Ogni struttura umana si rivela per incrinatura. Per Vladimir
Jankélévitch l’instant è una cesura generativa: il tempo, nel suo spezzarsi,
diviene occasione di creazione ermeneutica, morale e artistica. È nel cedimento
del simulacro che l’annuncio trova il suo varco: la fragilità è una categoria
dello spirito, una condizione del vero.
L’anello debole di Angelica Grivel Serra si muove in questo territorio sottile,
dove la fenditura diventa passaggio. Come nei Claros del bosque di María
Zambrano, l’oscuramento prelude al barlume. Ogni bemolle, ogni sincope, ogni
flessione emotiva concorre a questo discernimento: s’acquisisce nozione nel
lasciar cedere, nel contemplare la disgregazione.
Se l’instabilità è il principio che lascia affiorare il sostrato dell’essere,
ebbene ciò che declina, dischiude. René Char: “L’essentiel est sans cesse menacé
par l’insignifiant”[1]; e ancora: “Nous habitons un éclat de temps qui a refusé
de servir”[2]: è il suono fecondo di ciò che si spezza.
Nell’anello debole di Angelica Grivel Serra, lo screzio frange la forma e
l’attraversa, rendendola significante. Il testo di Grivel Serra riconosce nella
vulnerabilità il luogo del disvelamento: quell’istante del quasi nulla,
le presque-rien di Jankélévitch, che rifonda il reale. Ciò che sembra marginale
o inconsistente – un cenno, un’intonazione, un silenzio – denuda strutture
profonde, sin lì trattenute nell’implicito.
Tra luci e ombre parentali, L’anello debole racconta un brusco cambio di
direzione nella storia della famiglia Raccis: ne decifra l’invisibile anatomia
morale, i nodi di sangue, che stringono e reggono la trama del vivere; poi ne
dice gli eventi, unendo l’eco del mito domestico a una coscienza lucida,
dissettiva; pure, con un linguaggio sinfonico, vibrante; soffice come un
broccato.
La morte di Piera Raccis costituisce il fulcro da cui si irradia la tensione del
narrato: un centro di rifrazione da cui potenze elementari – disamore, denaro,
colpa, potere – trapelano nella loro essenza corrosiva. L’opera si configura
come una progressione di cerchi concentrici: il male vorace di Piera, la crisi
relazionale tra Claudio e la sorella, il degrado del ceppo familiare principe,
lo smarrimento del senso intrinseco del legame. L’anello che si spezza è, in
quest’ottica, la metafora di una catena più ampia — biologica, genealogica,
etica — che non regge più il peso della propria storia.
La figura di Claudio – anello debole – incarna un destino cagionevole che è
insieme reo e incolpevole: segnato, come nei tragici. Nella genealogia dei
Raccis, è lui il punto di frattura, la fiacchezza che tutto dissesta; e, nel
bilico, distende e dipana. Il disegno narrativo si muove attorno a questo
paradosso morale, restituendo il dramma di un mondo che freme tra lealtà e
diserzione, tra origine ed estraneità.
La dinastia Raccis, col suo ordito di rancori, omissioni e piccoli tradimenti,
si fa teatro del sospetto e del disamore. In essa si riflettono i meccanismi
segreganti e inquisitori della società contemporanea: la competizione travestita
da affetto, la gerarchia dei ruoli, l’eclissi del perdono.
A fronte di questo, c’è la piccola famiglia, nucleo-diamante di sopravvissuti:
coronata di faticosi valori, ma senza sublimazione: c’è l’inciampo, l’imbarazzo;
il turbamento, il dissidio, la criticità del denaro. L’esitazione, il
disinganno, il coraggio. Il coraggio, sopra ogni cosa, e l’umiltà e la dignità.
Cecilia, la Madre: amazzone del rigore, a districare l’entropia in ogni minimo
gesto quotidiano, a svelare i fulgori, uno a uno, dei propri figli, scartandoli
“dall’involucro dell’inespresso”, modulando sproni e consolazioni. Maieutica
accurata di custode. E poi, la scelta dell’uomo semplice: Claudio, anello
debole, pare inidoneo, incompiuto, eppure leale oltre il pensabile: lignaggio
d’uomo che si rivela nella durata, nel compito apparentemente basso: fischietta
nel mondare, nel depurare, brilla di devozione. C’è una mistica sottile nel
racconto di Grivel Serra, una filigrana valoriale di adorabile ascendenza:
quella propensione al voto fidato, alla speranza.
Letto in profondità, il testo si schiude come un’allegoria di cedimento
collettivo: reso manifesto nella cellula allargata della famiglia apparente,
sconfessato nel nucleo minimo. La stirpe dei Raccis incarna l’agonia di
un’equità più vasta, comunitaria. L’hospice iniziale, dove Piera si spegne,
spazio tra vita e dissoluzione, è dove la durata cede; allo stesso modo, il
tavolo domestico di una fatidica cena è il punto in cui un’illusoria quiete muta
in contesa e rancore. Come in Moravia, la scena domestica è per Grivel Serra un
teatro di conflitto e di discernimento, di prova e di resa dei conti, e tuttavia
il suo linguaggio conserva un’armonia lirica, paradossale e pacificata.
L’autrice dosa con intelligenza le forze del tempo narrativo. L’alternanza tra
il tempo interno – i pensieri, i flashback, le risacche della memoria – e quello
esterno – le azioni, i gesti, gli scarti dialogici – si compone in un equilibrio
mirabile. I personaggi, anziché banalmente enunciati, affiorano piuttosto per
micro-rivelazioni: uno sguardo, uno scambio verbale, un atteggiamento corporeo.
Il dialogo descrive e determina, mentre il sottaciuto rifonda continuamente il
senso.
La voce narrante di Grivel Serra è diafana ma vigile, pare concedersi
all’ascolto più che alla direzione: un sismografo dell’anima collettiva, che per
ogni inflessione crea asilo e risonanza. La struttura del libro, di notevole
coesione formale, alterna l’evento e il ricordo, la voce interiore e la
restituzione scenica, con una piena padronanza degl’impianti narrativi. La
gestione del ritmo – con aperture dilatate e improvvise concentrazioni
drammatiche – consente all’artefice di far emergere il non detto come nucleo
tellurico di verità ulteriore del romanzo. In sintonia con i grandi moralisti
del Novecento, il narrato assume il dolore come via di conoscenza: la narrazione
sostiene sino alla fine un’alta densità normativa e simbolica, in cui la realtà
parentale è laboratorio di riflessione: sull’umano, sul vincolo; su colpa e
riscatto.
In questa ricerca gli ambienti sono determinanti: spazi intimi, segnati da cura
e rimembranza, parimenti ad angosce e amarezze: l’hospice come limen di congedo,
la casa come ventre originario, il giardino come apertura all’aria e alla luce;
e i luoghi mentali del ricordo: stanze morali – per avvicinarsi a concetti cari
a Thomas Mann[3] – che raccolgono le forze contrapposte degli eventi: la
dedizione e il risentimento, l’impulso e la misura, la tenuta e la resa.
Il dialogo tra piani temporali e voci interiori rimanda, per coerenza interna,
progettualità testuale e afflato etico, a certi modelli del romanzo novecentesco
europeo: l’intensità morale di Bernanos, la coralità di Faulkner, la limpidezza
di Ginzburg nell’elevare la cosa familiare a paradigma del destino collettivo.
Di fatto, la pagina attraversa la molteplicità, per usare la terminologia di
Calvino – enciclopedismo gaddiano incluso, come nel gentile edonismo della
pratica culinaria, così cromatico, lussureggiante[4] – per approdare
all’esattezza: dal groviglio delle presenze e azioni umane traspare una
razionalità, una sorta di geometria delle essenze che arriva a delineare un
messaggio cifrato, progressivo. In tal modo, l’opera si colloca in quella “zona
d’ordine” evocata dallo stesso Calvino[5], dove la scrittura si fa forma viva
dell’esistente, capace di sottrarre frammenti di significato al vortice
entropico del reale.
La lingua di Grivel Serra costituisce uno dei nuclei di maggior rilievo del suo
lavoro, perché unisce l’ardore armonioso e pulsante della parola poetica a una
disciplina sintattica di grande eleganza. Si tratta di una prosa levigata e,
insieme, sontuosa, in cui la densità semantica non compromette la leggibilità.
La scelta di un registro alto, mai retorico – talvolta accarezzato da un’ironia
appena percepibile – permette di rappresentare la complessità dei sentimenti
senza patetismi. La qualità musicale della frase, il ritmo modulato tra piani e
accelerazioni, il gusto per la precisione sensoriale e per il brillio delle cose
quotidiane – una finestra, un tessuto, un piatto di frutta – sono indizi di un
controllo stilistico che colloca l’autrice in una linea di grande
consapevolezza.
Rispetto alle attuali tendenze al minimalismo e all’omologazione stilistica, il
linguaggio di Grivel Serra, pur sorvegliatissimo, ha un impulso eversivo: a
cesellare e vivificare. Vi sono personaggi-simulacro, come la nonna Armida, così
intagliata e fatale; o il cugino Riccardo, sovrano di candida dolcezza, volto
maestro, garante di pace: il quale, sebbene nell’esile misura della senilità,
genera, in chi gli gravita accanto, un “improvviso decollo spirituale, cumuli di
tenerezza, sorprendenti rive di conforto”.
Le descrizioni sanno essere fosche, rugginose, intrise di un medievo del male –
“un cancro le aveva retroflesso, illividito, divorato la mammella che copriva il
cuore” –, i cui cupi grappoli sinestesici preludono sovente a improvvise,
cordiali schiarite; similmente, a latere dei tragici accadimenti dati
nell’intreccio, la scrittura si consacra, intarsiata e generosa, sino a una
dorsale dove eros, materia e pietas si sfiorano in un bagliore originario.
Il cibo è certamente la manifestazione più immediata di vitalismo sensuale:
l’azione dell’approntare, del preparare, mostra, a corollario della precisione,
un brio erotico sfolgorante: “Sin dalle sette della sera, l’inconfondibile
profumo balsamico dell’abete di Natale si alternava con la fragrante, croccante
e aulentissima menta della sfogliata di pecorino, a pervadere in sintonia tutta
la casa. Le lamelle di carasau, base della sfogliata, rispondevano alle attese
dei morsi, ben umettate già dalla sera prima con tre mestoli del brodo di pollo
impreziosito da tre cuori di carciofo, quattro carote, due piccole cipolle, una
rossa, una bianca, un mazzo di prezzemolo e sei rosseggianti pomodorini secchi.
Quei tre mestoli avevano la provvidenziale mansione d’imbibire l’alternanza di
strati a comporre il sapore corposo e allegro della sfogliata, nell’avvicendarsi
di fette del fresco, dolce e filante pecorino giovane di venti giorni di
maturazione a quelle del veterano pecorino mezzo stagionato, dalla bionda pasta
occhiellata. Strato dopo strato, si raggiungeva la cima, e lì la sfogliata
esibiva la menta, a catinelle, assisa in tripudio.”
Nondimeno, l’anello debole è percorso da una sensualità diffusa, che investe i
chiarori, gli elementi, i corpi e la lingua stessa. Ciò che vive trasfonde
un’energia primaria, un’intenzione: è la resistenza del sensibile, alla cui
chiamata il gesto percettivo accorre: è antidoto alla desolazione il seguitare a
toccare il mondo.
C’è luce carnale, tattile, non mistica: una sostanza che investe i corpi e li
definisce: palmare e densa, corteggia gli oggetti, li innamora. E c’è una grande
attenzione olfattiva e tattile: l’aroma di ricotta, limone e arancia
delle pardulette, il profumo acerbo delle giovani albicocche, il riso basmati e
il suo “sentore gioioso di popcorn e sala buia di cinema”; o l’odore sacro
d’incenso, il vapore buono della doccia; i tessuti, la polvere, le stoviglie, la
pelle: tutto vive e odora come un organismo.
Questa sensualità diffusa trasforma la sostanza in linguaggio affettivo: il
cosmo reagisce, ha temperatura, spessore, attrito. Gli oggetti sono investiti di
un calore percettivo che li sottrae all’inerzia. In accezione bachelardiana,
potremmo dire che Grivel Serra ridesta le fibre del visibile.
