semenzaio di appunti su quaderni e diari
piuttosto vasto. Ho il presentimento di un flusso poetico che vuole emergere in
modo continuativo con una sua particolare struttura, insieme mossa e
determinata. Mi tenta, per tutte queste avventure, l’ipotesi di dedicarmici in
una condizione di libertà dalla pubblicazione. Molto di ciò che scriverò, oltre
ai prossimi due passi poetici (Luz e il poema), potrebbe restare inedito per
scelta. Non so. Non vorrei che fosse il segno di una resa, un alibi rispetto
alla “lotta” per difendere ciò in cui si crede. Ma l’idea di attendere i
fatidici nove anni prima di rileggersi ed eventualmente proporsi a un editore mi
piace, mi dà pace. O magari andare ben oltre i nove anni. Ci pensi anche tu?
Scrivere per non pubblicare, ma solo per dedicarsi all’opera. Che vertigine di
libertà!
*In copertina: Leonardo da Vinci, Studio per la testa di un guerriero, 1504 ca.
L'articolo “Benedire tutto, crescere verticali su sé stessi”. Dialogo con Andrea
Temporelli proviene da Pangea.
Forse è a causa di quel rigagnolo: scorre trascinando con sé un’Amazzonia in
miniatura – di sé ha intriso la terra che nonostante il sole, spazia in pozze,
in Pleistocene di fango. Entità spirituale di questo rio colombella, questo rio
piccionaia, che tutto trasfonde in melma, in creazione presa appena all’inizio.
Per questo, si marcia a strappi, il sentiero è disadatto, occorre andare per
roveti, per i campi, il cui verde, oggi, è abbagliante, è un abbigliamento di
lampi.
I caprioli calligrafi hanno lasciato insegne e vessilli sul fango – una loro
Iliade, una loro Torah di sumere zampe. Come è possibile risalire al loro
insegnamento, al loro insinuarsi tra le insenature dell’alfabeto? I bronchi del
bosco ruggiscono. Dov’è la bestia a quest’ora?
Penso alla cerva assetata del Salmo 42 – alla cerva che apre la sua criniera,
più vasta del sole.
Gli elementi del mondo, a quest’ora, sono in agguato, sono sulla cuspide
dell’ira – le rondini si affacciano come falcetti, il cielo, ben tosato, ora può
correre, come una pecora.
*
Più tardi, appunto, le pecore. Pecore raganelle, al pascolo.
Ma ciò che vedo non è innocente – ciò che vedo è forse un agnus dei in
muratura.
Il campanile della chiesa spicca, come il grano, chiaro, splende, ovunque. La
chiesa, però, è in crollo. Hanno smontato l’altare e gli alberi crescono felici
dov’era la navata centrale: il fico ha la buddità sulle foglie a palme aperte. A
cascata, l’edera penetra nell’abside, penetra per le finestre; la cupola è
sfondata, stelle a sei punte, orfane, trottano sui residui della volta. Hanno
sete e vogliono un capezzolo a cui ancorarsi. La trave, travolta, sembra un
drago; un serpentario, immagino, sotto i piedi.
Bosco in lotta con l’angelo.
Poco oltre: il cimitero. L’erba, la barbarica, degna erede degli Unni, ha
travolto ogni cosa. Apro il cancello – non disturbare i morti, non esserne
ostaggio, dice una voce – un cartello, di esosa ipocrisia, detta gli orari delle
visite. Lapidi irriconoscibili, fotografie tumulate dall’oblio; una croce, in
ascesa, tra quella gloria erbacea; ruggine a significare il Giordano e la
benedizione.
Glabri morti, grati morti.
*
Non saprei dire se sia questa la benedizione. Morire a tal punto che il marmo
inghiotta l’iscrizione del nome – morire innominati – morire succubi dell’erba.
Lì per lì però penso ad altro. A come possa sparire un paese. Chi lo ha
inghiottito?
Quei morti, dico. Avranno avuto figli, fratelli, zii, cugini. Quando si è
interrotto il legame di venerazione, quando si è interrata la stirpe? Come il
fiume sotterraneo che erutta fango. Il fiume è invisibile, e tu pattini sulla
sua coltre – e il fango ti afferra le scarpe, i calcagni, le caviglie. Pretende
che ti inginocchi.
