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In obbedienza e in abbandono. Meditazione sul Salmo 131
> Sensi di fanciullo ti chiedo, > di farmi interiore e mite, > e taciturno nella tua pace. > E di possedere un cuore chiaro[1]. > > David Maria Turoldo sul Salmo 131 Salmo 131 Un canto delle salite. Di Davide Oh Eterno, non si erige all’orgoglio il mio cuore né alla superbia s’inerpica il mio sguardo non bramo grandi faccende né meraviglie al di sopra di me ho ammansito e reso dolce la mia anima come bimbo divezzato in grembo alla madre come bimbo slattato è in me l’anima mia pòsati e confida nel Signore, Israele da ora e per sempre * Canto delle “salite”, cantico d’ascensione, salmo graduale, che percorre gradi, misure o ranghi d’altezza, noveri di espugnata prossimità al luogo Santo (dal 120 al 134): intonati nella fatica del salire, sino a Gerusalemme, dove si era pellegrini, devoti in visita, latori di doni. Deuteronomio 16, 16: > Tre volte all’anno ogni tuo maschio si presenterà davanti al Signore tuo Dio, > nel luogo che Egli avrà scelto: nella festa degli azzimi, nella festa delle > Settimane e nella festa delle Capanne. Nessuno si presenterà davanti al > Signore a mani vuote[2] oppure intonati dai cantori leviti, ministri del culto, mentre salivano i quindici dislivelli per servire al Tempio. Ascensione onorata col moto delle membra, divario terrestre, da colmare col fisico proprio impegno. “Oh eterno” dice il salmista, si rivolge al Signore col tetragramma biblico “יהוה”(YHWH), il nome sacro con cui Dio si svela a Mosè, facendone il suo messo. Esodo 3, 14: > «Io sono colui che sono!» E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: Io-Sono mi > ha mandato a voi»2 Perché questo Io sono, che è natura trascendente ed eterna, è anche nesso d’amore, stabilita alleanza con il suo popolo; e il salmista è piccolo fiore di un unico stelo, è voce di cuore che crede, la cui ugola canta perché è cantata: in ciascuno che divarichi il petto dimora il tempio di Dio, e ogni respiro rivolto al cielo è particella accesa del corpo di Cristo. “Non si erige all’orgoglio il mio cuore”, così recita il canto, non s’insuperbisce (dalla parola “fiero”, in ebraico “גָּבַה”gavah, riferisce ciò che vuol esser alto, esaltato): e inverte l’immagine del salire, concessa al corpo, al cuore negata. Perché la fatica è un salire che monda e benedice, non così la superbia cui s’inerpica lo sguardo in chi perde la via: cercando gl’idoli sulle alture, riponendo il senso del vivere nei mondani traguardi, la fiducia nei propri vigori e talenti. Non questa la scalata, l’ascensione, bensì, a contrappunto, salire l’erta della fatica, abbassando il cuore all’umiltà, ignorando le lusinghe del mondo. Giacomo 4, 4-6: > Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio? > […] Fino alla gelosia ci ama lo Spirito, che egli ha fatto abitare in noi > […] Dio resiste ai superbi, > agli umili invece dà la sua grazia2 Occhi inerpicati a superbia, “רָמוּ” (ramu), esaltati, ma anche intricati, complicati: ché gli occhi sono visuale, scorcio, ma altresì atteggiamento: lo sguardo che si leva in alto, e dall’alto scruta, è presagio d’arroganza, seme di malizia. Il salmista scansa questo repentaglio, cerca l’umiltà nel sentire, nel vedere e nel desiderare. Cuore, occhi, brama sono ammansiti nella pace. E cara a Dio sopra ogni cosa è l’umiltà. > In un luogo eccelso e santo io dimoro, > ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, > per ravvivare lo spirito degli umili > per rianimare il cuore degli oppressi2  > > Isaia 57, 15 > Su chi volgerò lo sguardo? > sull’umile e su chi ha lo spirito contrito > e su chi trema alla mia parola2  > > Isaia 66, 2 > Vidi tutte le reti del Maligno > distese sulla terra e dissi gemendo: > – Chi mai potrà scamparne? > E udii una voce che mi disse: l’umiltà > > La Pace è a prezzo della moderazione > dei