Nella biografia di uno dei primi romanzi, ripidi come un’erta di vento, c’è
scritto che “coltiva mimose nel paese natale”. In realtà – per scoscendimento di
luce – i suoi eroi, ostinati e desolati, figli di un sussurro, il Varí di Vento
largo, ad esempio, vagano tra ulivi che flagellano il cielo. Francesco Biamonti
veniva da San Biagio della Cima, alle spalle di Ventimiglia, ha esordito più di
quarant’anni fa, ne aveva più di cinquanta, è morto nel 2001. I suoi libri sono
rari, per pochi: gli piaceva scollinare nel rancore, era amico di Ennio
Morlotti, amava Cézanne, leggeva René Char, ma aveva imparato “la tenuta dello
stile… la laboriosità dello stile” da Julien Gracq.
Dopo una giovinezza disordinata – piena di città portuali dai nomi immaginari,
mi diceva – Biamonti era stato bibliotecario a Ventimiglia: negli occhi aveva
una nostalgia pietrificata, ligure, non scevra da una certa scaltrezza. Gracq,
nato nel 1910 nella Loira, nelle fotografie ha il viso affilato, duro; è magro e
perennemente elegante; il neo appena sopra il labbro e la pettinatura composta
confermano l’estro dei perfezionisti, una specie di ansiosa ossessione per il
dettaglio. Arrestato a Dunkerque nel 1940, imprigionato in Slesia insieme a
Raymond Abellio e a Patrice de La Tour du Pin, è ricordato come “il più
individualista, il più anticomunitario di tutti, ferocemente anti-Vichy, retto
per lo più da un perpetuo disprezzo”. A Biamonti piaceva Una finestra sul
bosco (1958); Julien Gracq esordisce nel 1938 con Nel castello di Argol: un
capolavoro, certo, ma editorialmente un disastro (130 copie vendute su 1200
stampate). André Breton, che aveva conosciuto l’autore nel ’39, vide in quel
libro l’esito del surrealismo, che si librava – diceva – verso la
“chiaroveggenza”. Come tentò di essere comunista – si iscrisse al Parti
communiste français nel 1936 – così si forzò di farsi surrealista: ancora nel
1953, una fotografia scattata da Man Ray al Café de la place Blanche lo ritrae
insieme a Le groupe surréaliste. Tra gli altri, si riconoscono Max Ernst,
Alberto Giacometti, Benjamin Péret; Gracq guarda di lato, perplesso; a
quell’epoca il suo destino era già deciso.
In effetti, si era fatto fuori da tutto, da tempo: gli pareva irrilevante, in
letteratura, “l’impegno”, una irrisione il “realismo socialista”; in genere, non
credeva nelle imprese di gruppo né nell’azione politica (“non è un serio
esercizio per la mente”, diceva), preferiva Edgar Allan Poe e Lautréamont a
Sartre, adorava Wagner. Fu fedele ad André Breton – d’altronde, era stato il
primo a riconoscerlo –, non parteggiò per alcuna avanguardia. Ad ogni modo,
a Nadja, l’opera imperitura – ma datata – di Breton, anteponeva Sulle scogliere
di marmo di Ernst Jünger. Gracq volle incontrare lo scrittore tedesco: si videro
a Parigi, nel ’52; Jünger apprezzava quell’uomo schivo, dai silenzi
sconvolgenti, e ancor più i suoi libri, “dopo Marcel Jouhandeau, ha scritto la
miglior prosa francese che abbia mai letto”.
In realtà, si chiamava Louis Poirier, un nome al limite dell’insignificante: dal
1946 fu impiegato al Lycée Claude-Bernard di Parigi come insegnante di storia e
geografia, incarico che mantenne sino alla pensione, nel 1970. Consacrato al
sacerdozio dell’arte, mirava a farsi invisibile, mero gioco di verbi e di
specchi. Ci riuscì a tal punto da essere considerato, alla sua morte, capitata
tre giorni prima del Natale del 2007, “l’ultimo dei classici francesi”.Redigendo
una sorta di carta d’identità dei suoi personaggi letterari, ha scritto che “non
abitano mai a casa propria”, non se ne conosce il luogo né la data di nascita,
praticano il “nottambulismo” e il “sogno ad occhi aperti”.
Sfuggente, radicale, inafferrabile, il ‘tipo’ di Julien Gracq ha un’aristocrazia
in Francia – che riguarda, spesso, l’indocile postura dei poeti: Jean Grosjean,
Georges Perros, Thierry Metz, ad esempio – che scaturisce dalle scelte, quasi
messianiche, di Rimbaud. Il divino, tremendo Rimbaud è stato l’angelo di Gracq
durante la scrittura di Libertà grande(pubblicato nel 2021 da L’orma, che in
edizioni di pregio ha stampato alcuni grandi libri di Gracq); nel 1954, sulla
rivista “Arts”, in un articolo dal titolo Le Dieu Rimbaud, descrive il divo
Arthur come “l’uomo che mantiene sempre meravigliosamente le distanze”, che “non
ci è mai stato vicino”.
Quanto a Gracq, aveva preso le distanze dal fottio intellettuale francese pochi
anni prima, con un pamphlet vertiginoso e violento, La Littérature à l’estomac,
stampato nel 1950, tradotto da De Piante nel 2022 come La letteratura da
voltastomaco (a cura di Émil Ronìn, con una introduzione di Goffredo Fofi), dopo
un passaggio per Theoria nel 1990. Il testo, radioso per livore polemico,
scardina il giogo del sistema culturale, dimostrandone l’insensatezza,
l’iniquità. In un tempo in cui l’editoria ha come unico fine quello di
rimpinzare le masse di libri banali, prodotti da scrittori creati in vitro,
estratti “da una serra di coltivazioni forzate”, proni all’intrattenimento,
innocui, atti a favorire il sonno dell’audacia, a rimpinzare il “rumore di
fondo” nonché la vile acquiescenza sulle proprie convinzioni, palestra per
sottomessi e remissivi, la letteratura è scelta monastica, per eversivi e
miniatori del verbo. Nell’era delle apparenze e delle apparizioni estemporanee,
lo scrittore “ancor prima di avere un talento” deve curare “come si dice,
un’immagine esteriore”, deve “esibirsi”, in un contesto in cui la critica è
avvilita a “cronaca”, avviluppata nell’ebetudine. La ‘forma’ imposta da Julien
Gracq al pamphlet – livida, refrattaria alla facilità, con l’indole del
predatore – garantisce un’esuberanza corrusca che va ben al di là dell’‘attuale’
(a tutti è ormai noto che i premi premiano i soliti noti e che un sistema
editoriale schiavo delle classifiche di vendita è destinato a produrre libri
senza lignaggio, per lo più noiosi).
Il pamphlet infuocò fatue polemiche; di fatto, in molti perdonarono a Gracq
l’eccentricità da virtuoso avvelenato. L’anno dopo, nel ’51, gli assegnarono il
Goncourt per La riva delle Sirti, il libro più bello. Non attendeva altro:
rifiutò. Tra le molte cose, Gracq disprezzava il piagnisteo, la litania degli
eterni incompresi. La letteratura da voltastomaco è, in effetti, il referto di
una lotta.
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