Cos’è che mi fa scrivere?, s’impone?, a me che non sono nessuno. Il mistero
s’insinua e prevale. La trance, lucida, precisa, è generativa. Ma si potrebbe
continuare all’infinito. Anche questa mia abitudine a ripetere la parola tutto.
L’ho notato, c’infilo sempre la parola tutto da qualche parte, prima o poi, e
devo negarla per evitare il condizionamento. Il tutto ha totalità di emergenza,
richiama a dire l’abbraccio grande che mi circonda, perché dev’essere grande, in
grado di comprendere l’uomo intero, di accoglierlo. Ma quale uomo? Quello che si
affida alla parola, all’ascolto, che non tende a dire se stesso, lui e basta.
Kafka, in un suo racconto intitolato Descrizione di una battaglia, scritto col
suo amico Max Brod, fa dire a un pazzo: “Io vivo affinché gli altri mi
guardino”. Credo che Kafka si opponesse a questo. Non giudica, è attratto
dall’estremo, è sorpreso e ne ha pietà. Egli prefigura il mondo di oggi. Farsi
notare a ogni costo. Ecco la stortura, il malanno, e senza sapere che malattia
è. Godere di quel minuto di fama che è il niente, il mio niente. L’apoteosi che
non sono. Se penso a come scriveva Ungaretti nelle trincee della Prima guerra
mondiale, piantato dentro il fango, utilizzando quello che trovava, scarti di
giornali, pezzi di cartone che racimolava. Quei frammenti stabilivano già il
respiro della lirica, l’impaginazione era in quel formato esile.
Possiamo dire ritagli di sangue, il corpo delle cose martoriate, mutilate,
resistere con la poesia alla paura, alla morte vicina, al fatto che domani
potrei non esserci più. Che lezione! Si scrive sul confine, nel tempo che
c’incastra e decide chi siamo. A questo punto dico: chi è Valentina Di Cesare se
non una scrittrice, e insieme una madre, una moglie, un’insegnante di Lettere
nella scuola secondaria di primo grado, e lingua italiana per gli studenti
stranieri. Non la stessa trincea di Ungaretti, certo, ma se ci penso mi vengono
i brividi. L’amore per la Letteratura, per la scrittura sono quelli, si
dichiarano nel cuore, si consumano e si esprimono lì, nascono come un figlio nel
chiuso di un abisso, e più va scurendosi il desiderio, più aumenta l’assillo di
vederlo nascere, di voler essere con lui… Più il seme si fa luce, sotterrato
nella carne, più scoppia di vita, esplode la sua natura.
Gli istrici (Caffèorchidea Edizioni, 2025) sono questo, l’ha scritto Valentina
Di Cesare. Potrebbe continuare in avanti e oltre la fine per chissà quante
pagine, in quanto trasborda e suggerisce ancora altra vita. La vitalità,
l’energia che trasmette, risiede nel suo io, un cuore che a ogni pagina si apre,
e verso cui corre come in faccia al vento, o nel solco di una strada che si
rinvigorisce e si delinea sempre di nuovo, a mano a mano che prosegue, nelle sue
vicende e nei suoi personaggi, che ne rappresentano la voce, l’io in cui abitano
e s’intessono i discorsi, i pensieri, le parole. Quattro nature, quattro
protagonisti, come le nostre stagioni, per dire quanto è grande il tempo, quanto
è grande la vita, e densa, umile, impareggiabile, spettacolare, ricca. Gli
istrici è un libro che vuole essere amato, per la sua quieta vitalità, ancora in
essere quando il romanzo è compiuto, che non pare finito allo scoccare
dell’ultima parola. Perché Gli istrici non tende a contrarsi, ad avvitarsi in
iperbolici avvitamenti, tende bensì a fiorire, a immaginare.
> “Più di una nuvola aveva confuso le stelle quella notte e i bagliori si
> vedevano appena […] Quasi che si trattasse di un accordo con la luce […]
> Iniziava di nuovo il mondo […] e gli sterrati storti […] qualche baracca
> sbieca […] tutti gli usci erano serrati”.
È l’inizio del romanzo, ma come l’ho letto io, con un’invenzione mia, arbitraria
direi, si vede dalle parentesi quadre che ho innestato dove manca il testo,
agendo in levare al fine di far procedere a salti la scrittura, che non si
deforma, non si decompone, non si sgualcisce, nonostante il mio personale
intervento, anzi, il miracolo è lì, resta unitario il dettato, per dare risalto
al pensiero, la sua natura, la forma che procede per punti nodali, quasi
inavvertiti dal lettore, per cui si può dire che il mio esperimento è riuscito:
riportare la caratura del linguaggio (significativa, intatta, unitaria) alla
luce, anche se sottratta di alcune parti. La luce, questo il sugo dell’incipit!
Così ho deciso: dimostrare il sunto di una prosa fatta di contrasti, che rimanda
alla sua complessità. L’autrice non me ne voglia.