desideri, il nostro desiderare continuo > ci riempie di agitazione[3]  > > Antonio Abate, dai Padri del deserto Questa brama ama celarsi in inquietudini che, nel sentire comune, sono virtù. Aspirare a grandi cose, nella realizzazione personale, persino nel cammino di perfezione spirituale, pare idea buona, encomiabile, ma nasconde l’insidia dell’orgoglio: miraggio d’autonomia, idolatria rivolta a sé stessi, al proprio presunto merito. È dall’operazione contraria, salire nella fatica, discendere nella contrizione della propria mancanza, che nasce l’intimo contatto con Dio. San Paolo, 2 Corinzi 12, 7-10: > 7 [e per la straordinaria grandezza delle rivelazioni] Per questo, affinché io > non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di > Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. > 8 A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore perché l’allontanasse > da me. > 9 Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta > pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie > debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo2 Accogliere la propria insufficienza è la grazia più grande, piena di dolcezza. In chi tutto realmente regge e conduce, teneramente abbandonarsi. Teresina di Lisieux: > Dell’albero dell’amore, il frutto gustoso si chiama abbandono[4]  > > Poesie, p. 746 > Il buon Dio vuole che io mi abbandoni come un bambino piccolo piccolo > che non si preoccupa di ciò che si farà di lui4  > > Novissima verba, p. 1016 L’alterigia è una tentazione subdola, che può coinvolgere anche chi è fortemente dedito a vita spirituale, e pratica ascetici atletismi, compiacendosi di sé stesso, non riconoscendo il dono ricevuto: è la grazia del Signore che viene a illuminare ogni umana pochezza. Dai Padri: > Compito del monaco è veder giungere fin da lontano i propri pensieri3  > > M., 64 Anche la devozione al Signore è un suo dono, che deriva dal nostro saper lasciare presunzioni e aspettative per abbandonarci nelle sue mani. Gratitudine, affidamento, amore fanno funzione vicaria a integrità e pregi morali irraggiungibili. Dai Padri: > La riconoscenza perora al cospetto di Dio a favore dell’impotenza3  > > N., 637 > Un anziano diceva: «Sii come un cammello: porta il carico dei tuoi peccati e, > attaccato alla briglia, segui i passi di colui che conosce le vie di Dio»3  > > N., 399 (P.E., I, 19, 17)* > Ora non temo più Dio; lo amo: perché l’amore scaccia il timore3  > > Abate Antonio, 32 Così il Salmista, pago della sua devozione, spogliatosi di timori e ambizioni si abbandona alla nudità imbelle e inespugnabile della limpida fiducia. “Non bramo grandi faccende”, non aspiro a grandi cose a farsi, a prestigiose mansioni: la parola ebraica per “aspirare” è “הָלַךְ” (halak), che significa camminare, andare in una direzione: cioè il movimento verso, teso a perseguire qualcosa. “Grandi cose [a farsi], grandi faccende” si traduce da “גָּדוֹל” (gadol), che significa grande o importante. L’orante è appagato dalla sua condizione, rifugge ambizioni più ampie o complesse, foriere di orgoglio e smarrimento. Teresina di Lisieux: > Gesù non chiede azioni grandi, ma soltanto l’abbandono e la riconoscenza4  > > Lettere, 196 Ha fiducia candida, sincera nel progetto di Dio, vero destino di ogni creatura, che viene prima degli uffici mondani. Matteo 6, 33: > Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, > e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta2 Nei Padri: > Un anziano disse: non feci mai un passo senza sapere dove posassi il piede. > Mi fermavo a riflettere, senza cedere, > sino a che Dio non mi prendesse per mano3 > > N. 485, Paolo Evergetinos III, 31, 11 “Né [bramo] meraviglie al di sopra di me” dall’ebraico “פָּלָא” (pala), che significa meraviglioso o straordinario. Il salmista non vuole ambire a ruoli o imprese che escano dal comune e dall’ordinario, e che siano oltre la sua