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“Mio padre lo sparviero”. Le poesie leggendarie di Johannes Bobrowski
Nel 1994 la New Directions, la mitica casa editrice fondata da James Laughlin su ispirazione di Ezra Pound, pubblica come Shadow Lands un’antologia di versi di Johannes Bobrowski, “il più importante poeta tedesco di questo secolo”. Il poeta era morto trent’anni prima, a Berlino Est, a causa dell’aggravarsi di un’appendice; non aveva ancora compiuto cinquant’anni. Di Bobrowski – al di là della poesia, vertiginosa – attiravano due cose, a giustificare il ‘successo’ nel mercato editoriale inglese. La prima è nascosta nel titolo: Shadow Lands consuona con The Shadow Line, il più noto – non il più bello – tra i romanzi di Joseph Conrad. Bobrowski, nato a Tilsit, il borgo eretto dall’Ordine Teutonico nel XIV secolo, già Prussia Orientale, Russia dalla Seconda guerra, era il trisnipote di Conrad. In particolare, il suo avo, Tadeusz Bobrowski, è stato zio e mentore di Conrad: nel 1991 Sellerio ha tradotto le sue Lettere al grande scrittore inglese. Se Conrad è stato il cantore dei mari, degli uomini soli a conflitto con la furia degli elementi, Johannes Bobrowski, diciamo così, è stato un costruttore di miti, ha navigato – su zattera – nei meandri dell’oceano interiore. Ma a questo arriveremo dopo.  Un’altra cosa affascinava gli anglofoni. Nato nel 1917 da un ufficiale delle ferrovie, cresciuto a Königsberg (ora Kliningrad), sempre sui confini, Bobrowski viene arruolato nel ’39, partecipa alla guerra su tutti i fronti – francese, polacco, sovietico – fino a essere arrestato dai russi, nel ’45, per quattro anni, costretto ai lavori forzati in una cava di carbone. Bobrowski nasce poeta in guerra (“Ho cominciato a scrivere nel 1941, lungo le rive del lago Ilmen sul paesaggio russo, ma da straniero, da tedesco. Di qui ne è scaturito un tema che potrebbe suonare così: i tedeschi e l’oriente europeo”); sorprende il contrasto tra l’orrore e la necessità di dissotterrare i miti di una terra martoriata, dove tedeschi e lituani, polacchi ed ebrei vivano consuonando. Nel dire di Bobrowski si vaga tra leggende lucidate nel sangue e nel latte, in un sovrappiù di innocenza: si va con l’arco a tracolla, con la canoa, nel senzatempo dell’infanzia dell’uomo. Si va con postura d’agguato – con la foga di chi ha perso tutti gli alfabeti, gli restano le briciole, e con quelle tenta di adescare, ancora e ancora, la poiana e la nottola, la volpe e l’ermellino, e ricomporre un canto che dica la fanciullezza delle betulle, il cielo appena tosato, il suo urlo. Nell’azione lirica di Bobrowski i paesaggi abbacinanti di Isaak Levitan levitano nel nero incanto di Georg Trakl, il Kalevala, finnico innario, epico canto, si fonde con la lingua di Novalis.  Quanto al resto, Bobrowski lavorò come redattore in diverse case editrici. Esordì nel 1961 con la raccolta Sarmatische Zeit: nei Sarmati del Baltico, il poeta intravede l’orda di una poetica, di una drittura morale – nell’era orizzontale, monca di miti, il poeta volta la nostalgia in lotta, segue il poema nel greto, diventa uccello e parente dei sonnambuli, si dice erede dell’astore e del lupo. Nell’aprile del 1943, durante una licenza, aveva sposato Johanna Buddrus: il matrimonio avvenne nella fattoria dei genitori di lei. Il poeta, figlio di battisti, aveva conosciuto Johanna ventenne: avranno quattro figli. Per un po’, frequentò il Gruppo 47 – in cui transitarono, tra i tanti, Uwe Johnson, Paul Celan, Hans Magnus Enzensberger –; pare abbia avuto una relazione con lo scrittore Hubert Fichte.  La vita lirica di Bobrowski si compie con altre due raccolte, Schattenland Ströme (1962) e Wetterzeichen(1966), che lo rendono uno dei poeti tedeschi più autorevoli del secondo Novecent. Herta Müller ha detto delle sue “inaudite immagini linguistiche”, di “una lingua che ferisce durante la lettura”. In Italia, Bobrowski è stato pubblicato da Mondadori (una raccolta di Poesie è uscita nel 1969 a cura di Roberto Fertotani); nel 2013 l’editore Di Felice ha pubblicato un’antologia di Poesie a cura di Davide Racca. Nel 1968 Garzanti ha pubblicato Il mulino di Levin, curioso romanzo del poeta.  C’è qualcosa di aurorale nelle poesie di Bobrowski, c’è il volto del pioniere, il coraggio di andare oltre la ‘linea d’ombra’ della letteratura. Sempre si arranca verso il futuro arretrando. Come il cacciatore, saturo d’erba, che in cuor suo ha dimenticato la patria e la via del ritorno, che a forza di sognare il giaguaro è diventato preda, l’essere più fragile, a cui non resta che il canto, l’estremo sparo che unisce questa ferita terra alla gorgiera dell’ultimo cielo.  *** Strade di uccelli I Nella pioggia dormivo, nel canneto di pioggia mi svegliai. Prima che sfogli, vedo la luna vicina, sento il grido degli uccelli di passo, lo scuotitore dell’aria, il bianco grido, che frantuma l’aria. Rapida e acuta come fiutano i lupi, sorella, ascolta: Väinämöinen canta in mezzo al vento, getta l’ala di neve sulla tua spalla, noi siamo spinti a volo nel vento dei canti –  II ma sotto grandi cieli solitari, abbandonate strade delle pennute schiere, che trascorsero –  dormendo sui venti passarono, un nuovo sole si accese, la vampa si levò nell’alto, loro bruciarono nell’albero di cenere. Là hanno preso il volo anche i nostri canti.  Sorella, le tue mani si sbiancano, tu nel buio mi svanisci nel sonno – quando io devo cantare l’angoscia degli uccelli? (Traduzione di Roberto Fertotani) * Canti di Lettonia Mio padre lo sparviero. Un lupo mio nonno. E l’antenato il pesce predone nel mare. Io, imberbe, un folle, barcollando agli steccati, con mani nere soffoco un agnello alla prima luce dell’alba. Io,  che braccai le bestie invece del bianco signore seguo i carri che sfrecciano lungo i greti dragati dall’acqua, mi volgo verso gli sguardi delle zingare. Poi  sulla riva baltica incontro Uexküll, il signore. Cammina sotto la luna. Le tenebre mormorano dietro di lui.  * Pianura  Lago.  Il lago.  Sprofondate le rive. Sotto la nube la gru. Bianchi, lucenti i millenari popoli dei pastori. Con il vento ho risalito il monte. Qui voglio vivere. Io ero un cacciatore, ma l’erba mi ha catturato.  Insegnami a parlare, erba, insegnami a essere morto, ad ascoltare a lungo e a parlare, pietra, insegnami a restare, acqua, e tu, vento, di me non chiedere.  * Sera estiva Guarda, guarda oltre il rossore oltre la foresta e la nera muraglia. L’acqua brilla ancora ed è bianca.  Il silenzio è vivo, lì, è segreto e buono. E tu, dove vivi? La Terra non è abbastanza per te, l’inesplicata? Spazio in abbondanza offre, spazio senza contegno, per gioire e morire.  Guarda, sopra ogni cosa fluttuano le nubi e si stagliano le stelle… Come posso ripeterlo? Oh Terra, Terra, mai angusta, troppo ricca per noi, troppo generosa.  * Figure invernali  Nient’altro che neve. Vasta pianura.  Il blu è appena levigato e viene in massa oltre le colline. Finalmente, oscurità – silenzio. Queste sono le foreste. Umili strati  sotto l’imperiale costruzione del cielo. All’orizzonte, il rebus delle nubi è già grigio, a frantumi.  Nessun sentiero sfida i colli Un rapace dissotterra il nero  dal bianco. Recinti di filo spinato tracciano linee nell’inesplorato.  * E nominare, sempre: l’albero e l’uccello in volo la rossa rupe su cui scorre il fiume e il pesce nel bianco fumo, mentre il buio sovrasta i boschi.  Segni, colori, è un gioco –  ne dubito – potrebbe  non finire bene.  E chi mi insegna ciò che ho dimenticato: il sonno delle pietre, il sonno degli uccelli in volo e quello degli alberi – forse  il loro parlare continua al buio? Se esistesse un dio se esistesse nel corpo e potesse chiamarmi gli andrei incontro per aspettarlo.  * Era fiacco il vento e noi vivevamo nelle capanne in riva al fiume. Mentre le rive si oscuravano, fischiavano le canne.  Eravamo bambini e ci allettava il canto. Venne il gelo e la pioggia venne il tuono e la nube –  così sulla terra passa il tempo.  Quel tempo che è passato di mano in mano come frutti rossi. L’inverno scorreva nella luce.  Quel tempo è passato: abbiamo abbandonato i villaggi alla sabbia e non ci ha sedotti la nostalgia della zattera.  Che dolore fare il fuoco per lo straniero – qualcuno  cantava la canzone:  un tempo fioriva il melo. Dove volete  vivere? Tutto è sempre terra ma noi ci sdraiamo perché i bambini non hanno più un villaggio. Ma i boschi e le canne la costa e i covoni e la gente che veniva dalla foresta  tornano in noi – il falco che plana su un’eco blu.  Scoloriscono gli sguardi quando varchiamo l’arco  dei nostri anni, quando contiamo le gioie della terra.  Il sangue romba nel cuore e appella ai figli, li prende per i capelli: quando cala la sera, dici Resta ancora così come quando non sapevi chi eri.  Johannes Bobrowski L'articolo “Mio padre lo sparviero”. Le poesie leggendarie di Johannes Bobrowski proviene da Pangea.
July 12, 2025 / Pangea