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“Conoscevano i segreti delle erbe, delle piante, degli animali, dei sassi, leggevano nelle stelle”
Il poeta presiede all’identità di un luogo.  Potremmo dire che un luogo esiste in virtù del canto del poeta.  Quando quel canto si perde, da quei luoghi fuggono gli dèi e i negromanti; quei luoghi tornano anonimi, legati, semmai, a qualche catena di parentele – che come ogni altra cosa, prima o poi si slegherà – a qualche circostanza ‘paesaggistica’, fotografica. The nymphs are departed, cantava Eliot sulla sua rovinosa arpa: il Tamigi scorre dolce, trascinando “bottiglie vuote, carte da sandwich… cicche di sigarette”; al posto dei fauni corrono, fatui, i ben agghindati banchieri della City, in brigata.  * Soltanto il canto dispiega i nomi, ne dice – celandolo – il segreto. E quel nome – cioè: quel fiume e quella valle, quel bosco e quella particolare rocca, quella particola fonte – splende, imperituro, imperiale, nostro. Se perdiamo il canto, siamo dispersi al mondo. L’arte, allora – o ciò che ne resta – non è che implorazione e lamento, peana malinconico, reprimenda, semmai, inerte trama di marce vocali. Gli artisti – non più poeti, non più aedi – si rinnovano nei ricami del lacchè, dei mestieranti del sé. Diventano esperti, sono professionisti – mentre l’incanto e l’inesprimibile cerca gli ingenui e i dilettanti; chi, vuoto di sé, sappia davvero incaricarsi dell’altro, invasarsi di altro. L’angelo, allora, non grida più dalle pareti delle più inerpicate pievi; il dio non scende più dalla volta celeste, non scoscende come un acquazzone, in corsa – i lupi, i licaoni e gli stambecchi non corrispondono più al canto – il poeta ha smesso di essere falco e erba, cicala e serpe.  * In un dialogo privato, Rosita Copioli, poetessa, studiosa di William Butler Yeats e del misticismo irlandese, mi ha introdotto alla figura dell’ollam. Nella cultura d’Irlanda, l’ollam ha un ruolo diverso dal bardo, dall’aedo, dal poeta di corte: egli serba i canti che riformulano il mondo. L’ollam è il garante del re, in quanto mediatore dei poteri superni. L’ollam somma in sé la statura del bardo e la sapienza del druido: il suo addestramento è un destino, al ruolo si è avviati per lignaggio. Quando un ollam sceglie di farsi morire perché un re gli ha mancato di rispetto, si siede sulla soglia del castello e digiuna. Alla morte dell’ollam segue, necessariamente, quella del re: la legge terrena è officiata dal canto celeste.  Tutti conosciamo la storia di Eraclito, tramandata da Diogene Laerzio. Il pensatore oscuro, artefice di enigmi, capace di penetrare nelle angustie del linguaggio – avrà un eletto discepolo nel poeta francese René Char – è preteso dagli abitanti di Efeso, la sua città. Alla richiesta di plasmare per loro la costituzione, Eraclito si indigna, preferisce ritirarsi all’ombra del tempio di Artemide e giocare a dadi con i bambini. Infine, sceglie l’ascesi tra i boschi, si imbestia, dimentico di sé, a quattro zampe, seguace delle belve notturne.  * Alla poesia incantatoria seguirà il poema cavalleresco, che reca diletto ai principi in stanze corredate di orsi impagliati e impigliati falchi, contorno di Titani alle pareti, di nubi e forre ricche di satiri. Nelle sale dei re rivive il selvatico e la selva, ormai dragato dall’ingegno umano, che relega le ninfe a ninfette, le sirene a pin up, i duelli all’arma bianca, sotto lo stemma del fato, a stermini di massa. L’azione fine a se stessa si volge in azienda, il ‘bel gesto’, connaturato al cavaliere, stinge in spiccio utilitarismo. La fiaba reca ancora, sigillato, il segreto di un mondo fatato e fatale; il motto e l’adagio popolare serbano dell’antico poema cosmico la lisca, l’estrema esca.  