C’è un filo diafano, un’arcana gravitazione che stringe i mistici di ogni epoca
al seno del mistero. Karol Józef Wojtyła a 24 anni, sul bordo di una vocazione
nitida e cruciale, scriveva poesie. Liriche liminali, dal passo pacato ma
custodite nella gravità di un movimento basale, gregoriano: una monodia di
devozione incessante e inviolata.
Poiesis che è primordio, promessa, esercizio d’estasi. Rive piene di
silenzio come stati dell’essere, dove non è l’alta parabola, ma l’intimo affondo
l’atto del lambire. Spoliazione di ogni avvistamento, di ogni appetito
cromatico, di ogni intenzionale attesa. Non guardare, perché si è guardati: da
prima dei vagiti del tempo.
Sono sempre nel fiore della lentezza i movimenti del sacro, ripetono il rito: un
effluvio ardente diffonde dall’oltre, s’attenua nel suo passo custodendo il
varco; e preme di silenzio il punto profondo. Durare nella trasparenza, nello
stupore che addita l’eternità: pronunciare la cessione di sé, per quell’assise
di chiarore che è il chinarsi di Dio.
L’amore, sapienza che trasfigura, sa il vincolo dirotto tra ferita e grazia, la
rosa segreta della croce: verità che pertiene all’ombra, alle rifrazioni
dell’acqua, all’estremo volo che piega all’orizzonte. Cui è basilare far spazio,
deprivandosi di lemmi e cognizioni, dando il grembo a un “nulla crescente”, che
ha cara la luce.
Vertigine di “strana morte” in cui lo smisurato alberga in gloriose minuzie: un
cinguettio di fanciulli, il fieno odoroso; un pane di frumento, le foglie
cadute. È l’umiltà sacra delle cose primarie, ridestate in essenza dal soffio
perpetuo, le esistenze minime che recano l’esile offerta: lo stento e l’assillo
di ogni anonima incarnazione: “minuscola cella” in cui il sacro si corica, senza
clamore.
La poesia di Wojtyła è un piovasco di bagliori, fenomeni inversi, in cui
l’universo si eclissa per rivelare, nel suo svanire, le pure altezze
dell’Intelletto divino, mentre un canto oceanico s’alza dai corpi in elegia, che
anelano al “vortice di sole”, sostenendo in cuore “l’esilio di Dio”: suo velarsi
in suprema presenza.
Trema l’anima in uno schiudersi di rose quando l’interminato sospiro l’avvolge,
e accoglie nell’incanto della propria povertà il punto aureo di teofania,
l’oceano di luce del “grande Tacere”.
Nel Canto del sole inesauribile, il sovrano sguardo eleva e sfianca l’inezia
vivente: e nel declinare della vita è fatto saldo il patto con il grande astro
di luce, che trattiene a sé ogni fiato in chiarità definitiva. Il dolore porge
sé stesso in tenera nostalgia, nello struggente ricordo del Volto fa eucaristia
minore che “si arrossa di sangue/ come trafitta da spine”. Sete sacra, che
lascia vorticare accanto un cosmo adolescente di gravami e fulgori; fissandone
il cuore segreto, l’oscura stilla, aghiforme totalità e pienezza immobile.
Sorgente del gesto di genesi, in cui già dimora la discesa alla passione, al
pane, al grano: l’infinità si curva nell’umile riserbo, nel mite ricovero: il
grembo di Maria, “la mangiatoia”, “il fieno”. La grazia diserta il computo e si
china verso irrisorie, lucenti umiltà. Quando posa nel cuore umano, mondi nuovi
germinano nella reciprocità di sguardo: è l’armonia del trinitario mistero,
laddove il Padre ama nel Figlio e attraverso lo Spirito si dona.