E così la cura, che è diligenza, assiduità; ma creativa, sempre sorretta da
soave tepore sensoriale: la casa che, da “scatola da scarpe, umida come una
fungaia”, diviene dimora incantata per “radicale correzione”. Tutto parla di un
ordine magnifico del cuore, in specie nell’asse femminile, in splendida
dialettica con quello maschile, così teneramente imbibito di bellezza fragile,
se pur fisicamente poderosa: Rocco, il fratello di avvenenza alessandrina, le
sue nitidezze statuarie, a rilievo. Claudio, padre ritrovato, intento tra
“bulloni”, “nastri isolanti, rondelle, grasso, salviette da pulizia”, che
ritorna il venerdì ancora in tenuta da operaio, “con quel furore segnaletico di
rosso e grigio” avvolto nella nobiltà della stanchezza. Nell’anello debole di
Grivel Serra maschile e femminile sono tesi nel cercarsi, talora oltraggiarsi, e
ridarsi alla luce: la morbidezza tutta muliebre che, nascostamente, sostiene e
consola; il fare, nativamente materico, intensamente virile, che riporta al
dinamismo dell’utilità, fino al culmine del riorientamento nello Spirito, che
sia piano e limpido il saper attuarsi. “Perché il retaggio di un uomo si
determina dal modo in cui finisce la sua storia”.
Angelica Grivel Serra con L’anello debole, nell’equilibrare linearità diegetica
e profondità psicologica, intensità materica e sottigliezze spirituali,
circolarità del tempo assise in riverberi e proiezioni, sembra raccogliere
l’eredità di un Novecento ancora sospeso, col suo portato d’incanti e policrome
risonanze; nondimeno mettendo a fuoco, con incisivo acume, la condizione umana
presente: scissa tra vincolo e spaesamento, tra anelito al casato e tensione
alla libertà. Un racconto dall’aura quasi esemplare, di parabola, che rinviene
nella lacuna, nella pecca – con moto quietamente metafisico – possibili
redenzioni e inedite lealtà.
Isabella Bignozzi
*In copertina e nel testo: disegni di Georges Seurat (1859-1891)
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[1] Feuillet 62, in Feuillets d’Hypnos, Gallimard 1946; poi in Œuvres complètes,
coll. “Bibliothèque de la Pléiade”, Gallimard, 1983 e successive ristampe, p.
189
[2] Feuillet 150, ivi, p. 208
[3] Thomas Mann, Considerazioni di un impolitico, a cura di Marianello
Marianelli e Marlis Ingenmey, Adelphi 1997
[4] Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio.
Con uno scritto di Giorgio Manganelli, Mondadori 2019, p. 106
[5] ivi, p. 70
L'articolo “Ridestare le fibre del visibile”: su “L’anello debole” di Angelica
Grivel Serra proviene da Pangea.
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> “e piuttosto eccedi nell’amore: sono le due ali dello spirito per sollevarti
> al di sopra di tutte le cose terrene e di te stessa” (Maria d’Agreda, Mistica
> Città di Dio. Vita della Vergine Madre di Dio)
> “o nel corpo, o fuori del corpo non so, Dio lo sa” (Seconda Lettera ai
> Corinzi, 12, 2)
> “mentre la terra era vacua e vuota, la tenebra era al di sopra dell’abisso e
> l’alito di Dio aleggiava al di sopra delle acque” (Genesi, 1, 2)
a te, che tutto è cuore.
ne L’anima del mondo e il pensiero del cuore, James Hillman parla dei tre cuori
del mondo: il Cuor di leone, il Cuore di Harvey e il Cuore di Agostino. il Cuor
di leone rimanda al Re, all’oro e al rosso. è il cuore che ha fede nella
battaglia, nell’azione eroica, il cuore dell’agone. il Cuore di Harvey è quello
meccanico, misurabile. il Re di Cuor di leone qui diventa macchina, pezzo di
ricambio, “cuore-orologio”. è il cuore diviso della modernità. per arrivare alla
sua altra metà deve uscire da sé e circumnavigare se stesso. non ha più l’unità
solare del leone, è ambiguo, combattuto. il Cuore di Agostino è l’abisso, il
cuore di un “Io” che si confessa, parla in prima persona. cuore scrigno, cuore
anima “delle tempeste e delle lacrime”, passione della vita personale espressa
nel sentimento. “nell’intimo del mio cuore” (Conf., VII, 10). Confiteor:
ostendere, portare alla luce nello splendore. la preghiera, scrive Hillman,
offre una terapia della confessione quando opera una traslazione a qualcosa di
esterno, a una divinità, a delle figure immaginali di essa, una “capacità
teofanica di portare a visibilità il volto del divino”. Henri Corbin chiama
questa traslazione récit, “racconto”, quell’immaginazione attraverso la quale lo
spirito dal cuore muove verso le origini di tutte le cose. così, l’azione
caratteristica del cuore non è il sentire ma il vedere. il cuore è la sede
della vera imaginatio, e l’immaginazione è la sua voce più autentica. nel suo
studio su Ibn ‘Arabī, Corbin riconosce in questa potenza immaginifica del cuore
l’“himma”, l’enthymesisgreca: l’atto di immaginare, progettare, desiderare
ardentemente. l’himma crea come reali le figure dell’immaginazione in un afflato
panico, rendendole creature autentiche (Hillman 2002). nella Considerazione XXIX
sulla differenza tra teologia mistica e teologia speculativa Jean Gerson scrive
che quando l’intelletto è pervaso dall’amore per le realtà contemplate esso si
protende e si effonde tutto nella cosa desiderata, cercando di trasferirsi e di
unirsi ad essa: “Guardiamo gli occhi di certe persone: come scintillano, come
brillano, come vorrebbero riuscire ad abbracciare avidamente tutto” (Gerson
1992, 155). ciò è vicino alla volontà gioiosa dell’himma. i mistici Hanafi
Al-Khālidi e Ibn Mustāfā al-Kumush riconoscono diversi stadi dell’himma. il
primo è l’himma del risveglio (himmat al-ifāqa), l’attaccamento del cuore a Dio.
questa himma, che apre il cammino che porta all’essenza di Dio, fa in modo che
il “servitore” percepisca veramente quello che desidera attraverso l’“intuizione
chiara”. volgere la propria attenzione a Dio significa astenersi da ogni altra
riflessione o obiettivo:
con parole tue, “essere con, essere verso”
nel cono dell’unità. l’amore tende all’unità, “è la forza divina che supera le
distinzioni e compie ogni unità” (Barsotti 2002). per Ibn Mustāfā al-Kumush dai
primi stadi in cui l’himma è legata all’obbedienza di Dio si distoglierà
l’attenzione da ciò che effimero fino a portare tutte le himma ad una sola,
“l’attaccamento del proprio cuore alla felicità che sempre rimane”, ad
abbracciare l’amore divino,
in quell’“amore selvatico, che avvampava senza pensiero e senza margine”
per Ibn ‘Arabī progressivamente si arriva allo stadio in cui gli gnostici,
entrando in connessione con l’unità divina, scorgono l’unicità dietro la
molteplicità dei fenomeni; vanno oltre la realtà delle cose e vedono se stessi
come una manifestazione della realtà ultima, che è Dio. lasciando andare tutte
le cose nell’ascensione attraverso le tappe dell’himma alla fine resta solo Dio
(Lala 2023). allo stesso modo nel Salmo dell’estasi di Davide Agostino dice che
“nell’uscire da sé della mente si scorgono due cose, il timore o l’anelito alle
cose celesti sino al punto che, in un certo modo, vengono meno dalla memoria le
cose terrene” (Comm. ai Salmi, “Sullo stesso Salmo 30, Esposizione II”, Discorso
I, 2). questo impeto di accoglienza del divino è la capacità di dilatazione del
cuore data dal desiderio risoluto di ricevere Dio.
> SIGNORE, davanti a te è tutto il mio desiderio (Sal 38)
lo spazio interiore dell’essere umano è incommensurabilmente più angusto
dell’“amplissimo a largo” di Dio, eppure egli desidera ardentemente riceverlo, e
questa ricezione è possibile grazie alla capacità di dilatazione gioiosa del
cuore. rispetto ad essa, Agostino pensa che non si possa separare l’interno
dall’esterno poiché la dilatatio cordis, segno e attestazione della grazia, è
“ospitalità”, in cui host e guest
sono indistinguibili. la gioia è l’arrivo in noi di un “invitato improvvisato”
(Chrétien 2007, 62), lo Spirito Santo, che non siamo capaci di ricevere ma che
riceviamo dilatandoci, provando un desiderio acuto e intensificato. il mistico
domenicano Louis Chardon parla della dilatazione come di qualcosa di vertiginoso
che coglie quanti sono sul bordo dell’abisso dell’infinità divina, davanti alla
quale anche l’amore smisurato è insufficiente. per il mistico eremita Richard
Rolle nella dilatazione l’anima si riempie di una dolcezza di miele e il cuore,
cercando di stringere a sé questa dolcezza, compie uno sforzo continuo per
abbracciare l’incommensurabile e si dilata sempre di più (Chrétien 2007). il
desiderio di accogliere Dio non può non accompagnarsi a una purificazione del
cuore:
> “Angusta è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: allargala dunque;
> è in rovina: restaurala; alcune cose contiene, che possono offendere la tua
> vista, lo ammetto e ne sono consapevole: ma chi potrà purificarla, a chi
> griderò se non a te” (Conf., 1, 5; 6).
per Agostino è Dio che ci dilata. rimanere ‘rincuorati’ nel desiderio di Dio
secondo fede, speranza e carità, quest’ultima potenza dilatante per eccellenza,
è la condizione affinché la dilatazione avvenga; in questo modo l’essere umano
diventa capiente per accogliere Dio.
nel tuo arazzo celeste i tre cuori trovano il loro compimento, i loro cammini
diversi e complementari si intersecano, rondini inebriate. volta all’altissimo,
ma ti abbeveri all’anima mundi con il cuore netto del leone, non dimentichi cosa
fa della Terra la casa di una splendida finitudine:
> “Se solo ricordassimo l’argento che guizza nei pesci, la matematica del
> planare, come libero è il gettarsi in volo: rannicchiati fino al cielo i rami
> con la loro quiete, adorano nel sole l’umile eternità che, nelle radici, gli
> fa da madre senza sapere l’abbandono. Perché non sia dimenticato che pieno
> d’oro è il salire. Pieno di spettacolo”.
lo spettacolo del cuore immaginifico che si nutre della propria fantasmagoria di
bellezza. e allo stesso tempo segui “un’aorta incerta”, accogli il cuore diviso
esposto alla beatitudine e alla disperazione, fai luce della sua confessione.
“Guarda là”
torni giù al guardare, strumento degli esseri umani, a “queste macchine
produttive del dolore”, a “questi margini allibiti, che portano l’incisione ad
armarsi d’ombra”. ritagli i bordi pesanti. eppure in compassione.
“e ulcere di legna verde, solo braciere la preghiera”
quella preghiera che sboccia acerba, a tentoni, “l’inizio sempre randagio”
per Gerson, come la legna verde fatica a ricevere il calore del fuoco per
accendersi a sua somiglianza, così colui che è destinato a ricevere il calore
dello Spirito santo e ad attingere all’amore puro dovrà sottoporsi alla
disciplina della penitenza. nel fuoco dell’amore la meditazione non cerca la
verità speculativa ma la compunzione che fa seguito alla scoperta della verità,
una penitenza necessaria per intraprendere il cammino verso la teologia mistica,
il cammino verso “l’abbraccio dell’amore unitivo” (Gerson 1992, 151),
del “crollare di candore”, “petto scalzo”,
> “il dolore rabdomante trova il corpo per dargli il suo cerchio di pace,
> disfandogli la boria di ogni saldezza dorsale: quello che placa è lo stare in
> ginocchio: nella nuda resa s’incontra l’eterno”
> “santuari di rotta carità nel preciso istante della resa, che è qui che si
> frana, su sé stessi di spalle”
Ti basta la mia grazia, poiché la forza si manifesta pienamente nella
debolezza (Seconda Lettera ai Corinzi, 12, 9).
si crolla di candore nello spavento della bellezza del divino,
> “Nel rosso cuore mio battente si posa il tuo nome, accanto alla paura,”
nello sguardo che sostiene a fatica la sua visione, poiché ogni sguardo non
trova avvenire che nello stesso luogo della sua estenuazione (Chrétien 1987),
ché nessun essere umano può guardare a Dio senza accecarsi. solo l’amore può
sostenere lo sguardo di eccesso dell’Amore, accomodarsi nell’abbaglio alla sua
evidenza, cioè alla sua prova (Marion 2018). questo principio di ostensione
insito nella confessione, nel crollo, che si esplicita nell’offerta dello
scrigno del terzo cuore, è, con le parole di Michel Henry, l’auto-rivelazione
della vita (Henry 2000). la vita parla nel cuore, nella sua “auto-rivelazione
patica immediata”, dove lo spazio tra la senzienza e la sua esplicitazione,
sotto forma di pensiero o linguaggio corrente, è annullato. dalla matrice prima
all’individuo, la tua fermagenesi è l’evento vitale di auto-donazione, e quindi
di auto-rivelazione, che non si guarda, fuori dal mondo, curvo sulla propria
pulsazione. cos’è che si dona a se stesso senza mondo, senza che la donazione
consista in un mondo? la vita. “la vita è qualcosa che prova se stessa”, scrive
Henry, prima cosa originaria, senza intenzionalità, “proprio perché l’assenza di
finalità, l’assenza di intenzione è l’essenza della bellezza del mondo” (Weil
2008, 135). e allo stesso tempo ha una soggettività assoluta, non risponde a un
“Io”, ai ruoli dell’identità. è oltre la messa in atto della rappresentazione,
sottratta ad ogni orizzonte di visibilità (Henry 2001). così tu, nel rovescio,
nel concavo, nell’inverso, sottrai in pudore quello che ami, per soverchiamento.
un privativo da cui sussurrare quell’infinito che arriva all’Uno, parafrasando
Meister Eckhart, gravida del nulla:
> “l’indimostrabile del cosmo che vibra”
vivere nell’immanenza della vita che prova se stessa nel mistero della simbiosi
tra gioia e sofferenza. in questo senso per Henry la nascita non è ‘venire al
mondo’, poiché siamo già nell’ostensione vitale della Vita assoluta. venire al
mondo implica un’intenzionalità, una coscienza, mentre la vita ci viene di per
sé, viene a sé e ci genera in quanto incessante auto-affezione.
fermagenesi nel suo mentre.