Carlo Fornara, Da una leggenda alpina, 1902 * Forse è per l’ancestrale potere degli ollamain che in Irlanda il poeta è tenuto in alto onore: è ancora lui a onorare i nomi delle valli, dei fiumi, dei brutali bastioni. Un’amicizia si stringe sotto il fuoco del poeta. In Inghilterra un valore simile ha il “Poet Laureate”: l’incarico (mutuato dall’alloro poetico conferito in Italia, tra l’altro, a Petrarca), di eminenza ‘politica’ (a investire il poeta è il Primo ministro in carica e il sovrano, non una combine di intellettuale né un club di letterati), dura dieci anni. Un tempo – fino al 1999 – era un compito da percorrere a vita, ora è qualcosa di simile al ‘servizio di Stato’. Il primo poeta laureato fu John Dryden, incoronato nel 1668. L’esercizio, dicevo, è ‘politico’: il poeta si fa – secondo il proprio insindacabile, ingiustificabile estro – portavoce dell’identità della nazione.  Il poeta laureato inglese di maggior talento, Ted Hughes, trafficava con gli oroscopi, ha dedicato il suo libro più bello al corvo, l’uccello psicopompo, si ritirava nello Yorkshire a scrivere e a cacciare. Non è un caso che abbia tradotto Eschilo, tra i tragici il più grave di sacro. In una intervista del 1971, rilasciata al “London Magazine”, Hughes anela al ritorno del poeta-sciamano: “Il Bardo Thodol è un volo sciamanico, con ritorno. Il buddismo tibetano è influenzato enormemente dallo sciamanesimo. Il potere occulto che emana la cultura tibetana proviene dal substrato sciamanico più che dal buddismo. Lo sciamanesimo si concentra sull’attività di uno stregone, un uomo di medicina, presso le genti primordiali. L’individuo è evocato da certi sogni. Gli stessi sogni in tutto il mondo. Uno spirito lo chiama… di solito un animale o una donna. Se egli rifiuta la chiamata, muore… o muore uno che gli è accanto. Se accetta, si predispone al lavoro, ci vogliono anni… Di solito si apprende l’arte da un altro sciamano, ma lo spirito può dare insegnamenti diretti. Una volta educato, può entrare in trance a suo piacimento e varcare il mondo degli spiriti… Lo stesso schema lo troviamo in migliaia di racconti popolari e di miti. L’Odissea, la Divina Commedia, Faust… Come può un poeta tornare stregone e volare alla fonte, saper guarire e pronunciare oracoli?”. * Nella prima delle Leggende delle Alpi Lepontine catalogate e riscritte con garbo da Aurelio Garobbio (ora stampate dall’Associazione culturale Terra Insubre per tramite di De Piante Editore), Il drago di Sesto Calende, si dice di un pescatore che d’improvviso partecipa ai misteri della terra e del cielo. “L’uomo sentì dentro di sé un che di immenso nel quale gli parve naufragare”. Al di là della eco leopardiana, è proprio questa, frugale, lignea, l’esperienza sciamanica: cogliere i colloqui tra “acqua terra cielo”. Il poeta ascolta, si fa da parte – inscrive se stesso e i suoi in un luogo. Digging, direbbe Seamus Heaney, il grande poeta irlandese – scavando.  * Nelle leggende registrate da Garobbio ci sono le ninfe di lago: sono nella Valle Isorno, una delle valli dell’Ossola; sguazzano nel Matogno, a poco più di duemila metri. Attraggono a sé i viandanti, il loro fare ricorda quello delle Sirene:  > “Sono creature amorose ed attirano i giovani cantando. L’incauto che udendole > s’avvicina alle rive, difficilmente riesce a sottrarsi a tanto fascino; esse > lo invitano mostrandosi dalle ginocchia in su. Chi mette un piede nell’acqua > più non si libera dall’incantesimo e le segue immergendosi pian piano, come > esse si immergono, scomparendo nei flutti in un abbraccio che non ha fine”.  C’è qualcosa di liberty in queste donne che all’ardore omerico uniscono le ambiguità dei ritratti di Klimt.  “Tra i ghiacciai del Rosa”, invece, si apre “una misteriosa isola verde”, specie di Eden di ubertose terre, a contrasto con le gelide lande. Sembra di rileggere il mito tibetano di Śambhala, di varcare la prodigiosa città di Shangri-la, conficcata in un luogo segreto, a nord del Ladakh. In quel luogo – che è poi un varco tra i mondi, è un luogo simbolico – il viandante accede a un’armonia perduta, impara il linguaggio delle bestie:  > “Per tre settimane egli resta nella valle fatata, in mezzo agli animali che > più non fuggono dinanzi a lui, e vive la loro vita imparando il loro > linguaggio. Ode suoni mai uditi e vede cose che sempre sfuggirono al suo > occhio acutissimo, apprende mille segreti penetrando nell’armonia del > creato”.  È una sorta di quarantena al contrario, questa, di ventuno giorni: l’uomo ritorna Adamo e Mowgli, puer eterno che doma le fiere e ascolta i sussurri degli alberi.  