Il poeta fa una teologia del nascondimento epifanico, dell’apparizione criptata,
in cui l’Eucaristia è memoriale e atto creativo corrente, vivo: la puntuale,
assidua rigenerazione cosmica e personale, rubino taciturno d’intimo albore,
fuoco risorto nell’intenzione di Dio, è dove l’uomo si riconosce come brama
velata: ché anche l’Eterno emana per carenza d’amore, e crea ogni forma dal
palmo, chiamandola per nome.
Esiste una via cristica che accomuna il celeste alla creatura: il risalire
l’erta della croce, il cui vertice d’intuito e senso di sacra presenza non è
sangue versato, ma vegliato vuoto, spalancato di preghiera nella carne: anche in
Gesù, sull’albero atroce, fu la consegna, non la ferita, a generare il nome del
Padre sulle labbra.
Nelle acque del cuore, fatte torbide dall’umana miseria, il chiarore del posarsi
profondo di Dio crea il “Punto Candido” di visione, io eucaristico d’incantevole
convegno che risale con soavità l’invisibile nodale: altare insostenibile dove
il sensibile si spezza e l’occhio vero non osa. La tracotante fragilità di
arroccarsi, talora, nel pensiero, e non essere fiamma di totale ardore, è
redenta, al cospetto delle fluide e radiose – il sole, il mare – epiclèsi del
creato: che generano confidenza, meraviglia, senso di tutela. Dove l’umano,
nonostante le sue ambiguità e imposture, trova riparo in incommensurabili
fedeltà; è questo il vibrato mistico: che porterà alla partitura interiore di
lode, alla consonanza di adesione perfetta.
Lucente e scoscesa, profondamente cristocentrica la teologia contemplativa
distesa nel canto di Karol Wojtyła snuda l’apòfasi come via diletta
dell’esperienza mistica. Tanto nella visionarietà quanto nell’edificio
spirituale, nel sentire che oltrepassa l’intelletto, nell’ascesi inversa alle
lucòree voragini interiori, nelle antitesi metafisiche tra oscurità e bagliori,
nella preghiera silente, terminale della pura adorazione, nell’anima come alveo
del riconoscimento, riecheggiano le atmosfere di Sant’Agostino, Isacco di
Ninive, Meister Eckhart, Giovanni della Croce, Angelo Silesio.
Toni umilissimi, ma a vertiginose altezze, laddove l’Amore è l’evento teofanico
per eccellenza, ciò che “spiega ogni cosa”. Il Pellegrino cherubico di Silesio
risuona in quell’anelito alla semplicità radicale in cui Dio è presente solo “là
dove nulla più rimane”. Una poesia che fa lectio divina per puro nitore, e prega
con un affetto teologico struggente.
Una costante tensione tra immanenza e trascendenza trova ristoro nel gesto
soprannaturale dell’abbassamento: l’umiltà di Dio che si riduce nell’uomo. Pure,
l’incarnazione del Verbo ritorna ossessivamente in immagini di discesa e
decremento sempre nuove: Dio si fa croce, si fa occhi, si fa abisso, si fa
perfino nostalgia, e sosta nelle briciole di materia, grano e pane: luoghi
ontologici, nei quali l’Essere si mostra nella diatonia tra finitezza e
pienezza.
Il poeta guada ampi corsi d’intensità mistica, semplicità lirica e tensione
all’invisibile; in particolare, nel Canto del sole inesauribile questa
traiettoria si arricchisce di un’ulteriore stratificazione cosmica, laddove il
sole non è più solo simbolo di Dio, ma interlocutore metafisico dell’anima, che
“non è una foglia”, non conosce la nuda impermanenza, ma contiene in sé una
partecipazione eterna al movimento del creato. Il cosmo si traduce in figura
sacramentale: “il frammento di pane più reale dell’universo/ più colmo d’Essere,
colmo del Verbo”: la parola si sostanzia nella cosa. Il pane eucaristico è
metonimia potente dell’Essere.