portata di creatura semplice, perché confida nell’onniscienza e nell’onnipotenza di Dio: nelle sue vie, ben più alte, tracciate per lui. Isaia 55, 8-9: > 8 Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, > le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. > 9 Quanto il cielo sovrasta la terra, > tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, > i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri2 L’orante desidera dunque riposare in queste altezze, nella saggezza e sovranità del Padre, sgravando il suo cuore da insidiose ambizioni personali, che evadano il suo controllo. “Ho ammansito” (lett. שִׁוִּ֨יתִי = “ho placato”, aggiustato alla calma) e “reso dolce” (lett. וְדוֹמַ֗מְתִּי = reso silenziosa) “la mia anima”: atto deliberato di riportare l’interiorità all’equilibrio, fino a una inerme quiete. Teresina di Lisieux: > Occorrerebbe una lingua diversa da quella della terra > per esprimere la bellezza dell’abbandono di un’anima > tra le mani di Gesù4 Il salmista rende la propria anima “dolce” nel senso di docile, temperata, posata in un silenzio senza pretese. Trova così la pace interiore, sentendo la presenza di Dio, mediante la disciplina su sé stesso e la fiduciosa resa alla potenza del Padre. L’umiltà, nella relazione con Dio e le altre creature, è un campo dai mille frutti. Perenne luogo di arrivo e partenza, itinerario oscillante tra esito ed esordio, mai stabilmente appreso. Dai Padri: > La terra sulla quale il Signore ha comandato di lavorare è l’umiltà3  > > N., 656 > Se tu ti accorgessi che sei inferiore a tutte le creature. > Questo pensiero unito al lavoro corporale: > ecco ciò che corregge e conduce all’umiltà3 > > Sisoe, 13 > Un anziano che abitava in Egitto diceva sempre: «non c’è strada più breve che > quella dell’umiltà»3 > > P.E., III, 38, 44 Accidentata via, eppure breve, verso la beatitudine: intima relazione col Creatore, ferma limpidezza del cuore; e gioia pura, che è adesione perfetta a ciò che è. Per questo, uno dei segni più chiari di santità e di umiltà, una delle sue inevitabili conseguenze, è la gioia. Simone Weil: > La gioia non è altro che il senso della realtà > […] essa non sogna, non desidera ciò che non esiste; accetta ciò che è[5] > > (Cahier I, 18; 70) > La contemplazione perfettamente pura della miseria umana ci strappa al > cielo[6] > > (Cahier II, 157) > La gioia è la coscienza di ciò che non è io6 > > (Cahier II, 193) L’altro da sé esiste, ed è necessario ridursi, e flettere agli ingranaggi del reale: quegl’insondabili meccanicismi che sono proiezione oblunga, nel visibile, dell’arabesco di perfezione divina che, essendo ulteriore alla materia, è inesperibile. Simone Weil: > La necessità è una musica, la vibrazione del silenzio di Dio[7] > > (Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, 129) Nel duro apparato della necessità, la sofferenza ha un ruolo preciso: > Il carattere irriducibile della sofferenza […] ha come scopo di arrestare la > volontà […] affinché, arrivato alla fine delle capacità umane, l’uomo tenda le > braccia, si arresti, guardi e attenda[8] > > (Cahier III, 29) Questo stabilisce un nesso ideale col Salmo precedente, il De profundis, in cui si mette in evidenza tutta l’insufficienza e incompiutezza dell’umano, che geme dal buio del suo peccato, impetrando perdono: quella pietosa grazia che si riceve mediante contrizione, quado l’umiltà, afflitta dall’errore commesso, mestamente duole, e lacrima: > Se consideri le colpe, Signore, > Signore, chi ti può resistere?2 > > (Sal 130) Afflizione che è un rammarico non ostentato o auto denigratorio, ma weiliano senso della realtà: riguardo la propria carenza. Compunto, l’orante volge al cielo, confida nel dono: > L’anima mia è rivolta al Signore > più che le sentinelle all’aurora2 > > (Sal 130) Dai Padri: > Qual è la preghiera pura? […] quella che è breve in parole e grande in