Al ghiacciaio del Belvedere, presso Macugnaga, dimora invece la Fata Bianca: naturalmente, è agli umani precluso il suo “volto fulgente”. Secondo il mito classico – Atteone, mutato in cervo dopo aver scorto Artemide nuda – e il monito biblico – “Mosè si coprì il volto, aveva paura di guardare verso Dio”, Es 3, 6 – la vista del divino è vietata all’uomo, pena la cecità e la morte: “gli occhi umani non resistono a quel celestiale splendore”. D’altronde, se si è ciechi a se stessi è per eguale ragione: terrore provoca sondare il mostro che si agita nel nostro cuore. Meglio ignorarlo – e che lui, ingordo, ci divori da dentro. Rinnegare se stessi, cioè: disertarsi, essere di sé il bandito, bandire razzia all’ego. Così, vuoti, potremo fare altare dell’Altro.  * Da bambino, volevo conquistare il monte Zeda. Forse per quel nome, definitivo. Più tardi, avrei associato lo Zeda a Zembla, l’immaginaria regione dei ghiacci inventata da Vladimir Nabokov in Fuoco pallido, romanzo impossibile che ruota attorno a un poema, un’eredità, una filigrana di magie. Zembla è mutuato, credo, da Novaja Zemlja, l’inaccessibile arcipelago russo che perfora il Mar Glaciale Artico. Vi domina l’orso polare e la volpe bianca – fu un’importante base nucleare sovietica.  Anselm Kiefer, Voglio vedere le mie montagne – für Giovanni Segantini, 2013 Lo Zeda svetta in Val Grande. Da bambino, si partiva verso il Rifugio Pian Cavallone da Miazzina o da Comero. Si passava lì la notte – le stelle, agnelline, belavano – i pascoli pieni di mirtilli. Lo Zeda – poco più di duemila metri – mi fissava, come un selvaggio con l’arco a tracolla. L’ho sognato più volte – come fosse il mio Himalaya personale, un Everest da taschino. Garobbio scrive dello Zeda in un racconto che s’intitola Il pastore malvagio; come sempre, è capace nel pennello, pare un Segantini:  > “In alto stanno i pascoli del monte Zeda, e da lontano sembrano velluto, > soffici come sono all’occhio che riposato li percorre digradando lungo pendici > e sostando su ripiani e pianori. L’aria risuona del martellante scampanio > delle mandrie; in qualche anfratto gli ultimi rododendri segnano rosse > pennellate”. Nel sentiero che dal rifugio porta allo Zeda, si spalanca, dopo un po’, una cella. Vi è dipinto, in modo rudimentale, un angelo che schiaccia la serpe, il demonio. La serpe si diparte in un cespuglio di corpi che sibilano; l’angelo ha il volto camuffato, ha un volto da lupo. Le ali, appese alla meglio, sembrano chiese in prestito da un airone. Lo zio mi diceva che lì abitava il monaco dello Zeda. Figura per lo più leggendaria, non apparteneva, nel suo appartarsi al mondo, ad alcun ordine monastico costituito. Vagabondava con una Bibbia in mano, come l’antico pellegrino russo, di tutto spoglio, di nulla manchevole. Dicono sapesse mutarsi in cervo; dicono sapesse curare chi era preda, su quel suolo di ingannevoli pietre, di un incidente; morso di vipera non ne intaccava il nerbo. Dicono che le stelle lo seguissero, a notte, come cani. Sognavo di vivere quella stessa vita – lo dicono altissimo, bianchissimo, purificato dal gelo – a metà tra l’eremita e il licaone.   * Quando racconta degli strani abitanti nei pressi di Dongio, in Canton Ticino, Garobbio scrive che costoro “conoscevano i segreti delle erbe, delle piante, degli animali, dei sassi, leggevano nelle stelle, adoravano il sole e la luna e forse vedevano al di là delle cose visibili”. Dimoravano presso pareti vertiginose, vivendo secondo la formula degli antichi cenacoli: dai pitagorici ai Terapeuti, dai seguaci di Orfeo agli Esseni, agli pneumatici confitti nelle meteore dell’Athos. A quello stadio, il canto non conta più: si vive nell’incanto. Il poeta non ha più peso né senso perché si è tutti poeti e la profezia è ormai realizzata. Non esiste legge né loggia, mio o tuo, bene o male – tutto, semplicemente, è.    *In copertina: Giovanni Segantini, Il castigo delle lussuriose, 1891 L'articolo “Conoscevano i segreti delle erbe, delle piante, degli animali, dei sassi, leggevano nelle stelle” proviene da Pangea.
