Il poeta presiede all’identità di un luogo.
Potremmo dire che un luogo esiste in virtù del canto del poeta.
Quando quel canto si perde, da quei luoghi fuggono gli dèi e i negromanti; quei
luoghi tornano anonimi, legati, semmai, a qualche catena di parentele – che come
ogni altra cosa, prima o poi si slegherà – a qualche circostanza
‘paesaggistica’, fotografica. The nymphs are departed, cantava Eliot sulla sua
rovinosa arpa: il Tamigi scorre dolce, trascinando “bottiglie vuote, carte da
sandwich… cicche di sigarette”; al posto dei fauni corrono, fatui, i ben
agghindati banchieri della City, in brigata.
*
Soltanto il canto dispiega i nomi, ne dice – celandolo – il segreto. E quel nome
– cioè: quel fiume e quella valle, quel bosco e quella particolare rocca, quella
particola fonte – splende, imperituro, imperiale, nostro. Se perdiamo il canto,
siamo dispersi al mondo. L’arte, allora – o ciò che ne resta – non è che
implorazione e lamento, peana malinconico, reprimenda, semmai, inerte trama di
marce vocali. Gli artisti – non più poeti, non più aedi – si rinnovano nei
ricami del lacchè, dei mestieranti del sé. Diventano esperti,
sono professionisti – mentre l’incanto e l’inesprimibile cerca gli ingenui e i
dilettanti; chi, vuoto di sé, sappia davvero incaricarsi dell’altro, invasarsi
di altro. L’angelo, allora, non grida più dalle pareti delle più inerpicate
pievi; il dio non scende più dalla volta celeste, non scoscende come un
acquazzone, in corsa – i lupi, i licaoni e gli stambecchi non corrispondono più
al canto – il poeta ha smesso di essere falco e erba, cicala e serpe.
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In un dialogo privato, Rosita Copioli, poetessa, studiosa di William Butler
Yeats e del misticismo irlandese, mi ha introdotto alla figura dell’ollam. Nella
cultura d’Irlanda, l’ollam ha un ruolo diverso dal bardo, dall’aedo, dal poeta
di corte: egli serba i canti che riformulano il mondo. L’ollam è il garante del
re, in quanto mediatore dei poteri superni. L’ollam somma in sé la statura del
bardo e la sapienza del druido: il suo addestramento è un destino, al ruolo si è
avviati per lignaggio. Quando un ollam sceglie di farsi morire perché un re gli
ha mancato di rispetto, si siede sulla soglia del castello e digiuna. Alla morte
dell’ollam segue, necessariamente, quella del re: la legge terrena è officiata
dal canto celeste.
Tutti conosciamo la storia di Eraclito, tramandata da Diogene Laerzio. Il
pensatore oscuro, artefice di enigmi, capace di penetrare nelle angustie del
linguaggio – avrà un eletto discepolo nel poeta francese René Char – è preteso
dagli abitanti di Efeso, la sua città. Alla richiesta di plasmare per loro la
costituzione, Eraclito si indigna, preferisce ritirarsi all’ombra del tempio di
Artemide e giocare a dadi con i bambini. Infine, sceglie l’ascesi tra i boschi,
si imbestia, dimentico di sé, a quattro zampe, seguace delle belve notturne.
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Alla poesia incantatoria seguirà il poema cavalleresco, che reca diletto ai
principi in stanze corredate di orsi impagliati e impigliati falchi, contorno di
Titani alle pareti, di nubi e forre ricche di satiri. Nelle sale dei re rivive
il selvatico e la selva, ormai dragato dall’ingegno umano, che relega le ninfe a
ninfette, le sirene a pin up, i duelli all’arma bianca, sotto lo stemma del
fato, a stermini di massa. L’azione fine a se stessa si volge in azienda, il
‘bel gesto’, connaturato al cavaliere, stinge in spiccio utilitarismo. La fiaba
reca ancora, sigillato, il segreto di un mondo fatato e fatale; il motto e
l’adagio popolare serbano dell’antico poema cosmico la lisca, l’estrema esca.
Carlo Fornara, Da una leggenda alpina, 1902
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Forse è per l’ancestrale potere degli ollamain che in Irlanda il poeta è tenuto
in alto onore: è ancora lui a onorare i nomi delle valli, dei fiumi, dei brutali
bastioni. Un’amicizia si stringe sotto il fuoco del poeta. In Inghilterra un
valore simile ha il “Poet Laureate”: l’incarico (mutuato dall’alloro poetico
conferito in Italia, tra l’altro, a Petrarca), di eminenza ‘politica’ (a
investire il poeta è il Primo ministro in carica e il sovrano, non una combine
di intellettuale né un club di letterati), dura dieci anni. Un tempo – fino al
1999 – era un compito da percorrere a vita, ora è qualcosa di simile al
‘servizio di Stato’. Il primo poeta laureato fu John Dryden, incoronato nel
1668. L’esercizio, dicevo, è ‘politico’: il poeta si fa – secondo il proprio
insindacabile, ingiustificabile estro – portavoce dell’identità della nazione.