Prova a sellare la cerva, prova a scalfirne la sete, l’insaziabile.
Sussurro la preghiera che il Nazareno ci ha insegnato. Sciamano vespe. Ronzano i
morti.
Quando non si venerano i morti, si muore.
Del paese resta l’insegna, l’istoriato nome – poi: qualche silos in abbandono,
case sfondate, un aratro meccanico sotto un velcro di piumate erbe. Falangi di
felci. I corvi, i rospi del cielo, volano a coppie. L’iddio ha il corpo della
cinghialessa e non so se questo sia qualcosa che si approssima al bianco, al
significato della parola bianco.
Dentro una casa, certuni onorano la festa – gli unici vivi. Vivono dietro una
trincea di lavanda. La casa è verde. Opera di coltello e d’amore – sopravvissuti
– una visione, forse.
*
Forse tradurre il testo sacro, la Bibbia, ha a che fare con quest’opera di
terribile spoliazione.
Per noi che veniamo dopo tutto questo manovrare di linguaggi, dopo il cardine,
il cardinalizio, l’andare tra i cardi. Forse è questo lavorare senza l’altare
che ci protegga, senza più paramenti né paratie – con l’erba in faccia. Con
l’erba alta che sfacciatamente ci spezza il viso. Erba che inibisce le gengive
all’inno – un nuovo innario da fare, come le frecce.
Insieme a Roberta Rocelli, per il Festival Biblico in atto quest’anno, si è dato
forma al “Salterio dei Poeti”. A trentatré poeti, italiani e non solo, è stato
chiesto di tradurre un salmo. Non contano i nomi, la nomea, la ‘competenza’: nel
gruppo, ci sono poeti noti e ignoti, vecchi di vita e giovanissimi, cattolici o
atei; c’è chi ha tradotto dall’ebraico e chi dalla “King James”, la versione
inglese, chi dal greco dei “Settanta”, chi dal tedesco o dal latino, chi
riformulando l’italiano, in un enigma traduttivo che comporta ascesi,
asciuttezza, svuotamento di sé. Alcuni sono restati ancorati alla lettera,
altri, letteralmente, sono andati fuori via, negli ignoti della propria
ispirazione – tradurre, d’altronde, lo detta San Paolo, è un carisma, non
incardinato, dunque, ad alcuna dottrina di esperti e specialisti. Qui,
specialmente, ci sono degli avventati, degli insipienti – a questa forma di
speciale inettitudine, di avventuriera investigazione si dà nome poesia.
Nel “Salterio dei Poeti” – che è un breviario da tenere in tasca, sempre con sé,
a monito e a protezione – c’è un salmo tradotto in friulano e c’è un salmo
extracanonico, c’è un salmo trapiantato nella lingua astrale di un poeta
australiano. Il libro – fuori commercio, cosa per latitanti dall’ovvio – sarà in
giro nei giorni del Biblico, dal venticinque aprile in poi, fino a giugno, qua e
là.
Ciò a cui ci si appella, è certo, è la lunga, disordinata, dissotterrata
tradizione di poeti e scrittori che hanno verificato il dire biblico. La nostra
poesia – francescana prima che cortigiana – da quello proviene. Dunque: Dante,
l’Assisiate, Jacopone, Petrarca; il Giobbe secondo Leopardi, le ustioni di
Manzoni; Bontempelli, Quasimodo, Pasolini, Testori, Luzi, Raboni… Non si è mai
tentato, finora, in Occidente, tranne sporadici, singolari, pur straordinari
momenti – gli esperimenti biblici di Guido Ceronetti e di Erri De Luca, quelli
di Jean Grosjean e di Paul Claudel in Francia, per dire, Coleridge e Milton
nell’antro anglofono, i saggi di Harold Bloom negli Stati Uniti – un’indagine
così ampia sui rapporti tra parola sacra e parola poetica, tra poesia
contemporanea e Bibbia. Il libro dei Salmi, il libro infinito, è il ‘grande
codice’ della poesia occidentale: Davide, il re salmista, che con il canto placa
il male e piega Dio al suo sussurro, danza al fianco di Orfeo.