> “Rossi erano i cuori, battenti, un attimo prima del mondo”
si è dati a se stessi senza che questa donazione rilevi da se stessi. non siamo
affetti da null’altro, generati come un Sé nell’auto-affezione della Vita
assoluta. e se chiamiamo la vita Dio, allora il Sé è la condizione della
possibilità trascendentale di ogni individualità concepibile: “Dio mi genera
come se stesso” (Meister Eckhart in Henry 2004, 132). Una Vita inesprimibile con
il linguaggio, puro avvenimento,
> “ortogonale al parlato,
> è l’ago di luce che pronuncia l’essere di ognuno tacendo”
per questo la scienza non può fondare l’individuo, il cui anelito a liberarsi
dal confine, dalla misura che vige nel mondo terreno, all’alterità circoscritta
ed empirica attraverso gli oggetti, è nel rovesciamento di Novalis: “Quando non
saranno più i numeri e le figure/ Che gireranno le chiavi di tutte le creature,/
Quando coloro che cantano e abbracciano/Ne sapranno più dei profondi dottori
[…]/ Quando il mondo si sarà arreso/ Alla vita libera e sarà restituito al
mondo, […]/ Allora basterà una sola parola segreta/ Perché si involi tutto il
modo di essere rovesciato delle cose” (Novalis in Marion 2014, 242). ossia la
‘realtà’ empirica del senso comune.
> “il denaro come un’ara di plastica, che canta i numeri per fare più marcate le
> ombre”
> “mentre tutto tramonta e spiffera il segreto”
mi vengono in mente “Hilda Welcomed” e “Communication”, due opere di Stanley
Spencer in cui le persone si abbracciano in modo quasi ossessivo in un intreccio
che disegna linee energetiche. Spencer dipinge esseri difformi, tremolanti,
presi nella vibrazione che sottende quello che è visibile, solo apparentemente
‘dritto’. gesti apocalittici, torti, visti attraverso la lente aberrante
dell’amore, portatori di cuore selvatico e scosso. i personaggi di Spencer sono
colti nelle loro azioni quotidiane ma sembra che tutto sia immobile, rapito in
una vertigine sotterranea che scuffia lo spazio, i corpi, senza spostarli. in
una delle sue Crocifissioni (1958), la scena sovrasta i tetti delle case di
mattoni di una cittadina dei primi del ’900. il Cristo guarda verso l’alto
mentre due sgherri con un ventaglio di chiodi tra le labbra glieli piantano
nelle mani. ai piedi della croce, una figura femminile è prostata a terra con le
braccia divaricate. nei quadri di Spencer le braccia sono elemento vivo. nella
Crocifissione si confondono con le assi della croce. braccia protese, levate,
continua invocazione verso un abbraccio superiore di Amore verso cui si tende
vibrando, “essere verso”. anche Spencer anela all’altissimo guardando con
compassione le creature del suo sottomondo, l’infinitamente piccolo, mortale,
orfano, dell’incommensurabile evento di fermagenesi.
più che rovesciamento essa è arrovesciamento, terremoto da fermi che vivifica
non i cuori materia ma il loro rosso.
> “un plotone di cuori rossi battenti nelle fiamme mai prese al laccio”
lo scintillio del fuoco fa presagire un mondo in cui non ci sarà più che il
fuoco del baleno, dove ogni cosa sarà come un fulmine (Chrétien 1992). “Rimani,
se puoi, proprio in quel primo istante in cui sei attraversato da un lampo,
quando viene detto: ‘verità’” (Agostino in Meister Eckhart, 2013, 85). rosso non
è un colore, è perenne gioco di specchi tra l’arsura del credente nella sua
protensione e la fiamma del Sacro Cuore, che chiama colui che crede,
incarnazione del sacrificio cristico,
> “sangue acceso di fiume aperto”
creatura di saturazione, il cuore cinto di spine apparso a Margherita Maria
Alacoque, conchiuso nel corpo straziato di Cristo. rosso dono totale, dono senza
intelletto che aderisce come la cieca fedeltà animale al suo versamento.
Margherita Maria lo accoglie nel suo stesso seno. Giovanni della Croce parla del
“volo” “alto e leggero di contemplazione” della colomba, arsa nell’amore,
“rapimento ed estasi dello spirito a Dio” (Canto spirituale B, 13, 7-8). cuore
nella sua transverberazione, “ferita d’amore”, un tocco d’amore che come saetta
di fuoco ferisce e trapassa l’anima, “fiamma d’amor viva”, Spirito Santo. “Nel
frattempo – dice Beatrice di Nazareth – l’Amore si fa talmente smisurato e
soverchiante nell’anima, come fuoco la marchia nel cuore, che è come se il cuore
fosse trafitto da ogni dove” (I sette modi del santo Amore). e così Teresa
d’Avila: “Mi colpì con una freccia/ Avvelenata d’amore,/ E la mia anima divenne/
Una cosa sola con il suo Creatore” (“Sulle parole ‘Dilectus meus mihi’”).
> “bocciolo di punta”
rosso come risposta alla chiamata di Dio. una chiamata che fende gli epifenomeni
del senso comune e solleva la pura vita alla pura vita, la chiamata cui non deve
seguire la parola perché ogni nostra reazione risponde ad “un’eco immemoriale,
nella caduta di un doppio eccesso” (Chrétien 1992, 30), chiamata nella totalità
del mondo in cui non si è che nel coro di una perpetua incoazione, nel mentre
dell’auto-donazione. questa chiamata all’essere non è temporale, ma eterna e
istantanea. per risuonare nella verità non può che risuonare nel vuoto,
radicalmente altra dalle chiamate terrene che sollecitano il possibile, il
contingente. “Per costituire, destituisce. Per dare, priva. Per creare, disgrega
tutto quello che si considerasse forte di per sé prima della chiamata o
indipendentemente da essa” (Idem, 33).
penso a quanto tu ripeta di questo travaglio cangiante alla chiamata, un pigolìo
di preghiera che ti ruscella nel torace, e incessantemente riannodi braccia e
gambe con una pazienza insopportabile. ti smonti e poi riprendi ogni pezzo in un
tuo brusio ardente caro alla nullità. così testarda nell’amore, rannicchiata in
una cavità in cui rinbomba un avvento che ti lascia sola. mi assale, questo tuo
bianco che sbocca, si apre in corolle di ghiaccio e sconfina verticale, Candida
Rosa. ma scrivi dell’estrema cima perché hai guardato in attenzione coloro che
sopra non scorgono. aneli da basso, cucendo i tuoi angeli di organza. saperti lì
assorta, ogni nuova infanzia.
Cristiana Panella
*
Riferimenti bibliografici
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Trad. di Carlo Carena. Torino: Einaudi, 2000.
Agostino, Commento ai Salmi. A cura di Manlio Simonetti. Milano: Mondadori,
1989.
Barsotti, Divo, La mistica della riparazione. Pref. di Giuseppe Gioia. Melara:
Edizioni Parva, 2002.
Bibbia. Progetto e direzione di Enzo Bianchi. A cura di Mario Cucca et al. Trad.
di Enzo Bianchi et al. Torino: Einaudi, 2023.
Bignozzi, Isabella, Fermagenesi. Quarta di copertina di Mara Cini. Verona:
Anterem Edizioni, 2025.
Cirlot, Veronica et al. (a cura di) La mistica cristiana (vol. 2). Progetto
editoriale di Francesco Zambon. I Meridiani. Milano: Mondadori, 2021.
Chrétien, Jean-Louis, L’effroi du beau. Parigi: Les Éditions du Cerf, 1987.
Chrétien, Jean-Louis, La voix nue. Phénoménologie de la promesse. Parigi: Les
Éditions de Minuit, 1990.
Chrétien, Jean-Louis, L’appel et la réponse. Parigi : Les Éditions de Minuit,
1992.
Chrétien, Jean-Louis, La joie spacieuse. Essai sur la dilatation. Parigi : Les
Éditions de Minuit, 2007.
Gerson, Jean, Teologia mistica. Testo latino a fronte. A cura di Marco Vannini.
Cinisello Balsamo: Edizioni Paoline, 1992.
Giovanni della Croce, Opere complete. Prefaz. di P. Emilio José Martίnez
González. Introd. di Federico Ruiz. Roma: OCD, 2020.
Henry, Michel, Incarnation. Une philosophie de la chair. Parigi: Seuil, 2000.
Henry, Michel, Fenomenologia materiale. A cura di Pietro d’Oriano. Milano:
Guerini e Associati, 2001.
Henry, Michel, Parole del Cristo, Brescia: Queriniana, 2003.
Henry, Michel, Auto-donation, Parigi : Beauchesne, 2004.
Hillman, James, L’anima del mondo e il pensiero del cuore. Milano: Adelphi,
2002.
Lala, Ismail, “Turning Religious Experience into Reality: The Spiritual Power of
Himma”, Religions, 14 (3), 385, 2023.
Marion, Jean-Luc, Certezze negative, Firenze: Le Lettere, 2014.
Marion, Jean-Luc, Prolégomène à la charité. Parigi: Grasset, 2018.
Meister Eckhart, Commenti all’Antico Testamento. Testo latino a fronte. A cura
di Marco Vannini. Milano: Bompiani, 2013.
Teresa d’Avila, Tutte le opere. Testo spagnolo a fronte. A cura di Massimo
Bettetini. Milano: Bompiani per Giunti Editore, 2018.
Weil, Simon, Attesa di Dio. Milano: Adelphi, 2008.
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La Trinità di Andrej Rublëv è un incanto dilatato, di terso silenzio:
scoscendimento contemplativo, esperienza dell’ustoria gioia del proprio limite.
Il contenuto narrativo è tronco: tre angeli che appaiono a Abramo sotto le
querce di Mamre (Genesi 18,1-3) – tre persone, una voce sola –, e vivamente
alludono alla Trinità. Immagine cui ubbidire immobili, nell’estasi degli aurei
sfondi che trasudano dal legno; la disposizione di spazi e flussi di chiarore,
la trasparenza delle forme, l’azzurro profondo reiterato nei mantelli sono
proiezioni all’infinito; giovane e tenero verde: profumo dell’aperto, spirito
vivo; e il porpora velato, scuro del sacrificio: kenosi, offerta. Teologia
cromatica ardente, luminescenze che non appartengono alla fisica terrestre della
luce, bensì a quell’urgenza epifanica che porta l’annuncio dell’increato nel
visibile.
L’elemento umano è espunto, tutto è nei tre angeli, esilissimi, dalle ali
incorporee, seduti intorno a una mensa che reca il calice eucaristico: da
narrazione a diafanìa mistica: visione circonfusa di bagliori soprannaturali,
che sostiene la tensione all’ulteriore: la coinerenza armonica, circolare, delle
tre essenze trinitarie.
La quercia di Mamre: albero della vita, tronco della croce; sullo sfondo la
tenda di Abramo, la casa del Padre; la montagna della rivelazione; e, intessuti
di aurea chiarità, i tre angeli: in un cerchio quasi perfetto, a inclinare corpi
e volti l’uno verso l’altro, creando in chi osserva il ritmo interiore, silente,
del reciproco amore.
Guardare la Trinità è nuda intuizione del proprio limite, che spezza lo sguardo
in preghiera. Il mistero rimane stretto, inospitale, ma sfiora il basso profondo
dell’umana ferita.