Nel lessico essenziale, vicino alla sorgente biblica e patristica, la poesia di
Karol si compie canto dell’umiltà ontologica. Scritture sapienziali in essenza,
mai nei toni, frammenti di un’apocalisse centrale, in cui l’uomo e Dio si
cercano nei luoghi più reconditi della coscienza, e nelle trasparenze del
silenzio che dilata lentissimo, di fronte allo svelarsi di un’eccedenza. Tale
tensione all’inesprimibile genera una poesia prossima al sublime romantico –
Novalis, Hölderlin – ma qui rifratta attraverso una spiritualità profondamente
cristocentrica e pascaliana: “più aguzzo lo sguardo, meno riesco a vedere”.
Similmente a quello che accadeva in Cristina Campo, la funzione del linguaggio
nel poeta è performativa, ma anche liturgica: la figura campiana è vaso d’oro in
cui, per astinenza e accumulo, precipita l’ignoto liquore dell’idea; e così
l’atto del nominare nel poeta Wojtyła – “Ah, accogli, Signore, l’ammirazione che
mi zampilla dal cuore” – è invocazione, rito che plasma lo spazio interiore e lo
dispone all’incontro con il mistero.
Il linguaggio non descrive Dio, ma rasenta quel “fiore inaccessibile” che è
icona teandrica d’intimità senza tempo, luce nuziale, mutua fiamma. Il poeta
cerca trasparenza, per essere pura rifrazione delle solenni vastità
evocate. Teologo del lemma incarnato, viandante del muto brillare, esegeta di
sobrietà: ecco Karol Wojtyła giovanissimo poeta. Il resto pertiene alla storia:
l’agire nel mondo di un uomo intero, abitato dallo Spirito.
Isabella Bignozzi
**
da: Il canto del Dio nascosto[1]
Lontane rive di silenzio cominciano appena di là dalla soglia.
Non le sorvolerai come un uccello.
Devi fermarti a guardare sempre più in profondità
finché non riuscirai a distogliere l’anima dal fondo.
Là nessun verde sazierà la vista,
e gli occhi prigionieri non si libereranno.
Credevi che la vita ti nascondesse a quella Vita
chinata sugli abissi.
Ma da questa corrente – sappi – non c’è ritorno.
Avvolto dalla misteriosa bellezza dell’eternità!
Durare e durare. Non interrompere la fuga
delle ombre, durare solamente
in modo sempre più chiaro e più semplice.
Intanto sempre indietreggi davanti a Qualcuno che viene di là
chiudendo piano dietro a sé la porta della piccola stanza
e venendo smorza il passo
– e col silenzio colpisce quello che è più profondo.
*
Ecco l’amico. Sempre ritorni con la mente
a quel mattino invernale.
da tanti anni ormai credevi, sapevi certamente
ma lo stupore non ti può lasciare.
Chino sopra la lampada, nel fascio di luce unita in alto,
senza alzare il viso perché sarebbe inutile –
ormai non sai se è là, là visto di lontano,
oppure qui, nel profondo degli occhi chiusi –
È là. Mentre qui non c’è soltanto tremore,
soltanto le parole del nulla ritrovate –
ah, ti rimane ancora un briciolo di questo stupore
che sarà tutto il contenuto dell’eternità.
*
Non così si presenta la forza vitale della luce.
Quando il mare rapidamente ti nasconde
e ti scioglie in abissi silenziosi
– la luce strappa bagliori verticali alle onde languide
e il mare piano finisce, affluisce un chiarore.
E allora, in ogni direzione, negli specchi lontani e vicini,
vedi la tua ombra.
Come ti nasconderai in questa Luce?
Sei troppo poco trasparente
e il chiarore alita dappertutto.
In quell’istante – guarda dentro di te. Ecco l’Amico
che è solo una scintilla, eppure è tutt’intera la Luce.
Accogliendo dentro di te quella scintilla
non scorgi altro,
e non senti di quale Amore sei avvolto.
*
Il Signore, quando attecchisce nell’intimo è come un fiore
assetato di caldo sole.
Vieni, dunque, o luce, dalle profondità dell’inesplicabile giorno.
e pósati sulla mia riva.