*
Leggo qualcosa che Tiziana Cera Rosco ha scritto intorno a questa Pasqua. Io che
del Vangelo non so trattenere nulla, se non un invito al fuoco, all’abbandono,
all’abominio del sé, da setacciare fino alla garza del grazie, ricalco e imparo:
> “Dal profondo del mio cuore non mi importa della resurrezione ossia se Gesù
> sia risorto o meno. Mi importa invece tantissimo che abbia portato l’idea del
> risorgere così in alto e così vicino alle nostre possibilità tanto da cambiare
> la prospettiva alla vita. Mi importa tremendamente che sia vissuto – che uomo
> incredibile, faccio fatica a tenerlo tutto a mente – e che sia vissuto così
> vicino a me tanto che potevamo incontrarci perché 2025 anni, in questo tempo
> infinito di tutte le cose, non sono nulla”.
Nel Salmo che ha tradotto, il 51 – riprodotto in calce – appaiono anche “i cani
nella neve”. Forse è lì, nel bianco ovunque, nel bianco-bianco, che accade Dio –
mio Iddio lebbra, mio Iddio artico, mio Iddio capodoglio, mio Iddio tutto e
tutto sia un Moby Dick.
*
Leggendo Giovanni, il brano evangelico in cui Gesù appare a Maria di Magdala –
20, 11 ss.; mi aiuto con la non bella ma utile traduzione di Giancarlo Gaeta
edita da Quodlibet. Capisco – più che altro, annaspando – che i morti, gli
appena morti, restano per un po’ tra noi, a rinnovare i legami (“Non
trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre”), o a scioglierli per
sempre. Come sempre, Gesù è frainteso, è irriconosciuto e irriconoscibile: in
vita lo dicevano profeta, un Elia; ora, apparso, è preso per “il giardiniere”;
anzi, per colui che ha trafugato la salma del Nazareno (“se l’hai portato via
tu, dimmi dove l’hai messo e io andrò a prenderlo”: estrema predazione del
corpo, in predicato di unguenti). Atto di sabotaggio di Gesù e a se stesso.
Nessuno sa individuarlo, sa dire chi egli sia: la voce, però, è più del volto.
Al sentire il suo nome, al sentirsi chiamata – Mariam! – la donna capisce, la
donna sa, Rabbuni! Sempre è necessaria la contraffazione, la contraddizione –
morire per rinascere veri. Troppo facile circostanziare i fatti in un volto:
identità non è l’identico.
Questo andare tra irriconoscenza e sconosciuto è poi il tradurre.
Impaniarsi, si dirà – non è detto che appaia.
**
Dal “Salterio dei Poeti”
Salmo 42
Lamento del Levita in esilio
Al maestro del coro. Maskil. Dei figli di Qorah.
Cerva assetata l’anima mia
sbava per rivoli d’acqua – per te, o Dio.
L’anima mia è in arsura per Dio, il Dio zampilla-vita;
quando potrò tornare ed espormi al suo volto?
Mangio lacrime giorno e notte
mentre mi scherniscono senza tregua: Dov’è il tuo Dio?
Ricordo questo, e in me l’anima esala:
emergevo tra la gente, all’avanguardia per la casa di Dio,
tra inni e grida di giubilo di una folla in festa.
Perché ti schianti, anima mia,
perché in me bramisci? Confida in Dio:
ancora potrò celebrarlo,
archivio delle mie fattezze, mio Creatore.
L’anima mia è franta
poiché mi ricordo di te
dalla terra del Giordano e dell’Hermon, dal monte Mis’ar.
Abisso desta abisso
nel turbinio delle tue cascate,
i tuoi flutti e i tuoi frangenti
irrompono su di me.
Di giorno l’Eterno
accende il suo amore
di notte in me è il suo cantico,
supplica del Dio vivente.
Interpellerò Dio, mio baluardo:
Per quale ragione di me ti dimentichi?
Perché vago oppresso
dal giogo dei nemici?
Raschiano le mie ossa con blasfemie gli aguzzini,
irridendomi tutto il giorno: Dov’è il tuo Dio?