Si partecipa senz’afferrare, possedere. Chi guarda è chiamato a sostare, ai
ripidi declivi dell’assoluto, soffrendolo in amore: tale il ruolo kenotico
dell’icona, “immagine conduttrice”, via “apofatica”, “ascendente” secondo Pavel
Endokimov[1], che si fa limen di catarsi trasfigurativa, evidenza di
inadeguatezza, pur adorante, grata.
Rublëv vive in epoca asservita, tumultuosa: il giogo tataro, i pesanti tributi
all’Orda d’Oro, le frammentazioni, i saccheggi: dilaniata e oppressa la Rus’,
non trovando spazi esteriori, reagiva interiormente, con la spiritualità devota
e unificante di Sergio di Radonez, “umile servo della Trinità”: dal monachesimo
disadorno, spoglio e il carisma mistico di un alter Christus del Medievo. Rublëv
iconizza questa condizione: l’impossibilità di comprendere, di circoscrivere il
fenomeno porta a una dolente evoluzione intima e personale.
È Pavel Florenskij a rilevare, più di chiunque altro, il ruolo attivo, salvifico
dell’icona, visuale in grado di sbalordire “con un colpo solo anche lo sguardo
più insensibile”, mediante “quel senso acuto, che penetra l’anima, della realtà
del mondo spirituale che, come un colpo, come una scottatura, sconvolge
all’improvviso” chi osserva, dando “un’autentica percezione
dell’aldilà, un’autentica esperienza spirituale”[2]; fino a poter dire: “se
esiste la Trinità di Rublëv, allora esiste Dio”[3]. È la condizione del limite
che patisce l’intero, l’irreparabile splendore: struggimento che diviene
vocazione.
Andrej Rublëv, Trinità, 1422 ca.
*
Così Osip Mandel’štam, astro di mitezza, prono solo all’infinito: perseguitato e
indomito, di fronte alle crudeltà della storia rende il suo dire poetico
frastagliato e regale, ardito come una leggiadra burrasca: teneramente grave,
dal passo sinfonico, concussivo, incendiario nella neve. Autentico poeta del
limite, che del dolore fa vermigli diaspri, parola tremante in ragione
dell’immenso: “Mia tristezza fatidica, presaga,/ mia quieta, silenziosa libertà/
e tu, sempre ridente, là, cristallo/ della volta celeste inanimata!”[4]. Uno
splendore inanimato, che tuttavia commuove. Cozzando con la propria esiguità, il
poeta schiude interiormente al sublime:
> “Io mi porto questo verde alle labbra –
> questo vischioso giurare di foglie –
> e questa terra che è spergiura: madre
> di bucaneve, aceri, quercioli.
>
> Mi piego alle umili radici, e guarda
> come divento insieme cieco e forte”[5];
di fronte a oppressioni e persecuzioni, di fronte all’ottusa concretezza,
rappresa e incoercibile, della materia e della storia, l’esperienza tetra e
glaciale pone il cuore a disarmo, portandolo a fulgore riverso, in intento e
parola:
> “dura è la terra, secondo coscienza.
> Rintraccerai a stento più puro ordito della
> verità d’una tela di bucato.
>
> Si disfa come sale, nella botte, una stella;
> più buia è l’acqua gelida, più pura
> la morte, più salata la sventura,
> ed è più onesta e paurosa la terra”[6].
Se onesto e pauroso è ciò che si staglia dinanzi, se fuori è durezza e gelo,
dentro è retrogrado incendio. È la barriera che sbarra il passo, e dunque impone
il retrocedere nei culmini accesi, nelle frugate, rinvenute nobiltà di sé
stessi. Eppure la creatura trema di fragilità e inadeguatezza, in specie quando
avverte la fugace, intima verità che centra il cosmo nel suo asse: della
soverchiante plenitudine, non saper dire:
> “Superando la fissità della natura
> il durazzurro occhio ne penetra la legge:
> nella crosta terrestre impazzano le rocce,
> dal petto sgorga un lamento minerale.
>
> E il sordo animalcolo si tende
> come per una strada a corno ritorta,
> per capire l’eccesso interno dello spazio,
> del petalo pegno, e della cupola”[7].
La poesia di Mandel’štam, pervasa di sensi supremi, di biblici e salmici
sentori, delinea il punto di arresto, di stasi assorta: inerme alla volgare
alterigia del potere staliniano, al terrore della tirannia, al “mare nero/ che
con greve rombo si addossa al capezzale”[8], ed esile, smarrita alle pendici del
sacro, la parola s’innalza, finanche più vigile, viva: più vera, nell’impotenza
che tocca l’impedimento, perché ad esso s’inchina: vi rende omaggio,
celebrandone fondamento e misura; è là, nella morsa del proprio poco, che essa
si riaffaccia: effimera, mobile, imprendibile, eppure caparbia: “Quando
distrutto l’abbozzo,/ ti sforzi di trattenere nella mente/ il periodo senza
pesanti glosse,/ unito e uno nella notte interiore”[9].
Tremare d’inadempienza delinea uno scenario teologico, se pur non di devozione
dichiarata: il sacro e l’immane presagiti, mai interamente intesi, custoditi in
amore al prezzo estremo: tutti teniamo affettuosa memoria di questo poeta “dei
dativi” in luogo dei “nominativi”, il rapsode dello “slancio esecutivo”, con la
sua “sacra stoltezza” da bizzarro “corifeo”: magrissimo, in punta di piedi,
dallo sguardo “teso, come cieco alle cose di poco conto”[10]. Amato Osip, scarno
ed eterno; imprigionato dalle pazzie del regime, privo di denti, semiassiderato;
così soavemente impavido, sognante: accanto a un cumulo di rifiuti, nei casti
albori di neve, a recitare Dante e Petrarca.
*
La precarietà, l’umana insufficienza, il caustico tocco del male non
compromettono, della parola, la vocazione sacrale, il richiamo metafisico come
pratica di resistenza. C’è l’ostinazione dei corpi, la cieca crudeltà della
storia, certamente. Tuttavia la tensione all’invisibile – nel poeta, nel devoto
che osserva l’icona, e in ogni essere umano che, spossato dal dolore, non lo
amplifica, non lo pratica su altri, ma si arresta nel proprio gracile enclave,
avendo cura del limite ricevuto in sorte – innalza l’anima al suo vertice:
> “A tu per tu, il gelo in volto io fisso;
> lui fissa il nulla, e io fisso dal nulla;
> stirata, pieghettata, senza grinze,
> respirante miracolo, pianura”[11].
Nell’ottusa violenza del visibile, nello sgomento della bellezza, la micidiale:
disarmare il cuore, salire. Secondo Endokimov[12] l’uomo, creatura inferma, come
il servo di Yahweh in Isaia (53,2), è afflitto dal velo dell’imperfezione ma,
segretamente, in potenza, è, per volontà dell’Altissimo, un microtheós: dotato
fin dall’origine di uno speciale “carisma contemplativo” per esperire “il fuoco
ineffabile e prodigioso”, “lo splendore folgorante della Bellezza [di Dio]
dentro tutte le cose”[13]; l’uomo ha facoltà poetica, la potenzialità di
nominare, l’attitudine a sostenere e penetrare la radianza divina disseminata
nel creato, tanto da poterle dare nome: come Heidegger diceva di Hölderlin. Se
ogni cosa possiede il suo lógos, la sua “parola interiore”, posta in trasparenza
tra forma e contenuto dal fiat divino, ebbene l’infermità stessa della materia
corporale umana è trascesa “in un superamento, che è vera trasfigurazione”, in
cui “l’ostacolo viene messo al servizio dello Spirito con una misteriosa
conformità al destino segreto di un essere”[14], e “il pensiero umano che riceve
la rivelazione, si crocifigge per rinascere nella luce trisolare della verità
assoluta”[15]
È sostare con mite realismo nel limite e nel difetto, continuando ad amare, che
colma il divario, mediante la discesa della grazia. Il destino è il modo in cui
Dio sceglie di annullare la distanza, e di aprirci alla visione, alla “immagine
e apparizione della luce inaccessibile, specchio tersissimo, limpido, integro,
immacolato, inoffuscato, che riceve tutto lo splendore della prima
bellezza”[16], fino alla “identità per assimilazione”, “identità in atto” che,
“come un punto, unisce le due sponde al di sopra dell’abisso”[17]: dissolve la
pecca, il difetto, il doloroso confine: da immagine l’uomo va a somiglianza.
È questo, in Mandel’štam: il margine non è mera finitudine, ma ardua apertura:
inclinazione sofferta al mistero.
*
Nel Trisagion, canto antichissimo, nato nella liturgia bizantina nei primi
secoli del cristianesimo orientale, poi diffusosi nell’ortodossia slava, si
intona: « Ἅγιος ὁ Θεός, Ἅγιος ἰσχυρός, Ἅγιος ἀθάνατος, ἐλέησον ἡμᾶς», tradotto:
“Santo Dio, Santo Forte, Santo Immortale, abbi pietà di noi”[18]. La ripetizione
triplice costruisce un ritmo di sospensione: tre attributi divini che
trascendono la natura umana precedono l’appello di misericordia: il fedele
riconosce la propria pochezza al cospetto del Padre, e partecipa in carenza e
povertà, adorando.
Il Trisagion è icona e poesia insieme, pura nozione del margine: la santità, la
potenza, l’immortalità sono qualità che eccedono l’umano, ma il canto
comunitario consente di entrare in relazione con esse attraverso supplica e
ripetizione, costruendo un tempo sospeso in cui la finitudine si apre al
trascendente. L’incontro con la propria precarietà è invocazione condivisa, come
nella contemplazione di Rublëv o nel gesto poetico, dato e ricevuto, di
Mandel’štam. In quest’ottica, il limite è l’unica forma possibile di relazione
con l’invisibile, spazio fecondo di elaborazione della sofferenza, piattaforma
di devozione radicata nell’umiltà.
*
Jean-Francois Thomas, in una lunga, incantevole meditazione filosofica[19], pone
Simone Weil e Edith Stein in delicata dialettica riguardo afflizioni e amarezze
dell’umana esistenza; a ben guardare, il tema del testo è precisamente il
limite: soglia da oltrepassare per esperire la piena comunione col sacro, nonché
incompiutezza costitutiva della creatura incarnata, gettata nel cronotopo e
sferzata dagli automatismi della necessità.
L’intero volume è un’accorata riflessione su come due cuori sublimi provarono ad
amare l’Eterno da quaggiù, ad accogliere il reale nei suoi orrori senza negarlo,
a renderlo teoreticamente compatibile con il sommo bene, che è Dio: cercando di
superare la propria corporeità nel continuo slancio all’infinito. Edith infine
vi riuscì, con umilissimo abbandono, ponendosi nella consegna totale; Simone non
ammorbidì mai il suo atteggiamento radicale, rimase di una durezza intellettuale
incorruttibile: la sua postura morale era inconciliabile con le “consolazioni”
della fede: pur praticando la compassione attiva, solidale con i più sventurati,
fino a morirne, non riuscì a porsi in grembo a Dio. Esattamente il limite, sia
come sofferta incarnazione, sia come limen di accesso alla completa comunione in
spirito col Padre diviene un assunto nodale del libro. L’abbandono, come in
Jean-Pierre de Caussade[20], è l’istante consegnato, il luogo d’innocenza dove
Dio ama posarsi, dandosi in trasparenza:
> Non è più una vita di pensieri, una vita di immaginazione, una vita di
> discorsi e di parole, ad occupare l’anima, a nutrirla, a sostenerla: essa non
> procede più, non si sorregge più su queste cose. Non vede più dove cammina,
> non prevede più dove camminerà; non si aiuta più con la riflessione per
> infondersi coraggio nello sforzo e per sopportare i disagi del cammino; essa
> avanza ormai nell’intima coscienza della sua debolezza. La strada si apre
> sotto i suoi passi, l’anima vi si inoltra e prosegue senza esitare; essa è
> pura, santa, semplice e vera.
Nella spiritualità ortodossa è lo jurodivyj, il folle in Cristo, esempio di
quella stoltezza paolina che confonde i sapienti (1 Cor 1,27): è san Basilio il
Benedetto, è il principe Myškin, l’idiota che dobbiamo diventare, cioè il genio,
come diceva Cristina Campo. Un ideale pressoché inattingibile, per la natura
incessantemente mobile e conflittuale dell’animo umano.
Con allegorica esattezza, è proprio Cristina che, nel trattato Les sources de la
Vivonne[21], riguardo il luogo fascinoso – citato da Proust nella Recherche, –
che dà nome al saggio, afferma:
> Infinitamente più delicata e tremenda è la presenza dell’immenso nel piccolo
> che non la dilatazione del piccolo nell’immenso.