Ardi, non troppo vicino al cielo
e non troppo lontano.
Ricordati, cuore, di quello sguardo
in cui ti attende tutta l’eternità.
Chìnati, cuore, chìnati, sulla riva,
annebbiata nella profondità degli occhi,
sul fiore inaccessibile,
su una delle rose.
*
Io stacco piano la luce dalle parole
e raduno i pensieri come un gregge di ombre
e lentamente in tutto immetto il nulla
che attende l’alba della creazione.
Lo faccio per creare uno spazio
alle Tue mani tese
lo faccio per avvicinare
l’eternità in cui Tu possa alitare…
Inappagato dall’unico giorno della creazione
io bramo un nulla crescente,
perché il mio cuore sia disposto al soffio
del Tuo Amore.
*
V’era Dio, in cuore, v’era l’universo,
ma l’universo si oscurava
e diveniva, piano, canto del Suo intelletto,
diveniva la stella più bassa.
O maestri dell’Ellade, vi narro un grande miracolo:
non importa vegliare sull’Essere che scorre via tra le dita,
c’è la Bellezza reale,
celata sotto il Sangue vivo.
Il frammento di pane più reale dell’universo
più colmo d’Essere, colmo del Verbo
– il canto che sommerge come un mare
– il vortice di sole
– l’esilio di Dio.
*
Il Tuo sguardo fisso sull’anima, come il sole verso la foglia s’inclina,
ne arricchisce il fiorire con la profonda, trasparente bontà,
l’accoglie nel suo raggio
– ma Tu, Maestro, guarda:
che accadrà della foglia e del sole? – la sera si avvicina.
*
L’anima non è una foglia.
E su di sé può trattenere il sole
e insieme a lui discendere
in un arco inscindibile, al tramonto.
E laggiù lo raggiunge e rimane,
partecipando al solare declino,
e quando ancora procede il cammino,
in una lunga ombra a lui si salda –
Non spezza l’orizzonte,
nell’ansia di giorni lontani,
– ma solo sta alla porta e bussa.
Ed ecco, ha giù raggiunto tutto:
ecco, ogni giorno le riporta il sole
nel cerchio visibile.
*
È in me l’acqua profonda trasparente,
ai miei occhi velata di nebbia –
quando, come un torrente, io corro troppo in fretta,
non sono degno che quel fondo così abissale.
Là, ogni giorno, il mio Signore viene e resta –
scia di sangue quando s’immerge nella neve –
– e vi è reciproco riconoscimento
e alita una reciproca abbondanza.
Se, allora, qualcuno sapesse togliere
dalle profondità trasparenti la nebbia,
si vedrebbe – in quale miseria,
si vedrebbe – in chi –
e si vedrebbe – quale chiarore
inonda la profondità oscurata,
si vedrebbe – nel cuore umano,
nel più semplice dei soli.
*
O Signore, perdona al mio pensiero che non Ti ama ancora abbastanza,
perdona al mio amore, Signore, ch’è sì terribilmente incatenato al pensiero
che Ti sperde in pensieri freddi come la corrente
e non avvolge in brucianti falò.
Ah, accogli, Signore, l’ammirazione che mi zampilla dal cuore
come zampilla un ruscello dalla fonte –
– il segno che di lì verrà la vampa –
e non respingere, Signore, neanche la tiepida ammirazione
che un giorno colmerai con una pietra ardente sulle labbra –
Non respingere, Signore, la mia ammirazione
che per Te è un nulla, perché Tu Intero sei in Te Stesso,
ma per me, ora, è tutto,
un torrente che rapisce le sue rive
prima di dire la sua nostalgia per gli oceani smisurati.
--------------------------------------------------------------------------------
[1] in: L’opera poetica completa di Karol Wojtyla, a cura di Santino Spartà,
Libreria Editrice Vaticana 2012
L'articolo “Nel profondo degli occhi chiusi”. Karol Wojtyła, poeta proviene da
Pangea.