opere. > […] > Diverso è, del resto, il mondo dei penitenti, diverso il mondo degli umili; > i penitenti sono mercenari, gli umili, figli3 La pazienza, la fiducia, la gioia sono l’umiltà più profonda che innamora Dio: > Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, > in ogni cosa rendete grazie: > questa infatti è volontà di Dio2 > > (Prima lettera ai Tessalonicesi 5,16) Riferendosi al noto tratto del Vangelo di Matteo (Matteo 6, 25-34), in cui il giglio nel campo e l’uccello nel cielo incarnano il totale affidarsi a Dio, senza affanni né premure, delle creature semplici, Søren Kierkegaard dice: > là dove il giglio e l’uccello insegnano la gioia, c’è gioia sempre […] la > gioia del silenzio e dell’obbedienza. Perché quando tu taci nel silenzio > solenne, quale è in natura, non esiste il domani; e quando tu obbedisci come > obbedisce il creato, non c’è il domani, quel giorno maledetto, l’invenzione > della chiacchiera e della disobbedienza. Ma se dunque grazie al silenzio e > all’obbedienza non esiste il domani, allora nel silenzio e nell’obbedienza è > l’oggi che è, e che dunque è la gioia, quale è nel giglio e nell’uccello[9] L’umiltà, che è fiducia e serena perseveranza, assenso profondo al reale in totale presenza, dilata l’istante all’eterno. Stancare Dio di pazienza. Stupire Dio di speranza. Simone Weil: > Una pazienza capace di stancare Dio procede da un’umiltà infinita[10] > > (La connaissance surnaturelle, 47) Così Teresina: > Si stancherà più presto lui di farmi aspettare, che io di aspettarlo4 > > (Lettere, 103) Attesa paziente, fiduciosa, senza smanie o assilli, senza egotici delirî o avare tristezze. Dai Padri: > Un anziano disse: Se sei orgoglioso, sei il diavolo. Se sei triste, sei suo > figlio. E se ti preoccupi di mille cose, sei il suo servitore senza riposo3 Santità nel Signore è affidamento completo e piena gioia. Infatti “come bimbo divezzato” (כְּ֭גָמֻל) “su sua madre”, “in sua madre” (עָלַ֣י אִמּ֑וֹ), cioè in braccio alla madre, tradotto: “in grembo alla madre”, è l’anima del Salmista: non più in uno stato di dipendenza e desiderio materiale, ma nella letizia di una diversa maturità, piena di gratificazione. Un bambino svezzato non piange più per il latte ma riposa beatamente; pargolo quieto, fasciato dalle braccia della mamma: pur avvinto al suo seno, ne gode il senso di protezione, senza null’altro desiderare. È bello notare che l’immagine di Dio come Madre, non solo come Padre, sia ricorrente nella Bibbia[11] > Come una madre consola un figlio > così io vi consolerò  > > Isaia 63,13 “Come bimbo divezzato” (כַּגָּמֻ֖ל), dice dunque l’orante, e reitera l’espressione all’ultimo verso, dove si è resa con una formula più nitida e compatta: “come bimbo slattato” (כְּ֭גָמֻל): l’idea di affrancamento dalla condizione precedente è reso mediante s privativo, che sottolinea una cesura dal pregresso, che è cessazione e riscatto. Troncamento che germina nel nuovo corso di esistenza, compiuta in Dio: laddove dei carismi che abbiamo ricevuto, fatti fruttificare nel mondo, viene reso grazie al Padre, con devota umiltà: > Prendi, Signore, e ricevi tutta la mia libertà, > la mia memoria, la mia intelligenza > e tutta la mia volontà, > tutto ciò che ho e possiedo; > tu me lo hai dato, a te, Signore, lo ridóno; > tutto è tuo, di tutto disponi secondo la tua volontà: > dammi solo il tuo amore e la tua grazia; > questo mi basta > > Sant’Ignazio di Loyola Il Signore riceve, il Signore dà. Chi in Dio crede e armoniosamente si posa è come un bimbo svezzato in grembo alla madre, che non pretende nutrimento, ma gode l’affetto, gli sguardi, le tenerezze. Su sua madre, in sua madre, in braccio alla madre.