July 21, 2025 / Pangea
“Su ogni cosa è il dominio del caso”. Vagabondaggi intorno a Qoelet
Non occorre manomettere un testo tanto perentorio, ci si inoltri in un versetto, si costruisca un cantuccio nei suoi meandri. Scelgo il primo versetto del capitolo 5; questa è traduzione alla lettera: > “Non affrettare la bocca, non precipitare il cuore a eruttare parola davanti a > Dio, perché Dio è in cielo e tu in terra: perciò siano rade le tue parole”.  Intanto: si parla a Dio con la bocca (peh) e con il cuore (leb). Esteriore e interiore debbono combaciare. Il cuore ha porte e ha bocche; la bocca sia la brocca del cuore.  Il punto è per sempre quello: come si parla a Dio? Qual è la parola che permette udienza da parte di Dio? Se è vero che ciò che chiediamo ci sarà dato, come chiedere? Qual è il linguaggio di Dio?  Poche parole, dice Qoelet, scarsità di verbo, fare del vocabolo umano deserto. Cosa scarsa, scarna: parola-ostia, parola-briciola.  Qoelet è libro dell’asserzione assoluta – è un libro all’assalto. Così breve – siano rade le tue parole: parola rase al suolo, cioè: rare – da infuocare l’intero Testo. La frustrante ripetizione di tutte le cose – stagioni; creature; fatti – testimonia che l’uomo è poca cosa, ombra che fugge, erba che sorge al mattino perché sia tagliata a sera. A tutti – saggi come stolti, potenti come poveri – è assegnata la stessa sorte: morte. Per ogni creatura – uomo o cane che sia – è apparecchiata la stessa meta: Sheol, il regno degli spettri. Dio ci ha insufflato l’anima, a Lui va resa – rasa. Al ricco sarà tolto ciò che ha, il povero sarà depredato perfino di ciò che manca. Con metodica crudeltà Qoelet elimina ogni certezza: in fondo, Dio equivale al Caos.  Corroborante è questa certezza del nulla: ci permette tutto – l’antinomismo è a un passo.  Eppure, esiste lo spiraglio. Poche parole bastano a sfigurare la distanza tra la terra e il cielo, ad avvicinare il Dio mai così distante dall’uomo (ma lo è pure il Cristo, a intendere le stimmate più abissali di ogni mai pensato Sheol, la Croce più ineffabile di ogni Babele mai costruita).  Già. Ma… quali parole? “Per te il silenzio è lode”, dice il Salmo 65. Dumiyyah: silenzio, attesa in quiete. Veglia silente.  Che cos’è questa preghiera silenziosa, di rade parola, che non si affretta, che è in perenne veglia?  Forse è la preghiera che ossessionava il pellegrino russo, sconvolto dall’invito che Paolo fa ai Tessalonicesi: “pregate ininterrottamente” (5, 17). Quali sono le “rade parole” che permettono la preghiera senza interruzioni? Secondo la tradizione cristiana, in particolare ortodossa, tali parole sono raccolte, in simbolo, nella cosiddetta “Preghiera del Cuore”, mutuata dal Vangelo di Luca (18, 13): “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!” (Κύριε ἸησοῦΧριστέ, Υἱὲ τοῦ Θεοῦ, ἐλέησόν με τὸν ἁμαρτωλόν). Rade, rare parole che non costringono Dio all’ascolto, ma aprono il nostro corpo – petto/orecchio; costato/occhio – ad ascoltare ciò che Dio ci dice. Preghiera da sussurrare di continuo per conferire un’aura al nostro fare, per illuminare l’opera. Parola che inchiavarda il cielo alla terra.  Il versetto di Qoelet, tuttavia, continua in questo modo: > “…perché arriva il sogno dalla troppa attività, il dire del vile dalle troppe > parole”.  Chi parla troppo è un cretino (kesil), uno stolto, un seguace del gregge. Si ostina al discorso – il logos greco –, inutile a incatenare Dio. Il discorso, vanto dei filosofi, rimarca Babele: il linguaggio che doveva unire Dio all’uomo ha sancito irremovibile divario. La parola umana non sfiora l’Impronunciabile; per giungere a Dio bisogna percorrere l’aldilà del linguaggio – le “lingue degli angeli”, la “glossolalia”, lingua-fiamma – come fanno i poeti, o essere da Lui invasati, invasi come accade ai profeti. Non si dà Dio in lingua umana, capace di sondare l’evidente, inabile al cospetto dell’invisibile. Per dirla come Lev Šestov,  > “Dio non è dimostrabile. Non