Tramite la sua scrittura intensamente simbolica e metafisica, nello scenario
riportato, Cristina registra l’affinarsi di una dismisura: l’immaginario
proustiano della catacombale Entrata agli Inferi, della Cosa
extraterrestre s’arresta in un piccolo lavatoio quadrato, “da cui montano delle
bolle”.
Quest’immane che s’annida nel minuto ricorda ferocemente la presenza di Dio nel
cuore dell’uomo: condizione di astrale potenza, di temibile prodigio, perché si
assottiglia in vigoria letale l’immenso quando è costretto nel vincolo di
un’esiguità. L’interiorità umana è dunque così ricolma e spaventosa, e vacilla
tra bene e male con suscettibile, concisa, nervosissima instabilità.
L’immenso di Dio nel limite dell’uomo crea un movimento continuo tra spirito
afferente all’Eterno e miserevoli margini dell’incarnazione. Allorché indigenze
e pochezze vengono attenuate tramite una tenace adesione allo Spirito, rimane
comunque un dibattito continuo di ribilanciamento, che può significare, nelle
note vie dialettiche di rovesciamento degli opposti, una sofferta e splendida
tensione alla salvezza:
> In un rapporto non immaginario – un rapporto dal quale il gioco delle forze
> sia escluso – nessun sentimento o pensiero regge a lungo isolato ma ciascuno
> si capovolge rapidamente nel suo opposto.[22]
In un rapporto non immaginario, ma attentivo: laddove il limite, reclusione
primaria, accolto e pacificato, intaglia il vivente nel suo profilo, gli dona
identità. Allora dal carente lembo incarnato, dalle doglie di una mente vana e
breve, s’innalza l’affidamento, la preghiera, per ricevere svelato il destino:
> Esisteva l’immenso soliloquio, il privatissimo canone che insegna a ricondurre
> alla sua fonte e al suo fine la sorte di ogni uomo su questa terra: il
> Salterio[23].
Nel salmodiare la menomazione diviene contorno, abbozzo di figura che chiede un
assenso, obbedienza al presagio, all’elezione.
Vi è un limite di partenza, condizione data, misura imposta nel vincolo
creaturale, e vi è un limite di arrivo, che è adesione, temperanza: la
terminale disciplina di accordare la propria esistenza a una feconda povertà e
spoliazione, fino a risiedere gioiosamente nella mancanza. Nessuna virtù, solo
la via ineludibile alla compiutezza. Allorquando il limite, connaturato, viene
esaudito dal proposito, s’arriva al non asservimento: alla libertà. Ecco,
ancora, il rovesciamento degli opposti: dando assenso al vincolo, da figure
corporee e desideranti, si va verso altri spazi, a rinsaldarsi in essenze
spirituali, dimoranti nell’assoluto: “Dio precipita a piombo in queste celle, in
questi corpi, con un solo tremendo batter d’ali. E nei corpi, radicati nel cielo
come sono, è una forza che spaventa”.[24]
L’incarnazione è, per ogni mistico, la grande prova, l’attraversamento: per
giungere al distacco, a mitezza radicale, priva d’autoasserzione. Deporre sé
stessi, con fede intera nel sopramondo: far ruotare in petto quel cuore
legato che precludeva l’impossibile.
Il limite, la pecca, la mancanza, sono l’asse di rotazione del cuore nel petto:
cessione di privilegi ed esenzioni, apertura al perenne attrito Frygt og Bæven,
timore e tremore, porsi nelle mani di Dio. In tale ascesi, tutto è per
sottrazione, un avanzare inverso al silenzio e al vuoto; un restare con
cura nella pazienza e nella mancanza, nell’obbedienza, nel rifiuto, alimentano
il soffio dello Spirito: la virtù negativa che tesaurizza, mentre la tentata
affermazione di sé, a contrappunto, disperde e dissipa. Campo – “io non ti
voglio più cercare./ Vibrerò senza quasi mirare la mia freccia,/ se la corda del
cuore non sia tesa”[25] – durante tutta la sua vita esprime il sogno mistico di
aderire in spirito, di combaciare, rimanendo nella gioia dell’inidoneità,
nell’amore purissimo: il cuore sia una corda tesa.
Dandosi misericordia, assentire a quel punto scoperto dell’armatura che si fa
sorte, rotta ineluttabile, nitida identità:fisionomia, inventario di penurie e
talenti; vocazione: “Un vuoto ricolmato di silenzio, nel quale il destino
precipiterà per legge fisica come l’energia nel vuoto pneumatico”[26].
Spoliazione, stasi, umiltà: spesso si delineano efficacemente solo innanzi
all’irreparabile. Ed è per attinenza che viene alle labbra Giuni Russo, icona
pop degli anni Ottanta, la cui nitida e irrevocabile verticalità si era
manifestata fisicamente, fin dagli albori, in un’estensione vocale di oltre
cinque ottave. Giuni indossò la propria maschera mediatica, come dovuto al
mondo, nell’inessenziale, nell’affettato ed estensivo che le era richiesto,
fintantoché non ebbe piena esperienza della cifra scoscesa della sua esistenza:
che prese forma intera, toccante, negli ultimi anni della sua vita. Dio la
raggiunse svelandole il nesso, il pertugio, donandole la sua metanoia,
conversione del cuore, che rese fulgido e serrato il suo cammino: intagliato nel
limite di un malanno del corpo con cui Dio se la portò vicinissima, e poi la
chiamò a sé.
Senza fanatismi, senza mistificanti delirî, perché sia chiaro che vivere sani e
lieti è un bene incomparabile, che nulla deve al patire o al morire; ma quello
stato metanico, così puro e spoglio, di via nitida, segnata, come afferma
Olivier Clément, “si precisa necessariamente in memoria della morte, nel senso
forte di una anamnesi. ‘Ricordiamoci a ogni istante, se possibile, della morte’
scrive Esichio di Batos, e commenta: ‘Questo ricordo ha per effetto l’esclusione
di ogni vana preoccupazione, la custodia dello spirito e la preghiera
costante’[27] […] La memoria della morte non riguarda la morte biologica in sé,
ma lo stato spirituale che la morte simboleggia e sigilla”[28].
Tutta l’ultima produzione artistica di Giuni Russo è di un misticismo
sottilissimo, lucente. In una sua canzone-poesia c’è un presagio del
limite-soglia così fulgido, e un senso del limite-carenza così limpido, da
regalare istanti di somma beatitudine, e la benedizione delle lacrime:
Io nulla
Primizia del mio tempo
Orlo del velo che copre la presenza
Dal vivo occhio mi penetra
Un raggio di pura luce
Fai cantare alla mia lingua
Melodie sconosciute
Dell’amore che buca l’opacità del mondo e crea
Io nulla, io nulla, io nulla, io nulla
Sciàmano pensieri di pura luce
La via dell’assoluto rischiara
Primizia del mio tempo alla presenza
Io nulla, io nulla, io nulla, io nulla, io nulla
Oso fiorir
Sciàmano pensieri di pura luce
La via dell’assoluto rischiara
Primizia del mio tempo
Alla tua presenza
Io nulla, io nulla, io nulla
Fai cantare alla mia lingua
Melodie sconosciute
Che nascono nel cuore
La notte se ne va
Primizia del mio tempo
Alla tua presenza
Io nulla, io nulla, io nulla
Davanti a te
Io nulla
Se l’ego ferito, l’ego rapace, l’ego senza limite e misura, in ogni sua follia
esaudito senza restrizione, è l’instancabile, inconscio servo del male; se è,
come appare, presupposto di ogni attrito e conflitto; ebbene, nella
personalissima sensibilità di chi scrive – a prescindere da qualsivoglia
dottrina o devozione, nella nuda umanità quotidiana, nell’intimità con sé
stessi, al cospetto del proprio Dio, di fronte alla sfida di amare profondamente
e interamente l’altro – Io nulla è l’unico canto, l’unica verità che, in
quest’epoca oscura, ci possa ancora salvare.
Isabella Bignozzi
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[1] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona,
prefazione di Jacques Rousse, Edizioni San Paolo 1990, pp. 222-223
[2] Pavel Aleksandrovič Florenskij, Iconostasi. Saggio sull’icona. Traduzione e
cura di Giuseppina Giuliano, Edizioni Medusa 2008, pp. 55-56
[3] ibidem, p. 52
[4] Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, a cura di Remo Faccani, Giulio Einaudi
editore 2009, p. 5
[5] ibidem, p. 169
[6] ibidem, p. 85
[7] Osip Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave. A cura di Serena Vitale,
Adelphi Edizioni 2017, p. 43
[8] Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, op. cit., p. 55
[9] Osip Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave, op. cit., p. 45
[10] Serena Vitale, Cuscini, codici, crisalidi. Saggio introduttivo a Osip
Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave, op. cit., p. 13-29
[11] Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, op. cit., p. 155
[12] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op.
cit., pp. 38-41
[13] S. Massimo, Ambiguorum Liber, PG 91, 1148C., rip. in Pavel Nikolaevič
Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op. cit., p. 41
[14] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op.
cit., p. 39
[15] ibidem, p. 231
[16] S. Massimo, Mystagogia 23, PG 91, 701C
[17] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op.
cit., p. 41
[18] Pasquale Ferraro, Canti della divina liturgia e settimana sante. Rito
bizantino. Testo greco a fronte, Milella 2012
[19] Simone Weil ed Edith Stein, Infelicità e sofferenza, prefazione di Gustave
Thibon, Edizioni Borla 2002
[20] Jean-Pierre da Caussade, L’abbandono alla provvidenza divina, traduzione di
Melisenda Calasso, Adelphi Edizioni 1989
[21] I° Ed. in “Paragone” XIV, n° 164, agosto 1963; ora in Cristina Campo, Gli
imperdonabili, a cura di Guido Ceronetti e Margherita Pieracci Harwell, Adelphi
Edizioni 1987, p. 45
[22] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 152
[23] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 114
[24] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 219
[25] Cristina Campo, La tigre assenza, a cura di Margherita Pieracci Harwell,
Adelphi 1991
[26] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 119
[27] A Théodule, CLV, Philokalia greca, éd. Astîr, t. I., p.165
[28] Olivier Clément, Jacques Serr, La preghiera del cuore, Àncora Editrice
1998, postfazione di Pavel Endokimov
L'articolo “Dell’amore che buca l’opacità del mondo” proviene da Pangea.
C’è un filo diafano, un’arcana gravitazione che stringe i mistici di ogni epoca
al seno del mistero. Karol Józef Wojtyła a 24 anni, sul bordo di una vocazione
nitida e cruciale, scriveva poesie. Liriche liminali, dal passo pacato ma
custodite nella gravità di un movimento basale, gregoriano: una monodia di
devozione incessante e inviolata.
Poiesis che è primordio, promessa, esercizio d’estasi. Rive piene di
silenzio come stati dell’essere, dove non è l’alta parabola, ma l’intimo affondo
l’atto del lambire. Spoliazione di ogni avvistamento, di ogni appetito
cromatico, di ogni intenzionale attesa. Non guardare, perché si è guardati: da
prima dei vagiti del tempo.
Sono sempre nel fiore della lentezza i movimenti del sacro, ripetono il rito: un
effluvio ardente diffonde dall’oltre, s’attenua nel suo passo custodendo il
varco; e preme di silenzio il punto profondo. Durare nella trasparenza, nello
stupore che addita l’eternità: pronunciare la cessione di sé, per quell’assise
di chiarore che è il chinarsi di Dio.
L’amore, sapienza che trasfigura, sa il vincolo dirotto tra ferita e grazia, la
rosa segreta della croce: verità che pertiene all’ombra, alle rifrazioni
dell’acqua, all’estremo volo che piega all’orizzonte. Cui è basilare far spazio,
deprivandosi di lemmi e cognizioni, dando il grembo a un “nulla crescente”, che
ha cara la luce.
Vertigine di “strana morte” in cui lo smisurato alberga in gloriose minuzie: un
cinguettio di fanciulli, il fieno odoroso; un pane di frumento, le foglie
cadute. È l’umiltà sacra delle cose primarie, ridestate in essenza dal soffio
perpetuo, le esistenze minime che recano l’esile offerta: lo stento e l’assillo
di ogni anonima incarnazione: “minuscola cella” in cui il sacro si corica, senza
clamore.
La poesia di Wojtyła è un piovasco di bagliori, fenomeni inversi, in cui
l’universo si eclissa per rivelare, nel suo svanire, le pure altezze
dell’Intelletto divino, mentre un canto oceanico s’alza dai corpi in elegia, che
anelano al “vortice di sole”, sostenendo in cuore “l’esilio di Dio”: suo velarsi
in suprema presenza.
Trema l’anima in uno schiudersi di rose quando l’interminato sospiro l’avvolge,
e accoglie nell’incanto della propria povertà il punto aureo di teofania,
l’oceano di luce del “grande Tacere”.