Il poeta laureato inglese di maggior talento, Ted Hughes, trafficava con gli
oroscopi, ha dedicato il suo libro più bello al corvo, l’uccello psicopompo, si
ritirava nello Yorkshire a scrivere e a cacciare. Non è un caso che abbia
tradotto Eschilo, tra i tragici il più grave di sacro. In una intervista del
1971, rilasciata al “London Magazine”, Hughes anela al ritorno del
poeta-sciamano: “Il Bardo Thodol è un volo sciamanico, con ritorno. Il buddismo
tibetano è influenzato enormemente dallo sciamanesimo. Il potere occulto che
emana la cultura tibetana proviene dal substrato sciamanico più che dal
buddismo. Lo sciamanesimo si concentra sull’attività di uno stregone, un uomo di
medicina, presso le genti primordiali. L’individuo è evocato da certi sogni. Gli
stessi sogni in tutto il mondo. Uno spirito lo chiama… di solito un animale o
una donna. Se egli rifiuta la chiamata, muore… o muore uno che gli è accanto. Se
accetta, si predispone al lavoro, ci vogliono anni… Di solito si apprende l’arte
da un altro sciamano, ma lo spirito può dare insegnamenti diretti. Una volta
educato, può entrare in trance a suo piacimento e varcare il mondo degli
spiriti… Lo stesso schema lo troviamo in migliaia di racconti popolari e di
miti. L’Odissea, la Divina Commedia, Faust… Come può un poeta tornare stregone e
volare alla fonte, saper guarire e pronunciare oracoli?”.
*
Nella prima delle Leggende delle Alpi Lepontine catalogate e riscritte con garbo
da Aurelio Garobbio (ora stampate dall’Associazione culturale Terra Insubre per
tramite di De Piante Editore), Il drago di Sesto Calende, si dice di un
pescatore che d’improvviso partecipa ai misteri della terra e del cielo. “L’uomo
sentì dentro di sé un che di immenso nel quale gli parve naufragare”. Al di là
della eco leopardiana, è proprio questa, frugale, lignea, l’esperienza
sciamanica: cogliere i colloqui tra “acqua terra cielo”. Il poeta ascolta, si fa
da parte – inscrive se stesso e i suoi in un luogo. Digging, direbbe Seamus
Heaney, il grande poeta irlandese – scavando.
*
Nelle leggende registrate da Garobbio ci sono le ninfe di lago: sono nella Valle
Isorno, una delle valli dell’Ossola; sguazzano nel Matogno, a poco più di
duemila metri. Attraggono a sé i viandanti, il loro fare ricorda quello delle
Sirene:
> “Sono creature amorose ed attirano i giovani cantando. L’incauto che udendole
> s’avvicina alle rive, difficilmente riesce a sottrarsi a tanto fascino; esse
> lo invitano mostrandosi dalle ginocchia in su. Chi mette un piede nell’acqua
> più non si libera dall’incantesimo e le segue immergendosi pian piano, come
> esse si immergono, scomparendo nei flutti in un abbraccio che non ha fine”.
C’è qualcosa di liberty in queste donne che all’ardore omerico uniscono le
ambiguità dei ritratti di Klimt.
“Tra i ghiacciai del Rosa”, invece, si apre “una misteriosa isola verde”, specie
di Eden di ubertose terre, a contrasto con le gelide lande. Sembra di rileggere
il mito tibetano di Śambhala, di varcare la prodigiosa città di Shangri-la,
conficcata in un luogo segreto, a nord del Ladakh. In quel luogo – che è poi un
varco tra i mondi, è un luogo simbolico – il viandante accede a un’armonia
perduta, impara il linguaggio delle bestie:
> “Per tre settimane egli resta nella valle fatata, in mezzo agli animali che
> più non fuggono dinanzi a lui, e vive la loro vita imparando il loro
> linguaggio. Ode suoni mai uditi e vede cose che sempre sfuggirono al suo
> occhio acutissimo, apprende mille segreti penetrando nell’armonia del
> creato”.
È una sorta di quarantena al contrario, questa, di ventuno giorni: l’uomo
ritorna Adamo e Mowgli, puer eterno che doma le fiere e ascolta i sussurri degli
alberi.