Più avanti, a pagina 53, il passo del racconto si fa elegante, pur restando
descrittivo, ma ora nell’obiettivo di un chiaroscuro che lo distingua (stavolta
la pagina è rimasta integra):
> “Certi giorni di novembre, alcuni vicoli deserti davano l’impressione di
> essere più stretti, quando si sentiva scalpitare l’acqua dalle grondaie già di
> prima mattina, e i tronchi degli alberi sulle montagne intorno si ergevano
> come grigie lame di ferro incolonnate”.
E le cose, a pagina 77, gli ambienti, sono il correlativo oggettivo del
personaggio, particolarmente vissuti, esperienza che si compie, mistero,
passato, memoria che non svanisce, nella scoperta che si presenta col suo carico
umano di stupore.
> “Era scalza. Iniziò silenziosamente a gironzolare per la casa, andando prima
> nel bagno a piano terra, quello con la piccola finestra che l’aveva sempre
> incuriosita da fuori e poi in salotto, la stanza che Francesca teneva sempre
> chiusa. Cercandone a tentoni l’interruttore, Carla sentì già infilando la
> mano, che quella stanza era più fredda rispetto alle altre. Annusò l’aria e
> subito intese che lì non v’era l’odore delle altre camere, nonostante
> campeggiasse in mezzo al grande tavolo un contenitore di fiori secchi e foglie
> colorate che emanavano un vecchio profumo. Con le labbra semiaperte e gli
> occhi attenti, Carla visitò quella stanza dalle finestre sbarrate, mentre
> lasciava correre la piccola mano sul ripiano del mobile a muro”.
Ed ecco il tema principale del libro, che appare all’improvviso, a pagina 144.
“Sapete che per paesi come il nostro vanno bene solo le lacrime di nostalgia?”.
La solitudine. È il motivo per cui Valentina Di Cesare ha scritto il romanzo,
per esorcizzarla, penso io, per conoscerla profondamente, e così combatterla.
Il valore de Gli istrici risiede in questo corpo a corpo. Ne è valsa la pena.
Tutti i personaggi sono soli. Qui il libro resta nudo. La scrittura si avvolge
intorno alle cose per vestirle di compassione, sebbene circospetta, perché
occorre descrivere, la scrittura ha le sue regole. E poi la nudità ferisce, si
pensi al Cristo in croce, e non si vuole. C’è orgoglio, distanza, le montagne
dell’Abruzzo sono giganti impossibili. Da un lato assistiamo alla fuga,
dall’altro si afferma la resistenza degli uomini, la fedeltà a quell’isolamento,
in fondo così amato. Se c’è un destino è l’amore. L’amore cristiano, quando è
nudo e celestiale di risurrezione, non chiede di soffrire, è consapevolezza di
ciò che saremo. La dualità porta scontento. Il desiderio si abbassa fino a
terra, è simile a qualche animale che scorrazza libero. Eppure, è proprio la
natura che ricompensa, in quanto la natura predomina nel romanzo, fa impressione
vedere com’è piccolo l’uomo in quegli scenari.
Mi sono appuntato una frase (o me la sono sognata?): “Le piccole salvezze gliele
offrivano gli animali”. Piccole per pudore o per diffidenza?, mi chiedo. Il
corpo s’impone e gli sbarriamo la strada, ci dice dove andare, ma noi preferiamo
la sconfitta dei pensieri, il rimuginare sempre e ancora. Ma anche l’uomo è
natura. Noi non lo capiamo. Pensiamo che la promessa sia stata negata, invece è
ancora lì, nel fatto che siamo vivi. E se moriamo (quando moriamo!), resta un
chiodo infisso nel cuore degli altri che grida non dimenticarmi, non
dimenticare, a questo sono servito, per questo ho vissuto. Supremo atto d’amore,
sacrificio, valore umano. Dai grattacieli di Manhattan alle altitudini del
nostro Abruzzo. “Settembre, andiamo. È tempo di migrare”, recita il grande
D’Annunzio, nel 1903. Possibile?, la vita non si muove? Che scandalo è questo?
Allora la mia pena continuerà anche dopo?
Mi pare che da queste domande, da questi tormenti si sviluppano le storie
moderne dei personaggi de Gli istrici. Istrici proprio in quanto corazzati di
aculei, contro chi ci vuole cambiare. Sbuca una mezza luna per contrasto, sulla
bella copertina del libro, s’imbianca fra le punte ritorte e graffianti di una
selva oscura, terribile e respingente. Nessuno impedirà la nostra salvezza,
nonostante tutto. “Noi non possiamo mai nascere abbastanza”, dice la citazione
di E.E. Cummings ad apertura del libro. Il che vuol dire che quando una voce
viene dall’esterno, ed è vera, profonda, come il mite Doì (il giapponese
protagonista di un capitolo, che decide di stabilirsi in quelle terre), allora
qualcosa si realizza anche in noi. Il nostro libro è scritto, è umano come un
essere vivente.
Vincenzo Gambardella
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Valentina Di Cesare proviene da Pangea.