Perché ti schianti, anima mia,
e in me bramisci? Confida in Dio:
ancora potrò celebrarlo,
archivio delle mie fattezze, mio Creatore.
Nel mio esilio di figlio che aveva appena perso la madre e, oltre la patria del
cortile, voleva diventare grande, disperso nel piccolo popolo di altri bambini
estranei l’uno all’altro, intruppati in seminario, il canto d’esilio del salmo
42 (ad aprire il Secondo Libro, a scandire la mia Seconda nascita) risuonava con
particolare potenza, fra gli altri. Per noi, gregge petulante di Dio, i salmi
erano pasto quotidiano, da brucare sotto lo sguardo attento di sacerdoti
esperti, smaliziati al plagio della vocazione.
La cerva assetata mi ha tormentato notte dopo notte. Bestia femmina, di odori
forti, selvatica, nel cui sguardo l’abisso dell’animalità rispecchia l’anima
dell’uomo. Madre perduta e desiderio incipiente, negli anni della pubertà, la
cerva mi ha sedotto. Ed è ancora inseguendo lei che mi avventuro in territori
non giurisidizionali. Altri filologi esperti, allattati nella lingua di Davide,
avanzeranno diritti. Il poeta è sempre un ladro, un accattone reietto che
rovista nel tempo, un eretico che s’infila tra la folla con in tasca una ruvida
pepita di verità. Ci pagherà un’ora d’amore, un tozzo di pane. O la scambierà
con il fondo di bottiglia di un bambino.
Ho passato lo sguardo, ovviamente, e provato la lingua sulla corteccia
scorticante dell’ebraico, da autodidatta, ma l’eco nelle viscere riportava a
quell’esilio, alla nenia tradizionale e armonizzata dei salmi, spesso cantati
anche da noi ragazzini (pietra liscia, levigata da millenni, splendente e
scivolosa al passo), e alle brame del ventre, morsa di solitudine e desiderio
d’acqua, di nuove sorgenti. Indietro non si torna: questa filologia di vita
sprona a forzare lo scrigno, ad appropriarsi dei sussurri del dio ripetuti di
lingua in lingua. Dio regge anche il fiato degli atei, anche di chi rigira il
coltello nella piaga e mentre ti contorci nel dolore chiede, spavaldo: “Dov’è il
tuo Dio, adesso? Eh, dov’è?”. Proprio lì, dentro la domanda, verbo che s’incarna
anche in un tempo assurdo.
Un sacerdote con cui colloquiavo, proprio mentre stavo traducendo il salmo, mi
riportava delle sue preghiere su questi testi, di quel senso di angoscia e
oppressione per il nemico. Come non bastassero i rumori di fondo dei nostri
anni, mossi da una sete di giustizia che stordisce e confonde. Abbiamo tutti una
patria ideale e perduta alle spalle, un sogno che ci asseta, e un nemico che ci
opprime.
La cerva è attenta ai rumori. Si nasconde. Scappa veloce. Osserva senza
mostrarsi. Solo quando si sente al sicuro esce in una radura e pascola al sole.
Sia così la nostra anima: raccolta e guardinga, in tempi di sperpero dell’io e
di sproloqui. Non nei dispositivi elettronici, non negli abissi del web
troveranno salvezza le nostre individualità. Dio è la memoria della nostra
identità, colui che ci porta “scolpiti sul palmo delle sue mani” (Isaia 49:16).
Traduzione e commento di Andrea Temporelli
*
Salmo 51
Porta numero 51
Abbaia la tua pietà, Signore, che arrivo con il mio sfregio.