[12] Il rapporto intimo e personalissimo non preclude, anzi prescrive, l’estensione del desiderio di grazia a tutti gli altri membri dell’alleanza, particelle del corpo mistico di Cristo. Dunque l’ultimo verso del Salmo si rivolge direttamente a Israele (יִשְׂרָאֵל), inteso come “popolo” che desidera appartenere all’Eterno e in lui dimorare: “pòsati e confida nel Signore, Israele da ora e per sempre”. La moltitudine che sceglie di seguire Dio è identità collettiva in cammino, conscia del passaggio attraverso la cruna d’ago della necessità, dell’impermanenza, del dolore insito nella materia; una pluralità che si percepisce unità, e volge il viso al solo che amorevolmente guarda, consola, guarisce: restituendo l’uomo alla sua primigenia, naturale fraternità. Simone Weil: > Dio ci viene a prendere attraverso i veli dello spazio e del tempo, sulla > Croce. È l’irruzione dell’infinito nel finito8 > > (Cahier III, 45) > la Croce è una bilancia in cui un corpo fragile e leggero, ma che era Dio, ha > sollevato il peso del mondo intero8 > > (Cahier III, 50) > Non c’è che una croce, ed è la totalità della necessità che riempie l’infinità > del tempo e dello spazio, e che può, in alcune circostanze, concentrarsi > sull’atomo che è ciascuno di noi e polverizzarlo completamente7 > > (Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, 110) Da qui il discernimento di un comune destino, da cui nasce la compassione. Edith Stein: > Benedici lo spirito affranto > dei sofferenti, > la pesante solitudine degli uomini, > l’essere che non conosce il riposo, > la sofferenza che non si affida mai a nessuno. > È a colui che sul Monte degli Ulivi > lottò, sudando sangue e acqua, > con Dio, con ardenti suppliche, > che spetta la vittoria, > è su questo monte che si decise > la sorte del mondo. > Qui, cadete a terra > e pregate > senza più domandare: > Chi? Come? Dove? Quando?[13] Dorata coralità, fulgida reciprocità, che è essere raggiunti da Dio sulla Terra, e in lui tornare e dimorare: > Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore, > mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio; > mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo2 > > (Sal 18) Biunivoca accoglienza, ancipite corrispondenza d’amore. Teresina: > Lui, il Re dei re, si è talmente umiliato che il suo viso era nascosto e > nessuno lo riconosceva […] E anch’io voglio nascondere il mio viso […] che sia > solo lui a contare le mie lacrime; che almeno nel mio cuore possa riposare il > suo amatissimo capo ed egli possa sentire che lì è conosciuto e compreso.4 > > (Lettere, 137) Simone Weil solleva in culmine, e osa sussurrare: > Non sono io a dover amare Dio. Che Dio si ami attraverso me6 > > (Cahier II, 274) Teresina così risponde: > è in lui che noi ci amiamo teneramente […] > piuttosto che l’unione, è l’unità che esiste fra le nostre anime4 > > (Lettere, 132) Protendersi con l’umiltà della propria inadeguatezza, nell’attesa che si divarica alla grazia. Affidarsi, affidare, con devozione ferma, cocciuta fede. Come il padre di famiglia che affida i figli alla Vergine, in Charles Peguy: > E se ne è andato con le braccia penzoloni. > Se n’è andato colle braccia vuote. > Lui che li aveva affidati. > Come un uomo che portava un paniere. > E che non ne poteva più e aveva male alle spalle[14] Similmente, il gesto del posare sé stessi in Dio, nella parte finale del canto: “posati e confida nel Signore, da ora e per sempre”. L’esortazione al popolo dell’alleanza, Israele (יַחֵ֣ל), sarebbe letteralmente: “Israele, metti speranza (יָחַל), attendi, sii paziente: riponi fiducia in YHWH da questo momento e fino all’eternità”. L’orante conosce quest’attesa feconda e fattiva, piena di fiducia e nell’intervento di Dio. “Riponi te stesso e la tua speranza”, “confida”: un invito a fare affidamento sulle promesse di Dio e sul Suo progetto, anche quando le circostanze sembrano incerte o difficili, cioè fin da ora (מֵֽ֝עַתָּ֗ה = fin da questo momento, seppure nebuloso o precario) e “per sempre”. Charles Peguy lo sente il rotondo stupore di Dio, quando incontra la fiamma irriducibile