si può cercare Dio nella storia. Egli è il > ‘capriccio’ incarnato, che respinge ogni garanzia”. Il sogno (chalom), qui, è agli antipodi della veglia, non impreziosisce la vita ma la svia, la inselvatica in un roveto di sinistri segni. Il sogno – che pure ha parte nella storia della salvezza: si guardi alla storia di Giuseppe, che i sogni dissigilla – è da Qoèlet deprezzato a segno della vita australe a Dio: nell’esatto dire, hahalowm consuona con haelohim, Dio, appunto, nella sua più neutra accezione, il dio moltiplicato in dèi. I sogni creano dèi, ci imbambolano, inibiscono la via a Dio, sono la controfigura dell’idolo. In questo caso, il sogno è in contrasto con il detto (neum) e l’oracolo (massà) che Dio concede al profeta: analoga differenza tra miraggio e miracolo, tra negromante ed eletto, tra mistagogo e vagabondo del mistero.  Il pensiero è estremizzato nel versetto 6:  > “…nella folla dei sogni è vanità come nelle troppe parole: perciò ti > impaurisca Dio”. Troppe parole intrappolano, bocca che tarpa la levità del cuore (ormai sede del male: “pieno di male il cuore dei figli dell’uomo”, dice Qoèlet, 9, 3, ripetendo l’originaria asserzione di Dio: “ogni intento del cuore umano è incline al male”, Gn8, 21). I sogni: meri preamboli di nebbia, come il discorso umano. Desto o addormentato, l’uomo vaga tra vanità: la mania del calcolo – circoscrivere in numeri la realtà – è pari al delirio di chi divina i segni tratti dal sonno, declivio nelle inconsistenze dell’incubo. Sembra di udire Eraclito: “È la medesima realtà il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli, e quelli di nuovo mutando son questi”.  Eppure, ancora. Come si parla a Dio, come parla il dio? Il verbo umano fermenta idoli, eccelle nell’ideare miraggi. Ci è voluto il Verbo – inchiodato come una falena, flagellato fino all’omega, franto e frainteso – per distruggere il vocabolario. Vocabolario: ghigliottina dell’uomo – formulario di inganni.  > “Nella parola si manifesta all’uomo la sapienza del dio, e la forma, l’ordine, > il nesso in cui si presentano le parole rivela che non si tratta di parole > umane, bensì di parole divine. Di qui il carattere esteriore dell’oracolo: > l’ambiguità, l’oscurità, l’allusività ardua da decifrare, l’incertezza”. > > (Giorgio Colli, La nascita della filosofia).  Così, nel mondo greco classico: deragliare del linguaggio, delirare, singulti sul bavero della bestia, lacerti quasi increati di verbo, diverbio, animosità dell’amnio verbale. Da qui – come ai primordi dell’avventura cristiana – il carisma del ‘traduttore’: uomo capace di interpretare, trasformandola in gergo umano, la lingua divina.  Dunque, nel mondo greco, la divinizzazione dell’enigma, “la manifestazione nella parola di ciò che è divino, nascosto, un’interiorità indicibile” (Colli), che si sfa, nell’evo volgare, gioco di parole, rebus verbale, corazza retorica. Dalla Pizia alla Sfinge, dall’oracolo di Delfi all’idolatria della Ragione – Edipo – che sovrasta il Mostro – la Sfinge, che minaccia tramite indovinelli – ma infine si acceca. A chi domina l’evidente sfugge la terribile evidenza della verità.  La mistica: tentativo di sobillare il linguaggio.  Da qui, l’incanutirsi del linguaggio in concetto, in bruma di bizantinismi, nei principi, nell’essere/non-essere, nel vero vs. falso, nella ‘logica delle cose’.  Beata filosofia che tutto insegna tranne il dio, che decide di recidere i rapporti con il dio, per sempre.  Beata teologia: ragionare su Dio perché ci è sfuggito. Cingere in formule l’informe.  Beata divinità logica: la legge ci insegna cosa è bene fare e cosa non bisogna fare; linguaggio come corda, prigione, calcina della società.  Bisogna capirsi – da qui, gli azzeccagarbugli, gli irresponsabili, gli esoteristi del linguaggio massonico, specifico, degli ‘esperti’, potere che scimmiotta il dio; la sentenza: esigua, inerte, becera imitazione dell’oracolo.  