Nel Canto del sole inesauribile, il sovrano sguardo eleva e sfianca l’inezia
vivente: e nel declinare della vita è fatto saldo il patto con il grande astro
di luce, che trattiene a sé ogni fiato in chiarità definitiva. Il dolore porge
sé stesso in tenera nostalgia, nello struggente ricordo del Volto fa eucaristia
minore che “si arrossa di sangue/ come trafitta da spine”. Sete sacra, che
lascia vorticare accanto un cosmo adolescente di gravami e fulgori; fissandone
il cuore segreto, l’oscura stilla, aghiforme totalità e pienezza immobile.
Sorgente del gesto di genesi, in cui già dimora la discesa alla passione, al
pane, al grano: l’infinità si curva nell’umile riserbo, nel mite ricovero: il
grembo di Maria, “la mangiatoia”, “il fieno”. La grazia diserta il computo e si
china verso irrisorie, lucenti umiltà. Quando posa nel cuore umano, mondi nuovi
germinano nella reciprocità di sguardo: è l’armonia del trinitario mistero,
laddove il Padre ama nel Figlio e attraverso lo Spirito si dona.
Il poeta fa una teologia del nascondimento epifanico, dell’apparizione criptata,
in cui l’Eucaristia è memoriale e atto creativo corrente, vivo: la puntuale,
assidua rigenerazione cosmica e personale, rubino taciturno d’intimo albore,
fuoco risorto nell’intenzione di Dio, è dove l’uomo si riconosce come brama
velata: ché anche l’Eterno emana per carenza d’amore, e crea ogni forma dal
palmo, chiamandola per nome.
Esiste una via cristica che accomuna il celeste alla creatura: il risalire
l’erta della croce, il cui vertice d’intuito e senso di sacra presenza non è
sangue versato, ma vegliato vuoto, spalancato di preghiera nella carne: anche in
Gesù, sull’albero atroce, fu la consegna, non la ferita, a generare il nome del
Padre sulle labbra.
Nelle acque del cuore, fatte torbide dall’umana miseria, il chiarore del posarsi
profondo di Dio crea il “Punto Candido” di visione, io eucaristico d’incantevole
convegno che risale con soavità l’invisibile nodale: altare insostenibile dove
il sensibile si spezza e l’occhio vero non osa. La tracotante fragilità di
arroccarsi, talora, nel pensiero, e non essere fiamma di totale ardore, è
redenta, al cospetto delle fluide e radiose – il sole, il mare – epiclèsi del
creato: che generano confidenza, meraviglia, senso di tutela. Dove l’umano,
nonostante le sue ambiguità e imposture, trova riparo in incommensurabili
fedeltà; è questo il vibrato mistico: che porterà alla partitura interiore di
lode, alla consonanza di adesione perfetta.
Lucente e scoscesa, profondamente cristocentrica la teologia contemplativa
distesa nel canto di Karol Wojtyła snuda l’apòfasi come via diletta
dell’esperienza mistica. Tanto nella visionarietà quanto nell’edificio
spirituale, nel sentire che oltrepassa l’intelletto, nell’ascesi inversa alle
lucòree voragini interiori, nelle antitesi metafisiche tra oscurità e bagliori,
nella preghiera silente, terminale della pura adorazione, nell’anima come alveo
del riconoscimento, riecheggiano le atmosfere di Sant’Agostino, Isacco di
Ninive, Meister Eckhart, Giovanni della Croce, Angelo Silesio.
Toni umilissimi, ma a vertiginose altezze, laddove l’Amore è l’evento teofanico
per eccellenza, ciò che “spiega ogni cosa”. Il Pellegrino cherubico di Silesio
risuona in quell’anelito alla semplicità radicale in cui Dio è presente solo “là
dove nulla più rimane”. Una poesia che fa lectio divina per puro nitore, e prega
con un affetto teologico struggente.
Una costante tensione tra immanenza e trascendenza trova ristoro nel gesto
soprannaturale dell’abbassamento: l’umiltà di Dio che si riduce nell’uomo. Pure,
l’incarnazione del Verbo ritorna ossessivamente in immagini di discesa e
decremento sempre nuove: Dio si fa croce, si fa occhi, si fa abisso, si fa
perfino nostalgia, e sosta nelle briciole di materia, grano e pane: luoghi
ontologici, nei quali l’Essere si mostra nella diatonia tra finitezza e
pienezza.
Il poeta guada ampi corsi d’intensità mistica, semplicità lirica e tensione
all’invisibile; in particolare, nel Canto del sole inesauribile questa
traiettoria si arricchisce di un’ulteriore stratificazione cosmica, laddove il
sole non è più solo simbolo di Dio, ma interlocutore metafisico dell’anima, che
“non è una foglia”, non conosce la nuda impermanenza, ma contiene in sé una
partecipazione eterna al movimento del creato. Il cosmo si traduce in figura
sacramentale: “il frammento di pane più reale dell’universo/ più colmo d’Essere,
colmo del Verbo”: la parola si sostanzia nella cosa. Il pane eucaristico è
metonimia potente dell’Essere.
Nel lessico essenziale, vicino alla sorgente biblica e patristica, la poesia di
Karol si compie canto dell’umiltà ontologica. Scritture sapienziali in essenza,
mai nei toni, frammenti di un’apocalisse centrale, in cui l’uomo e Dio si
cercano nei luoghi più reconditi della coscienza, e nelle trasparenze del
silenzio che dilata lentissimo, di fronte allo svelarsi di un’eccedenza. Tale
tensione all’inesprimibile genera una poesia prossima al sublime romantico –
Novalis, Hölderlin – ma qui rifratta attraverso una spiritualità profondamente
cristocentrica e pascaliana: “più aguzzo lo sguardo, meno riesco a vedere”.
Similmente a quello che accadeva in Cristina Campo, la funzione del linguaggio
nel poeta è performativa, ma anche liturgica: la figura campiana è vaso d’oro in
cui, per astinenza e accumulo, precipita l’ignoto liquore dell’idea; e così
l’atto del nominare nel poeta Wojtyła – “Ah, accogli, Signore, l’ammirazione che
mi zampilla dal cuore” – è invocazione, rito che plasma lo spazio interiore e lo
dispone all’incontro con il mistero.
Il linguaggio non descrive Dio, ma rasenta quel “fiore inaccessibile” che è
icona teandrica d’intimità senza tempo, luce nuziale, mutua fiamma. Il poeta
cerca trasparenza, per essere pura rifrazione delle solenni vastità
evocate. Teologo del lemma incarnato, viandante del muto brillare, esegeta di
sobrietà: ecco Karol Wojtyła giovanissimo poeta. Il resto pertiene alla storia:
l’agire nel mondo di un uomo intero, abitato dallo Spirito.
Isabella Bignozzi
**
da: Il canto del Dio nascosto[1]
Lontane rive di silenzio cominciano appena di là dalla soglia.
Non le sorvolerai come un uccello.
Devi fermarti a guardare sempre più in profondità
finché non riuscirai a distogliere l’anima dal fondo.
Là nessun verde sazierà la vista,
e gli occhi prigionieri non si libereranno.
Credevi che la vita ti nascondesse a quella Vita
chinata sugli abissi.
Ma da questa corrente – sappi – non c’è ritorno.
Avvolto dalla misteriosa bellezza dell’eternità!
Durare e durare. Non interrompere la fuga
delle ombre, durare solamente
in modo sempre più chiaro e più semplice.
Intanto sempre indietreggi davanti a Qualcuno che viene di là
chiudendo piano dietro a sé la porta della piccola stanza
e venendo smorza il passo
– e col silenzio colpisce quello che è più profondo.
*
Ecco l’amico. Sempre ritorni con la mente
a quel mattino invernale.
da tanti anni ormai credevi, sapevi certamente
ma lo stupore non ti può lasciare.
Chino sopra la lampada, nel fascio di luce unita in alto,
senza alzare il viso perché sarebbe inutile –
ormai non sai se è là, là visto di lontano,
oppure qui, nel profondo degli occhi chiusi –
È là. Mentre qui non c’è soltanto tremore,
soltanto le parole del nulla ritrovate –
ah, ti rimane ancora un briciolo di questo stupore
che sarà tutto il contenuto dell’eternità.
*
Non così si presenta la forza vitale della luce.
Quando il mare rapidamente ti nasconde
e ti scioglie in abissi silenziosi
– la luce strappa bagliori verticali alle onde languide
e il mare piano finisce, affluisce un chiarore.
E allora, in ogni direzione, negli specchi lontani e vicini,
vedi la tua ombra.
Come ti nasconderai in questa Luce?
Sei troppo poco trasparente
e il chiarore alita dappertutto.
In quell’istante – guarda dentro di te. Ecco l’Amico
che è solo una scintilla, eppure è tutt’intera la Luce.
Accogliendo dentro di te quella scintilla
non scorgi altro,
e non senti di quale Amore sei avvolto.
*
Il Signore, quando attecchisce nell’intimo è come un fiore
assetato di caldo sole.
Vieni, dunque, o luce, dalle profondità dell’inesplicabile giorno.
e pósati sulla mia riva.
Ardi, non troppo vicino al cielo
e non troppo lontano.
Ricordati, cuore, di quello sguardo
in cui ti attende tutta l’eternità.
Chìnati, cuore, chìnati, sulla riva,
annebbiata nella profondità degli occhi,
sul fiore inaccessibile,
su una delle rose.
*
Io stacco piano la luce dalle parole
e raduno i pensieri come un gregge di ombre
e lentamente in tutto immetto il nulla
che attende l’alba della creazione.
Lo faccio per creare uno spazio
alle Tue mani tese
lo faccio per avvicinare
l’eternità in cui Tu possa alitare…
Inappagato dall’unico giorno della creazione
io bramo un nulla crescente,
perché il mio cuore sia disposto al soffio
del Tuo Amore.
*
V’era Dio, in cuore, v’era l’universo,
ma l’universo si oscurava
e diveniva, piano, canto del Suo intelletto,
diveniva la stella più bassa.
O maestri dell’Ellade, vi narro un grande miracolo:
non importa vegliare sull’Essere che scorre via tra le dita,
c’è la Bellezza reale,
celata sotto il Sangue vivo.
Il frammento di pane più reale dell’universo
più colmo d’Essere, colmo del Verbo
– il canto che sommerge come un mare
– il vortice di sole
– l’esilio di Dio.
*
Il Tuo sguardo fisso sull’anima, come il sole verso la foglia s’inclina,
ne arricchisce il fiorire con la profonda, trasparente bontà,
l’accoglie nel suo raggio
– ma Tu, Maestro, guarda:
che accadrà della foglia e del sole? – la sera si avvicina.
*
L’anima non è una foglia.
E su di sé può trattenere il sole
e insieme a lui discendere
in un arco inscindibile, al tramonto.
E laggiù lo raggiunge e rimane,
partecipando al solare declino,
e quando ancora procede il cammino,
in una lunga ombra a lui si salda –
Non spezza l’orizzonte,
nell’ansia di giorni lontani,
– ma solo sta alla porta e bussa.
Ed ecco, ha giù raggiunto tutto:
ecco, ogni giorno le riporta il sole
nel cerchio visibile.
*
È in me l’acqua profonda trasparente,
ai miei occhi velata di nebbia –
quando, come un torrente, io corro troppo in fretta,
non sono degno che quel fondo così abissale.
Là, ogni giorno, il mio Signore viene e resta –
scia di sangue quando s’immerge nella neve –
– e vi è reciproco riconoscimento
e alita una reciproca abbondanza.
Se, allora, qualcuno sapesse togliere
dalle profondità trasparenti la nebbia,
si vedrebbe – in quale miseria,
si vedrebbe – in chi –
e si vedrebbe – quale chiarore
inonda la profondità oscurata,
si vedrebbe – nel cuore umano,
nel più semplice dei soli.
*
O Signore, perdona al mio pensiero che non Ti ama ancora abbastanza,
perdona al mio amore, Signore, ch’è sì terribilmente incatenato al pensiero
che Ti sperde in pensieri freddi come la corrente
e non avvolge in brucianti falò.
Ah, accogli, Signore, l’ammirazione che mi zampilla dal cuore
come zampilla un ruscello dalla fonte –
– il segno che di lì verrà la vampa –
e non respingere, Signore, neanche la tiepida ammirazione
che un giorno colmerai con una pietra ardente sulle labbra –
Non respingere, Signore, la mia ammirazione
che per Te è un nulla, perché Tu Intero sei in Te Stesso,
ma per me, ora, è tutto,
un torrente che rapisce le sue rive
prima di dire la sua nostalgia per gli oceani smisurati.