che arde nell’umano cuore, pur avendola lui medesimo creata: > Quello che mi stupisce, dice Dio, è la speranza. > E non me ne capacito. > Quella piccola speranza che non sembra niente. > Quella piccola bambina speranza14 Il Salmo chiude con incantevole fermezza, nella chiamata all’essenza: prolungare la speranza fino all’eternità (וְעַד־עוֹלָֽם׃). La parola ebraica “עוֹלָם” (olam), che può significare “per sempre”, “eternità” o “una lunga durata”, evidenzia la natura senza fine delle promesse di Dio: la relazione perpetua di fedeltà e fiducia tra il Padre e ogni singola sua creatura che al cielo volga lo sguardo. La piccola bambina Speranza, l’intera consegna di sé, che sa far quieto il cuore: > È lei, quella piccola che tira tutte. > Perché la Fede non vede che ciò che è. > E lei vede ciò che sarà. > La Carità non ama che ciò che è. > E lei ama ciò che sarà. > La Fede vede ciò che è. > Nel Tempo e nell’Eternità. > La Speranza vede ciò che sarà. > Nel tempo e nell’eternità.14 Isabella Bignozzi Isabella Bignozzi ha tradotto il Salmo 131 per il “Salterio dei Poeti”, progetto-libro curato da Roberta Rocelli e da Davide Brullo per Festival Biblico 2025 -------------------------------------------------------------------------------- [1] In: I Salmi, Traduzione di David Maria Turoldo, Commento di Gianfranco Ravasi, Oscar Classici Mondadori 1994 [2] La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2009 [3] Detti e fatti dei padri del deserto, a cura di Cristina Campo e Piero Draghi, Rusconi Libri, 1994 [4] Thérèse de Lisieux, Oeuvres complètes, Cerf DDB, Paris 1992 [5] Simone Weil, Quaderni. Volume primo. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1982 [6] Simone Weil, Quaderni. Volume secondo. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1985 [7] Simone Weil, Pensieri disordinati sull’amore di Dio, La Locusta 1991 [8] Simone Weil, Quaderni. Volume terzo. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1974 [9] Søren Kierkegaard, Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo. Discorsi (1849-1851). A cura di Ettore Rocca, Donzelli 2011 [10] Simone Weil, La connaissance surnaturelle, Gallimard 1950, ora Taccuino di Londra, in Simone Weil, Quaderni. Volume quarto. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1993 [11]Per esempio: Isaia 49,15: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai»; Osea 11, 3-4: «Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare»; Salmo 71, 6: «Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre tu sei il mio sostegno». Così, il termine ebraico rahamim, (רַחֲמִים), che nella Bibbia si riferisce spesso alla compassione, misericordia o tenerezza di Dio verso l’uomo, deriva dalla radice ר-ח-ם (r-ḥ-m), che è collegata al termine “reḥem” (רֶחֶם), cioè “grembo materno”. A suggerire che l’amore divino per le sue creature è viscerale, intimo, incondizionato — come quello di una madre per il figlio che porta in grembo. Il biblista Gianfranco Ravasi ha osservato che esistono almeno 60 aggettivi di Dio al femminile nella Bibbia, e più di 260 riferimenti alle «viscere materne» del Signore. [12] עָלַ֣י “su”, “in”, preposizione anch’essa iterata, quando è in relazione alla locuzione “sua madre” assume il significato di “in braccio a sua madre”, mentre quando si riferisce al pronome “me” (עֲלֵ֣י) indica “in me”, “dentro di me” . A tal proposito si nota come la vocalizzazione, resa in ebraico mediante segni diacritici, diversifichi lievemente toni e sensi anche di espressioni anaforizzate. [13] Waltraud Herbstrith, Poèmes et prières dans les oeuvres posthumes, Francoforte 1975 [14] Charles Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù. Traduzione di Giuliano Vigini. Medusa Edizioni 2014 *In copertina: Leon Dabo, Studio di mano, 1890 ca. L'articolo In obbedienza e in abbandono. Meditazione sul Salmo 131 proviene da Pangea.
May 17, 2025 / Pangea