Che cosa mi stai dicendo? Perché non mi capisci? Linguaggio: solo scandaglio del cuore – ma non scendiamo nel nostro abisso con la lanterna, a illuminare le beneamate oscurità. Spacchiamo il lume, che si infervori in fuoco. Fuoco-volpe, fuoco muta di cani in corsa.  E la poesia? Ipotesi di linguaggio angelico, ci addestra a spezzare l’ordinaria lingua. Ci addestra all’altro mondo del linguaggio – il solo.  Nel dire di Qoelet, che annienta evidenze e certezze, alla via dell’edonismo – ebbrezza che raddoppia la vanità; cruenta ironia: consumiamo ciò che ci consuma – segue quella dell’obbedienza. Imputridire nel timore di Dio. Lo ripete ancora a sigillo del rotolo: “Paura di Dio, osservanza dei suoi comandi: tutto questo è l’uomo” (12, 13). Yarè è proprio la paura, il terrore di Dio; è riconoscere la propria vergogna, l’insuperabile distanza da Dio. “La tua voce ho udito nel giardino e ho avuto paura perché ero nudo e mi sono nascosto”, dice Adamo a Dio (Gn 3, 10). “Paura di Dio” significa: memoria della caduta. Dalla “paura di Dio” comincia il percorso della salvezza, il rapporto tra Dio e l’uomo – “paura” è, per paradosso, l’anello nuziale tra Dio e uomo – il punto in cui si è sciolto un rapporto e si inaugura un nuovo patto. Mutilazione, massacro, frainteso, finché il Verbo non fonderà un nuovo vocabolario, il Dio ineffabile si farà volto, carne, corpo da abbracciare e deporre, da ungere con olio e fustigare.  Adamo ha paura di Dio perché è nudo – all’uomo è chiesto, fuori dal Giardino, atto di più radicale denudamento, suprema spoliazione.   All’opposto equinozio di Babele: l’arca – Noè – e la culla – Mosè. Spazi in cui rifugiarsi, oggetti che veleggiano sulle acque – ipotesi di nuova creazione. Lingua-arca; lingua-culla. Le tavole dell’alleanza – verbo che si struttura in legge per incapacità di intendere l’oracolo – custodite nell’arca: che ringiovaniscano, che ritornino bimbe. In Eden non c’è legge: si parla come una fioritura. Parole come foglie che sventagliano.  Tra Babele e arca/culla (arca: culla per tutti): il tempio. Il tempio non racchiude Dio, non ne è la gabbia: è luogo d’incontro. Nel tempio posso trovare Dio – o posso perderlo.  Nel tempio si risillabano le antiche parole per invitare Dio all’incontro.  Parole pari alla dipintura dell’icona. Parole-gesto, parole che ricalcano gli stessi gesti, perché Dio appaia. Ma la ripetizione è ricreazione. Chi confida nel ‘nuovo’ è un idolatra, un apostata.  Spogliarci del linguaggio.  L’estrema spoliazione è terribile. Defraudare il Nome per tentare il proprio nome. Farsi arca perché l’altro in noi si sieda.  Dunque: imparare le lingue dei passeri, arcangelici, e quelle della formica, della cimice, del capriolo.  Linguaggio: arte di trasalire – di travalicare.  Dunque: Vanitas vanitatum, farsi vanto della vanità. Vanità-vento. Incenerire tutto perché da quella cenere Dio ci rifondi. Rifilare il vento – rifondare il respiro. ** Da “Qoelet” 9 Nel cuore ho sperimentato questo: le opere dei giusti                                      l’estremismo dei santi                       tutto è tra le dita di Dio l’uomo non sa perché ama ignora il raduno dell’odio Stessa sorte per tutti                 il giusto e il vile                   il puro e l’impuro                   chi fa sacrifici e chi dissacra                   il buono e il peccatore                   chi giura e chi scongiura È male tutto sotto il sole stessa sorte per tutti nel cuore dell’uomo alligna il male follia nei suoi lembi il fine è la morte Speranza tra chi fluttua nella flotta dei vivi: un cane vivo è meglio di un leone morto I vivi sanno di dover morire i morti non sanno nulla privi di salario – memoria tra i sali dell’oblio Ciò che hanno amato i motivi della lotta e della gelosia: tutto è cenere, pericope del lutto per loro non c’è più posto nel mondo arreso al sole Allora: godi e mangia bevi il tuo vino divora i cuori Dio gratifica le tue opere Indossa bianche vesti olio purifichi il tuo capo La vita è vana: glorifica i giorni con la donna che ami unico sconto alla fatica al dolore sigillato dal sole Finché il corpo ti aiuta agisci non c’è opera né sapienza nello Sheol – tutto è insensato tra le ombre dove andrai Così è sotto il sole: non va ai capaci la gara                   la guerra non la vincono i forti                                     il pane non lo morde il santo                                                      la ricchezza non sorride ai geni né agli scaltri la grazia – su ogni cosa è il dominio del caso L’uomo ignora la sua ora come pesci presi tra perfide reti come uccelli intrappolati dai lacci il male migra sui figli dell’uomo – è ovunque Verità sgravata dal sole: Misera città miseri uomini la assedia un re onnipossente aureola di mura Un santo di scarsi natali salva la città ma nessuna memoria lo onora – E mi dico: preferisci la sapienza alla forza – eppure il santo impoverito dal fato è sfottuto – le sue profezie negate Deglutisci con cura le parole del santo ignora le urla di chi alleva viltà Anteponi la sapienza alle armi – ma una breve colpa avvelena un grande bene *Si pubblica per gentile concessione parte dei materiali editi in: “Qoelet. Nella traduzione di S. Arduini, D. Brullo, M. Bontempelli”, De Piante, 2025 *In copertina: Kazimir Malevič, Quadrato rosso, 1915 L'articolo “Su ogni cosa è il dominio del caso”. Vagabondaggi intorno a Qoelet proviene da Pangea.
May 3, 2025 / Pangea
Praticare il sogno a occhi aperti. Julien Gracq contro gli scrittori di oggi
Nella biografia di uno dei primi romanzi, ripidi come un’erta di vento, c’è scritto che “coltiva mimose nel paese natale”. In realtà – per scoscendimento di luce – i suoi eroi, ostinati e desolati, figli di un sussurro, il Varí di Vento largo, ad esempio, vagano tra ulivi che flagellano il cielo. Francesco Biamonti veniva da San Biagio della Cima, alle spalle di Ventimiglia, ha esordito più di quarant’anni fa, ne aveva più di cinquanta, è morto nel 2001. I suoi libri sono rari, per pochi: gli piaceva scollinare nel rancore, era amico di Ennio Morlotti, amava Cézanne, leggeva René Char, ma aveva imparato “la tenuta dello stile… la laboriosità dello stile” da Julien Gracq. Dopo una giovinezza disordinata – piena di città portuali dai nomi immaginari, mi diceva – Biamonti era stato bibliotecario a Ventimiglia: negli occhi aveva una nostalgia pietrificata, ligure, non scevra da una certa scaltrezza. Gracq, nato nel 1910 nella Loira, nelle fotografie ha il viso affilato, duro; è magro e perennemente elegante; il neo appena sopra il labbro e la pettinatura composta confermano l’estro dei perfezionisti, una specie di ansiosa ossessione per il dettaglio. Arrestato a Dunkerque nel 1940, imprigionato in Slesia insieme a Raymond Abellio e a Patrice de La Tour du Pin, è ricordato come “il più individualista, il più anticomunitario di tutti, ferocemente anti-Vichy, retto per lo più da un perpetuo disprezzo”. A Biamonti piaceva Una finestra sul bosco (1958); Julien Gracq esordisce nel 1938 con Nel castello di Argol: un capolavoro, certo, ma editorialmente un disastro (130 copie vendute su 1200 stampate). André Breton, che aveva conosciuto l’autore nel ’39, vide in quel libro l’esito del surrealismo, che si librava – diceva – verso la “chiaroveggenza”. Come tentò di essere comunista – si iscrisse al Parti communiste français nel 1936 – così si forzò di farsi surrealista: ancora nel 1953, una fotografia scattata da Man Ray al Café de la place Blanche lo ritrae insieme a Le groupe surréaliste. Tra gli altri, si riconoscono Max Ernst, Alberto Giacometti, Benjamin Péret; Gracq guarda di lato, perplesso; a quell’epoca il suo destino era già deciso.  