Spingimi la testa nel tuo amore
Spingila verso il mio petto
Rompi l’osso occipitale dell’orgoglio che tiene su il collo
Per il quale non so baciare la dolcezza
Che hai inalterato nel mio cuore
Dunque spingimi verso la vicinanza violenta
Del tuo battito che sono tutta io
Tamburellami con la tua grazia
Col capo piegato su me stessa
Annegami
Fammi sbranare dal centro di questo petto
L’iniquità che mi protegge offendendoti
Flettimi, spezzami, raschiami
Scorzami da questa pelle
Con cui ho solidificato la maschera della mia purezza
Smascherami, sì, sfigurami
Riportami riconoscibile a misura ripida
Ripertica l’altezza con cui mi hai precipitato
Ricongiungimi con la stretta del tuo giudizio
Perché contro te solo ho peccato
Con il male ho scomposto quello che la tua parola aveva allineato
Riportami all’aria della tua bocca
Respirami profondamente
E vietami l’uso della disperazione
Perché non voglio coincidere col mio errore
Reincarnati in questo corpo flesso
Non farmi morire nel Nessuno
Appendimi denocciolata al tuo collo
Fammi ciondolare vicino al tuo calore
Ristabilisci la violenza non del sacrificio
Ma dell’abbandono
Abbandonami in te solo
Isolami in te solo
Sfoderami dal mio peccato, fammi splendere ancora
E torniamo alla neve
Rimarginiamo lo sfregio al bianco
Lava con rami e ghiaccio la pelle dell’animale ancora vivo
Che ha scambiato l’intimità siderale e il suo diapason
Con il suono dell’impatto di un colpo genitale
Questa inviolabile intimità che esige il riconoscerci ancora
Riconoscimi bianco, spezza ogni osso
Bucalo, intarsialo con la tua Parola in me
Sostituisci il mio cuore col mio stesso cuore ma riamato
Stiamo bocca a bocca con la Pietà che parla
Sillabami mentre dormo l’oro del tuo fiato
Lasciami solo nel sonno, solo con te
Saldami come il denudato mai privato del tuo ringhio.
Non abbandonarmi, rimani in me.
Non guardare la banalità del mio peccato
Liberami dall’inguine con cui fingo un altro bianco per raggiungerti
E aprimi come un sesso in pieno petto in tutti i lembi
Sciogli questo ghiaccio irrigidito
Che ritorna acqua al contatto col Vivente in me
Non farmi soffocare dalla mancanza della gioia
Non accatastarmi tra i pesci di una fossa
Che muoiono perché nessuno sa più come farli respirare.
Riossigenami
Spingimi la testa nel tuo polmone di neve
Azzannami nella dolcezza dello scomparire nel tuo fiato
Si, scomparire.
Ti ricordi quando andavamo con i cani nella neve?
Quanto abbaiavano i cani, orinavano in corsa nella bufera
E noi sempre bianco davanti dietro di fianco
Si condensava il fiato come un fuoco delle nevi
Le facce tagliate senza più vedere se non il freddo ardente
Che anche i cani si giravano e riannerivano i loro occhi nei nostri
Sempre vibranti dentro il bianco ancora in corsa che si spacca
Sulla terra che vibra
Fino a non servirci delle slitte, perché non c’erano più slitte
Fino a buttare via le redini perché non c’erano più redini
E vedere appena la terra davanti a noi
Come un prato bianco immenso mietuto di fresco
Senza più corsa dei cani e voci degli abbai
Solo la linea di silenzio del ritorno a casa.
Fammi ritornare, mio Bianco Velocissimo
Fammi risalire Sion, Gerusalemme
Fino al cospetto della montagna orso
Fammi sgozzare l’orso
E lasciare ancora un bisbiglio luccicante nella neve
Non disprezzare quello che ho da offrirti
Non i sacrifici degli uomini
Che non sanno quel che dicono e non sanno quel che fanno
Ma la somiglianza del tuo sangue siderale in me.
Fiutami ancora e purifica questo freddo nero che mi porto in petto
Non affidarmi a questo buio.
Guardami, Mio Accecante, denudami
Mio Ipervedente, lavami
Tienimi attaccato, attaccato alla tua bocca
Lasciami respirare la pronuncia del mio nome
Schiacciami in te, incostolami, spingi
Non farmi rimanere mezza viva
E rifoderami, Mio Siderale, così affilata dal tuo amore
Nessun prossimo apparente
Io sono qui tutta te
Riconoscimi dal punto più distante
Riavvolgimi al tuo fianco con un mattino di foreste in corsa
E come un mattino, mio Boreale,
Sarò bianco, vedrai –
Sarò più affamato della neve.
Traduzione di Tiziana Cera Rosco
L'articolo “Abisso desta Abisso”. I poeti contemporanei, la Bibbia e la lebbra
del tradurre proviene da Pangea.