Al ghiacciaio del Belvedere, presso Macugnaga, dimora invece la Fata Bianca:
naturalmente, è agli umani precluso il suo “volto fulgente”. Secondo il mito
classico – Atteone, mutato in cervo dopo aver scorto Artemide nuda – e il monito
biblico – “Mosè si coprì il volto, aveva paura di guardare verso Dio”, Es 3, 6 –
la vista del divino è vietata all’uomo, pena la cecità e la morte: “gli occhi
umani non resistono a quel celestiale splendore”.
D’altronde, se si è ciechi a se stessi è per eguale ragione: terrore provoca
sondare il mostro che si agita nel nostro cuore. Meglio ignorarlo – e che lui,
ingordo, ci divori da dentro. Rinnegare se stessi, cioè: disertarsi, essere di
sé il bandito, bandire razzia all’ego. Così, vuoti, potremo fare altare
dell’Altro.
*
Da bambino, volevo conquistare il monte Zeda. Forse per quel nome, definitivo.
Più tardi, avrei associato lo Zeda a Zembla, l’immaginaria regione dei ghiacci
inventata da Vladimir Nabokov in Fuoco pallido, romanzo impossibile che ruota
attorno a un poema, un’eredità, una filigrana di magie. Zembla è mutuato, credo,
da Novaja Zemlja, l’inaccessibile arcipelago russo che perfora il Mar Glaciale
Artico. Vi domina l’orso polare e la volpe bianca – fu un’importante base
nucleare sovietica.
Anselm Kiefer, Voglio vedere le mie montagne – für Giovanni Segantini, 2013
Lo Zeda svetta in Val Grande. Da bambino, si partiva verso il Rifugio Pian
Cavallone da Miazzina o da Comero. Si passava lì la notte – le stelle,
agnelline, belavano – i pascoli pieni di mirtilli. Lo Zeda – poco più di duemila
metri – mi fissava, come un selvaggio con l’arco a tracolla. L’ho sognato più
volte – come fosse il mio Himalaya personale, un Everest da taschino. Garobbio
scrive dello Zeda in un racconto che s’intitola Il pastore malvagio; come
sempre, è capace nel pennello, pare un Segantini:
> “In alto stanno i pascoli del monte Zeda, e da lontano sembrano velluto,
> soffici come sono all’occhio che riposato li percorre digradando lungo pendici
> e sostando su ripiani e pianori. L’aria risuona del martellante scampanio
> delle mandrie; in qualche anfratto gli ultimi rododendri segnano rosse
> pennellate”.
Nel sentiero che dal rifugio porta allo Zeda, si spalanca, dopo un po’, una
cella. Vi è dipinto, in modo rudimentale, un angelo che schiaccia la serpe, il
demonio. La serpe si diparte in un cespuglio di corpi che sibilano; l’angelo ha
il volto camuffato, ha un volto da lupo. Le ali, appese alla meglio, sembrano
chiese in prestito da un airone. Lo zio mi diceva che lì abitava il monaco dello
Zeda. Figura per lo più leggendaria, non apparteneva, nel suo appartarsi al
mondo, ad alcun ordine monastico costituito. Vagabondava con una Bibbia in mano,
come l’antico pellegrino russo, di tutto spoglio, di nulla manchevole. Dicono
sapesse mutarsi in cervo; dicono sapesse curare chi era preda, su quel suolo di
ingannevoli pietre, di un incidente; morso di vipera non ne intaccava il nerbo.
Dicono che le stelle lo seguissero, a notte, come cani. Sognavo di vivere quella
stessa vita – lo dicono altissimo, bianchissimo, purificato dal gelo – a metà
tra l’eremita e il licaone.
*
Quando racconta degli strani abitanti nei pressi di Dongio, in Canton Ticino,
Garobbio scrive che costoro “conoscevano i segreti delle erbe, delle piante,
degli animali, dei sassi, leggevano nelle stelle, adoravano il sole e la luna e
forse vedevano al di là delle cose visibili”. Dimoravano presso pareti
vertiginose, vivendo secondo la formula degli antichi cenacoli: dai pitagorici
ai Terapeuti, dai seguaci di Orfeo agli Esseni, agli pneumatici confitti nelle
meteore dell’Athos. A quello stadio, il canto non conta più: si vive
nell’incanto. Il poeta non ha più peso né senso perché si è tutti poeti e la
profezia è ormai realizzata. Non esiste legge né loggia, mio o tuo, bene o male
– tutto, semplicemente, è.
*In copertina: Giovanni Segantini, Il castigo delle lussuriose, 1891
L'articolo “Conoscevano i segreti delle erbe, delle piante, degli animali, dei
sassi, leggevano nelle stelle” proviene da Pangea.