In effetti, si era fatto fuori da tutto, da tempo: gli pareva irrilevante, in letteratura, “l’impegno”, una irrisione il “realismo socialista”; in genere, non credeva nelle imprese di gruppo né nell’azione politica (“non è un serio esercizio per la mente”, diceva), preferiva Edgar Allan Poe e Lautréamont a Sartre, adorava Wagner. Fu fedele ad André Breton – d’altronde, era stato il primo a riconoscerlo –, non parteggiò per alcuna avanguardia. Ad ogni modo, a Nadja, l’opera imperitura – ma datata – di Breton, anteponeva Sulle scogliere di marmo di Ernst Jünger. Gracq volle incontrare lo scrittore tedesco: si videro a Parigi, nel ’52; Jünger apprezzava quell’uomo schivo, dai silenzi sconvolgenti, e ancor più i suoi libri, “dopo Marcel Jouhandeau, ha scritto la miglior prosa francese che abbia mai letto”. In realtà, si chiamava Louis Poirier, un nome al limite dell’insignificante: dal 1946 fu impiegato al Lycée Claude-Bernard di Parigi come insegnante di storia e geografia, incarico che mantenne sino alla pensione, nel 1970. Consacrato al sacerdozio dell’arte, mirava a farsi invisibile, mero gioco di verbi e di specchi. Ci riuscì a tal punto da essere considerato, alla sua morte, capitata tre giorni prima del Natale del 2007, “l’ultimo dei classici francesi”.Redigendo una sorta di carta d’identità dei suoi personaggi letterari, ha scritto che “non abitano mai a casa propria”, non se ne conosce il luogo né la data di nascita, praticano il “nottambulismo” e il “sogno ad occhi aperti”.  Sfuggente, radicale, inafferrabile, il ‘tipo’ di Julien Gracq ha un’aristocrazia in Francia – che riguarda, spesso, l’indocile postura dei poeti: Jean Grosjean, Georges Perros, Thierry Metz, ad esempio – che scaturisce dalle scelte, quasi messianiche, di Rimbaud. Il divino, tremendo Rimbaud è stato l’angelo di Gracq durante la scrittura di Libertà grande(pubblicato nel 2021 da L’orma, che in edizioni di pregio ha stampato alcuni grandi libri di Gracq); nel 1954, sulla rivista “Arts”, in un articolo dal titolo Le Dieu Rimbaud, descrive il divo Arthur come “l’uomo che mantiene sempre meravigliosamente le distanze”, che “non ci è mai stato vicino”.  Quanto a Gracq, aveva preso le distanze dal fottio intellettuale francese pochi anni prima, con un pamphlet vertiginoso e violento, La Littérature à l’estomac, stampato nel 1950, tradotto da De Piante nel 2022 come La letteratura da voltastomaco (a cura di Émil Ronìn, con una introduzione di Goffredo Fofi), dopo un passaggio per Theoria nel 1990. Il testo, radioso per livore polemico, scardina il giogo del sistema culturale, dimostrandone l’insensatezza, l’iniquità. In un tempo in cui l’editoria ha come unico fine quello di rimpinzare le masse di libri banali, prodotti da scrittori creati in vitro, estratti “da una serra di coltivazioni forzate”, proni all’intrattenimento, innocui, atti a favorire il sonno dell’audacia, a rimpinzare il “rumore di fondo” nonché la vile acquiescenza sulle proprie convinzioni, palestra per sottomessi e remissivi, la letteratura è scelta monastica, per eversivi e miniatori del verbo. Nell’era delle apparenze e delle apparizioni estemporanee, lo scrittore “ancor prima di avere un talento” deve curare “come si dice, un’immagine esteriore”, deve “esibirsi”, in un contesto in cui la critica è avvilita a “cronaca”, avviluppata nell’ebetudine. La ‘forma’ imposta da Julien Gracq al pamphlet – livida, refrattaria alla facilità, con l’indole del predatore – garantisce un’esuberanza corrusca che va ben al di là dell’‘attuale’ (a tutti è ormai noto che i premi premiano i soliti noti e che un sistema editoriale schiavo delle classifiche di vendita è destinato a produrre libri senza lignaggio, per lo più noiosi).  Il pamphlet infuocò fatue polemiche; di fatto, in molti perdonarono a Gracq l’eccentricità da virtuoso avvelenato. L’anno dopo, nel ’51, gli assegnarono il Goncourt per La riva delle Sirti, il libro più bello. Non attendeva altro: rifiutò. Tra le molte cose, Gracq disprezzava il piagnisteo, la litania degli eterni incompresi. La letteratura da voltastomaco è, in effetti, il referto di una lotta.  L'articolo Praticare il sogno a occhi aperti. Julien Gracq contro gli scrittori di oggi proviene da Pangea.
March 24, 2025 / Pangea