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[1] in: L’opera poetica completa di Karol Wojtyla, a cura di Santino Spartà,
Libreria Editrice Vaticana 2012
L'articolo “Nel profondo degli occhi chiusi”. Karol Wojtyła, poeta proviene da
Pangea.
> Sensi di fanciullo ti chiedo,
> di farmi interiore e mite,
> e taciturno nella tua pace.
> E di possedere un cuore chiaro[1].
>
> David Maria Turoldo sul Salmo 131
Salmo 131
Un canto delle salite. Di Davide
Oh Eterno,
non si erige all’orgoglio il mio cuore
né alla superbia s’inerpica il mio sguardo
non bramo grandi faccende
né meraviglie al di sopra di me
ho ammansito e reso dolce la mia anima
come bimbo divezzato in grembo alla madre
come bimbo slattato è in me l’anima mia
pòsati e confida nel Signore, Israele
da ora e per sempre
*
Canto delle “salite”, cantico d’ascensione, salmo graduale, che percorre gradi,
misure o ranghi d’altezza, noveri di espugnata prossimità al luogo Santo (dal
120 al 134): intonati nella fatica del salire, sino a Gerusalemme, dove si era
pellegrini, devoti in visita, latori di doni. Deuteronomio 16, 16:
> Tre volte all’anno ogni tuo maschio si presenterà davanti al Signore tuo Dio,
> nel luogo che Egli avrà scelto: nella festa degli azzimi, nella festa delle
> Settimane e nella festa delle Capanne. Nessuno si presenterà davanti al
> Signore a mani vuote[2]
oppure intonati dai cantori leviti, ministri del culto, mentre salivano i
quindici dislivelli per servire al Tempio. Ascensione onorata col moto delle
membra, divario terrestre, da colmare col fisico proprio impegno.
“Oh eterno” dice il salmista, si rivolge al Signore col tetragramma biblico
“יהוה”(YHWH), il nome sacro con cui Dio si svela a Mosè, facendone il suo messo.
Esodo 3, 14:
> «Io sono colui che sono!» E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: Io-Sono mi
> ha mandato a voi»2
Perché questo Io sono, che è natura trascendente ed eterna, è anche nesso
d’amore, stabilita alleanza con il suo popolo; e il salmista è piccolo fiore di
un unico stelo, è voce di cuore che crede, la cui ugola canta perché è cantata:
in ciascuno che divarichi il petto dimora il tempio di Dio, e ogni respiro
rivolto al cielo è particella accesa del corpo di Cristo.
“Non si erige all’orgoglio il mio cuore”, così recita il canto, non
s’insuperbisce (dalla parola “fiero”, in ebraico “גָּבַה”gavah, riferisce ciò
che vuol esser alto, esaltato): e inverte l’immagine del salire, concessa al
corpo, al cuore negata. Perché la fatica è un salire che monda e benedice, non
così la superbia cui s’inerpica lo sguardo in chi perde la via: cercando
gl’idoli sulle alture, riponendo il senso del vivere nei mondani traguardi, la
fiducia nei propri vigori e talenti. Non questa la scalata, l’ascensione, bensì,
a contrappunto, salire l’erta della fatica, abbassando il cuore all’umiltà,
ignorando le lusinghe del mondo. Giacomo 4, 4-6:
> Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio?
> […] Fino alla gelosia ci ama lo Spirito, che egli ha fatto abitare in noi
> […] Dio resiste ai superbi,
> agli umili invece dà la sua grazia2
Occhi inerpicati a superbia, “רָמוּ” (ramu), esaltati, ma anche intricati,
complicati: ché gli occhi sono visuale, scorcio, ma altresì atteggiamento: lo
sguardo che si leva in alto, e dall’alto scruta, è presagio d’arroganza, seme di
malizia. Il salmista scansa questo repentaglio, cerca l’umiltà nel sentire, nel
vedere e nel desiderare. Cuore, occhi, brama sono ammansiti nella pace. E cara a
Dio sopra ogni cosa è l’umiltà.
> In un luogo eccelso e santo io dimoro,
> ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati,
> per ravvivare lo spirito degli umili
> per rianimare il cuore degli oppressi2
>
> Isaia 57, 15
> Su chi volgerò lo sguardo?
> sull’umile e su chi ha lo spirito contrito
> e su chi trema alla mia parola2
>
> Isaia 66, 2
> Vidi tutte le reti del Maligno
> distese sulla terra e dissi gemendo:
> – Chi mai potrà scamparne?
> E udii una voce che mi disse: l’umiltà
>
> La Pace è a prezzo della moderazione
> dei desideri, il nostro desiderare continuo
> ci riempie di agitazione[3]
>
> Antonio Abate, dai Padri del deserto
Questa brama ama celarsi in inquietudini che, nel sentire comune, sono virtù.
Aspirare a grandi cose, nella realizzazione personale, persino nel cammino di
perfezione spirituale, pare idea buona, encomiabile, ma nasconde l’insidia
dell’orgoglio: miraggio d’autonomia, idolatria rivolta a sé stessi, al proprio
presunto merito.
È dall’operazione contraria, salire nella fatica, discendere nella contrizione
della propria mancanza, che nasce l’intimo contatto con Dio. San Paolo, 2
Corinzi 12, 7-10:
> 7 [e per la straordinaria grandezza delle rivelazioni] Per questo, affinché io
> non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di
> Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia.
> 8 A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore perché l’allontanasse
> da me.
> 9 Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta
> pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie
> debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo2
Accogliere la propria insufficienza è la grazia più grande, piena di dolcezza.
In chi tutto realmente regge e conduce, teneramente abbandonarsi. Teresina di
Lisieux:
> Dell’albero dell’amore, il frutto gustoso si chiama abbandono[4]
>
> Poesie, p. 746
> Il buon Dio vuole che io mi abbandoni come un bambino piccolo piccolo
> che non si preoccupa di ciò che si farà di lui4
>
> Novissima verba, p. 1016
L’alterigia è una tentazione subdola, che può coinvolgere anche chi è fortemente
dedito a vita spirituale, e pratica ascetici atletismi, compiacendosi di sé
stesso, non riconoscendo il dono ricevuto: è la grazia del Signore che viene a
illuminare ogni umana pochezza. Dai Padri:
> Compito del monaco è veder giungere fin da lontano i propri pensieri3
>
> M., 64
Anche la devozione al Signore è un suo dono, che deriva dal nostro saper
lasciare presunzioni e aspettative per abbandonarci nelle sue mani. Gratitudine,
affidamento, amore fanno funzione vicaria a integrità e pregi morali
irraggiungibili. Dai Padri:
> La riconoscenza perora al cospetto di Dio a favore dell’impotenza3
>
> N., 637
> Un anziano diceva: «Sii come un cammello: porta il carico dei tuoi peccati e,
> attaccato alla briglia, segui i passi di colui che conosce le vie di Dio»3
>
> N., 399 (P.E., I, 19, 17)*
> Ora non temo più Dio; lo amo: perché l’amore scaccia il timore3
>
> Abate Antonio, 32
Così il Salmista, pago della sua devozione, spogliatosi di timori e ambizioni si
abbandona alla nudità imbelle e inespugnabile della limpida fiducia. “Non bramo
grandi faccende”, non aspiro a grandi cose a farsi, a prestigiose mansioni: la
parola ebraica per “aspirare” è “הָלַךְ” (halak), che significa camminare,
andare in una direzione: cioè il movimento verso, teso a perseguire qualcosa.
“Grandi cose [a farsi], grandi faccende” si traduce da “גָּדוֹל” (gadol), che
significa grande o importante. L’orante è appagato dalla sua condizione, rifugge
ambizioni più ampie o complesse, foriere di orgoglio e smarrimento. Teresina di
Lisieux:
> Gesù non chiede azioni grandi, ma soltanto l’abbandono e la riconoscenza4
>
> Lettere, 196
Ha fiducia candida, sincera nel progetto di Dio, vero destino di ogni creatura,
che viene prima degli uffici mondani. Matteo 6, 33:
> Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia,
> e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta2
Nei Padri:
> Un anziano disse: non feci mai un passo senza sapere dove posassi il piede.
> Mi fermavo a riflettere, senza cedere,
> sino a che Dio non mi prendesse per mano3
>
> N. 485, Paolo Evergetinos III, 31, 11
“Né [bramo] meraviglie al di sopra di me” dall’ebraico “פָּלָא” (pala), che
significa meraviglioso o straordinario. Il salmista non vuole ambire a ruoli o
imprese che escano dal comune e dall’ordinario, e che siano oltre la sua portata
di creatura semplice, perché confida nell’onniscienza e nell’onnipotenza di Dio:
nelle sue vie, ben più alte, tracciate per lui. Isaia 55, 8-9:
> 8 Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri,
> le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore.
> 9 Quanto il cielo sovrasta la terra,
> tanto le mie vie sovrastano le vostre vie,
> i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri2
L’orante desidera dunque riposare in queste altezze, nella saggezza e sovranità
del Padre, sgravando il suo cuore da insidiose ambizioni personali, che evadano
il suo controllo.
“Ho ammansito” (lett. שִׁוִּ֨יתִי = “ho placato”, aggiustato alla calma) e “reso
dolce” (lett. וְדוֹמַ֗מְתִּי = reso silenziosa) “la mia anima”: atto deliberato
di riportare l’interiorità all’equilibrio, fino a una inerme quiete. Teresina di
Lisieux:
> Occorrerebbe una lingua diversa da quella della terra
> per esprimere la bellezza dell’abbandono di un’anima
> tra le mani di Gesù4
Il salmista rende la propria anima “dolce” nel senso di docile, temperata,
posata in un silenzio senza pretese. Trova così la pace interiore, sentendo la
presenza di Dio, mediante la disciplina su sé stesso e la fiduciosa resa alla
potenza del Padre. L’umiltà, nella relazione con Dio e le altre creature, è un
campo dai mille frutti. Perenne luogo di arrivo e partenza, itinerario
oscillante tra esito ed esordio, mai stabilmente appreso. Dai Padri:
> La terra sulla quale il Signore ha comandato di lavorare è l’umiltà3
>
> N., 656
> Se tu ti accorgessi che sei inferiore a tutte le creature.
> Questo pensiero unito al lavoro corporale:
> ecco ciò che corregge e conduce all’umiltà3
>
> Sisoe, 13
> Un anziano che abitava in Egitto diceva sempre: «non c’è strada più breve che
> quella dell’umiltà»3
>
> P.E., III, 38, 44
Accidentata via, eppure breve, verso la beatitudine: intima relazione col
Creatore, ferma limpidezza del cuore; e gioia pura, che è adesione perfetta a
ciò che è. Per questo, uno dei segni più chiari di santità e di umiltà, una
delle sue inevitabili conseguenze, è la gioia. Simone Weil:
> La gioia non è altro che il senso della realtà
> […] essa non sogna, non desidera ciò che non esiste; accetta ciò che è[5]
>
> (Cahier I, 18; 70)
> La contemplazione perfettamente pura della miseria umana ci strappa al
> cielo[6]
>
> (Cahier II, 157)
> La gioia è la coscienza di ciò che non è io6
>
> (Cahier II, 193)
L’altro da sé esiste, ed è necessario ridursi, e flettere agli ingranaggi del
reale: quegl’insondabili meccanicismi che sono proiezione oblunga, nel visibile,
dell’arabesco di perfezione divina che, essendo ulteriore alla materia, è
inesperibile. Simone Weil:
> La necessità è una musica, la vibrazione del silenzio di Dio[7]
>
> (Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, 129)
Nel duro apparato della necessità, la sofferenza ha un ruolo preciso:
> Il carattere irriducibile della sofferenza […] ha come scopo di arrestare la
> volontà […] affinché, arrivato alla fine delle capacità umane, l’uomo tenda le
> braccia, si arresti, guardi e attenda[8]
>
> (Cahier III, 29)
Questo stabilisce un nesso ideale col Salmo precedente, il De profundis, in cui
si mette in evidenza tutta l’insufficienza e incompiutezza dell’umano, che geme
dal buio del suo peccato, impetrando perdono: quella pietosa grazia che si
riceve mediante contrizione, quado l’umiltà, afflitta dall’errore commesso,
mestamente duole, e lacrima:
> Se consideri le colpe, Signore,
> Signore, chi ti può resistere?2
>
> (Sal 130)
Afflizione che è un rammarico non ostentato o auto denigratorio, ma
weiliano senso della realtà: riguardo la propria carenza. Compunto, l’orante
volge al cielo, confida nel dono:
> L’anima mia è rivolta al Signore
> più che le sentinelle all’aurora2
>
> (Sal 130)
Dai Padri:
> Qual è la preghiera pura? […] quella che è breve in parole e grande in opere.
> […]
> Diverso è, del resto, il mondo dei penitenti, diverso il mondo degli umili;
> i penitenti sono mercenari, gli umili, figli3
La pazienza, la fiducia, la gioia sono l’umiltà più profonda che innamora Dio:
> Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente,
> in ogni cosa rendete grazie:
> questa infatti è volontà di Dio2
>
> (Prima lettera ai Tessalonicesi 5,16)
Riferendosi al noto tratto del Vangelo di Matteo (Matteo 6, 25-34), in cui il
giglio nel campo e l’uccello nel cielo incarnano il totale affidarsi a Dio,
senza affanni né premure, delle creature semplici, Søren Kierkegaard dice:
> là dove il giglio e l’uccello insegnano la gioia, c’è gioia sempre […] la
> gioia del silenzio e dell’obbedienza. Perché quando tu taci nel silenzio
> solenne, quale è in natura, non esiste il domani; e quando tu obbedisci come
> obbedisce il creato, non c’è il domani, quel giorno maledetto, l’invenzione
> della chiacchiera e della disobbedienza. Ma se dunque grazie al silenzio e
> all’obbedienza non esiste il domani, allora nel silenzio e nell’obbedienza è
> l’oggi che è, e che dunque è la gioia, quale è nel giglio e nell’uccello[9]
L’umiltà, che è fiducia e serena perseveranza, assenso profondo al reale in
totale presenza, dilata l’istante all’eterno. Stancare Dio di pazienza. Stupire
Dio di speranza. Simone Weil:
> Una pazienza capace di stancare Dio procede da un’umiltà infinita[10]
>
> (La connaissance surnaturelle, 47)
Così Teresina:
> Si stancherà più presto lui di farmi aspettare, che io di aspettarlo4
>
> (Lettere, 103)
Attesa paziente, fiduciosa, senza smanie o assilli, senza egotici delirî o avare
tristezze.
Dai Padri:
> Un anziano disse: Se sei orgoglioso, sei il diavolo. Se sei triste, sei suo
> figlio. E se ti preoccupi di mille cose, sei il suo servitore senza riposo3
Santità nel Signore è affidamento completo e piena gioia.
Infatti “come bimbo divezzato” (כְּ֭גָמֻל) “su sua madre”, “in sua madre”
(עָלַ֣י אִמּ֑וֹ), cioè in braccio alla madre, tradotto: “in grembo alla madre”,
è l’anima del Salmista: non più in uno stato di dipendenza e desiderio
materiale, ma nella letizia di una diversa maturità, piena di gratificazione. Un
bambino svezzato non piange più per il latte ma riposa beatamente; pargolo
quieto, fasciato dalle braccia della mamma: pur avvinto al suo seno, ne gode il
senso di protezione, senza null’altro desiderare. È bello notare che l’immagine
di Dio come Madre, non solo come Padre, sia ricorrente nella Bibbia[11]
> Come una madre consola un figlio
> così io vi consolerò
>
> Isaia 63,13
“Come bimbo divezzato” (כַּגָּמֻ֖ל), dice dunque l’orante, e reitera
l’espressione all’ultimo verso, dove si è resa con una formula più nitida e
compatta: “come bimbo slattato” (כְּ֭גָמֻל): l’idea di affrancamento dalla
condizione precedente è reso mediante s privativo, che sottolinea una cesura dal
pregresso, che è cessazione e riscatto. Troncamento che germina nel nuovo corso
di esistenza, compiuta in Dio: laddove dei carismi che abbiamo ricevuto, fatti
fruttificare nel mondo, viene reso grazie al Padre, con devota umiltà:
> Prendi, Signore, e ricevi tutta la mia libertà,
> la mia memoria, la mia intelligenza
> e tutta la mia volontà,
> tutto ciò che ho e possiedo;
> tu me lo hai dato, a te, Signore, lo ridóno;
> tutto è tuo, di tutto disponi secondo la tua volontà:
> dammi solo il tuo amore e la tua grazia;
> questo mi basta
>
> Sant’Ignazio di Loyola
Il Signore riceve, il Signore dà. Chi in Dio crede e armoniosamente si posa è
come un bimbo svezzato in grembo alla madre, che non pretende nutrimento, ma
gode l’affetto, gli sguardi, le tenerezze. Su sua madre, in sua madre, in
braccio alla madre.[12]
Il rapporto intimo e personalissimo non preclude, anzi prescrive, l’estensione
del desiderio di grazia a tutti gli altri membri dell’alleanza, particelle del
corpo mistico di Cristo. Dunque l’ultimo verso del Salmo si rivolge direttamente
a Israele (יִשְׂרָאֵל), inteso come “popolo” che desidera appartenere all’Eterno
e in lui dimorare: “pòsati e confida nel Signore, Israele da ora e per sempre”.
La moltitudine che sceglie di seguire Dio è identità collettiva in cammino,
conscia del passaggio attraverso la cruna d’ago della necessità,
dell’impermanenza, del dolore insito nella materia; una pluralità che si
percepisce unità, e volge il viso al solo che amorevolmente guarda, consola,
guarisce: restituendo l’uomo alla sua primigenia, naturale fraternità. Simone
Weil:
> Dio ci viene a prendere attraverso i veli dello spazio e del tempo, sulla
> Croce. È l’irruzione dell’infinito nel finito8
>
> (Cahier III, 45)
> la Croce è una bilancia in cui un corpo fragile e leggero, ma che era Dio, ha
> sollevato il peso del mondo intero8
>
> (Cahier III, 50)
> Non c’è che una croce, ed è la totalità della necessità che riempie l’infinità
> del tempo e dello spazio, e che può, in alcune circostanze, concentrarsi
> sull’atomo che è ciascuno di noi e polverizzarlo completamente7
>
> (Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, 110)
Da qui il discernimento di un comune destino, da cui nasce la compassione. Edith
Stein:
> Benedici lo spirito affranto
> dei sofferenti,
> la pesante solitudine degli uomini,
> l’essere che non conosce il riposo,
> la sofferenza che non si affida mai a nessuno.
> È a colui che sul Monte degli Ulivi
> lottò, sudando sangue e acqua,
> con Dio, con ardenti suppliche,
> che spetta la vittoria,
> è su questo monte che si decise
> la sorte del mondo.
> Qui, cadete a terra
> e pregate
> senza più domandare:
> Chi? Come? Dove? Quando?[13]
Dorata coralità, fulgida reciprocità, che è essere raggiunti da Dio sulla Terra,
e in lui tornare e dimorare:
> Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore,
> mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio;
> mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo2
>
> (Sal 18)
Biunivoca accoglienza, ancipite corrispondenza d’amore. Teresina:
> Lui, il Re dei re, si è talmente umiliato che il suo viso era nascosto e
> nessuno lo riconosceva […] E anch’io voglio nascondere il mio viso […] che sia
> solo lui a contare le mie lacrime; che almeno nel mio cuore possa riposare il
> suo amatissimo capo ed egli possa sentire che lì è conosciuto e compreso.4
>
> (Lettere, 137)
Simone Weil solleva in culmine, e osa sussurrare:
> Non sono io a dover amare Dio. Che Dio si ami attraverso me6
>
> (Cahier II, 274)
Teresina così risponde:
> è in lui che noi ci amiamo teneramente […]
> piuttosto che l’unione, è l’unità che esiste fra le nostre anime4
>
> (Lettere, 132)
Protendersi con l’umiltà della propria inadeguatezza, nell’attesa che si
divarica alla grazia. Affidarsi, affidare, con devozione ferma, cocciuta fede.
Come il padre di famiglia che affida i figli alla Vergine, in Charles Peguy:
> E se ne è andato con le braccia penzoloni.
> Se n’è andato colle braccia vuote.
> Lui che li aveva affidati.
> Come un uomo che portava un paniere.
> E che non ne poteva più e aveva male alle spalle[14]
Similmente, il gesto del posare sé stessi in Dio, nella parte finale del canto:
“posati e confida nel Signore, da ora e per sempre”. L’esortazione al popolo
dell’alleanza, Israele (יַחֵ֣ל), sarebbe letteralmente: “Israele, metti speranza
(יָחַל), attendi, sii paziente: riponi fiducia in YHWH da questo momento e fino
all’eternità”. L’orante conosce quest’attesa feconda e fattiva, piena di fiducia
e nell’intervento di Dio. “Riponi te stesso e la tua speranza”, “confida”: un
invito a fare affidamento sulle promesse di Dio e sul Suo progetto, anche quando
le circostanze sembrano incerte o difficili, cioè fin da ora (מֵֽ֝עַתָּ֗ה = fin
da questo momento, seppure nebuloso o precario) e “per sempre”. Charles Peguy lo
sente il rotondo stupore di Dio, quando incontra la fiamma irriducibile che arde
nell’umano cuore, pur avendola lui medesimo creata:
> Quello che mi stupisce, dice Dio, è la speranza.
> E non me ne capacito.
> Quella piccola speranza che non sembra niente.
> Quella piccola bambina speranza14
Il Salmo chiude con incantevole fermezza, nella chiamata all’essenza: prolungare
la speranza fino all’eternità (וְעַד־עוֹלָֽם׃). La parola ebraica “עוֹלָם”
(olam), che può significare “per sempre”, “eternità” o “una lunga durata”,
evidenzia la natura senza fine delle promesse di Dio: la relazione perpetua di
fedeltà e fiducia tra il Padre e ogni singola sua creatura che al cielo volga lo
sguardo. La piccola bambina Speranza, l’intera consegna di sé, che sa far quieto
il cuore:
> È lei, quella piccola che tira tutte.
> Perché la Fede non vede che ciò che è.
> E lei vede ciò che sarà.
> La Carità non ama che ciò che è.
> E lei ama ciò che sarà.
> La Fede vede ciò che è.
> Nel Tempo e nell’Eternità.
> La Speranza vede ciò che sarà.
> Nel tempo e nell’eternità.14
Isabella Bignozzi
Isabella Bignozzi ha tradotto il Salmo 131 per il “Salterio dei Poeti”,
progetto-libro curato da Roberta Rocelli e da Davide Brullo per Festival Biblico
2025
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[1] In: I Salmi, Traduzione di David Maria Turoldo, Commento di Gianfranco
Ravasi, Oscar Classici Mondadori 1994
[2] La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2009
[3] Detti e fatti dei padri del deserto, a cura di Cristina Campo e Piero
Draghi, Rusconi Libri, 1994
[4] Thérèse de Lisieux, Oeuvres complètes, Cerf DDB, Paris 1992
[5] Simone Weil, Quaderni. Volume primo. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1982
[6] Simone Weil, Quaderni. Volume secondo. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi
1985
[7] Simone Weil, Pensieri disordinati sull’amore di Dio, La Locusta 1991
[8] Simone Weil, Quaderni. Volume terzo. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1974
[9] Søren Kierkegaard, Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo.
Discorsi (1849-1851). A cura di Ettore Rocca, Donzelli 2011
[10] Simone Weil, La connaissance surnaturelle, Gallimard 1950, ora Taccuino di
Londra, in Simone Weil, Quaderni. Volume quarto. A cura di Giancarlo Gaeta,
Adelphi 1993
[11]Per esempio: Isaia 49,15: «Si dimentica forse una donna del suo bambino,
così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne
si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai»; Osea 11, 3-4: «Io li
traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva
un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare»; Salmo
71, 6: «Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre tu
sei il mio sostegno». Così, il termine ebraico rahamim, (רַחֲמִים), che nella
Bibbia si riferisce spesso alla compassione, misericordia o tenerezza di Dio
verso l’uomo, deriva dalla radice ר-ח-ם (r-ḥ-m), che è collegata al termine
“reḥem” (רֶחֶם), cioè “grembo materno”. A suggerire che l’amore divino per le
sue creature è viscerale, intimo, incondizionato — come quello di una madre per
il figlio che porta in grembo. Il biblista Gianfranco Ravasi ha osservato che
esistono almeno 60 aggettivi di Dio al femminile nella Bibbia, e più di 260
riferimenti alle «viscere materne» del Signore.
[12] עָלַ֣י “su”, “in”, preposizione anch’essa iterata, quando è in relazione
alla locuzione “sua madre” assume il significato di “in braccio a sua madre”,
mentre quando si riferisce al pronome “me” (עֲלֵ֣י) indica “in me”, “dentro di
me” . A tal proposito si nota come la vocalizzazione, resa in ebraico mediante
segni diacritici, diversifichi lievemente toni e sensi anche di espressioni
anaforizzate.
[13] Waltraud Herbstrith, Poèmes et prières dans les oeuvres posthumes,
Francoforte 1975
[14] Charles Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù. Traduzione di
Giuliano Vigini. Medusa Edizioni 2014
*In copertina: Leon Dabo, Studio di mano, 1890 ca.
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