Non occorre manomettere un testo tanto perentorio, ci si inoltri in un versetto,
si costruisca un cantuccio nei suoi meandri. Scelgo il primo versetto del
capitolo 5; questa è traduzione alla lettera:
> “Non affrettare la bocca, non precipitare il cuore a eruttare parola davanti a
> Dio, perché Dio è in cielo e tu in terra: perciò siano rade le tue parole”.
Intanto: si parla a Dio con la bocca (peh) e con il cuore (leb). Esteriore e
interiore debbono combaciare. Il cuore ha porte e ha bocche; la bocca sia la
brocca del cuore.
Il punto è per sempre quello: come si parla a Dio? Qual è la parola che permette
udienza da parte di Dio? Se è vero che ciò che chiediamo ci sarà dato, come
chiedere? Qual è il linguaggio di Dio?
Poche parole, dice Qoelet, scarsità di verbo, fare del vocabolo umano deserto.
Cosa scarsa, scarna: parola-ostia, parola-briciola.
Qoelet è libro dell’asserzione assoluta – è un libro all’assalto. Così breve
– siano rade le tue parole: parola rase al suolo, cioè: rare – da infuocare
l’intero Testo. La frustrante ripetizione di tutte le cose – stagioni; creature;
fatti – testimonia che l’uomo è poca cosa, ombra che fugge, erba che sorge al
mattino perché sia tagliata a sera. A tutti – saggi come stolti, potenti come
poveri – è assegnata la stessa sorte: morte. Per ogni creatura – uomo o cane che
sia – è apparecchiata la stessa meta: Sheol, il regno degli spettri. Dio ci ha
insufflato l’anima, a Lui va resa – rasa. Al ricco sarà tolto ciò che ha, il
povero sarà depredato perfino di ciò che manca. Con metodica crudeltà Qoelet
elimina ogni certezza: in fondo, Dio equivale al Caos.
Corroborante è questa certezza del nulla: ci permette tutto – l’antinomismo è a
un passo.
Eppure, esiste lo spiraglio. Poche parole bastano a sfigurare la distanza tra la
terra e il cielo, ad avvicinare il Dio mai così distante dall’uomo (ma lo è pure
il Cristo, a intendere le stimmate più abissali di ogni mai pensato Sheol, la
Croce più ineffabile di ogni Babele mai costruita).
Già. Ma… quali parole?
“Per te il silenzio è lode”, dice il Salmo 65. Dumiyyah: silenzio, attesa in
quiete. Veglia silente.
Che cos’è questa preghiera silenziosa, di rade parola, che non si affretta, che
è in perenne veglia?
Forse è la preghiera che ossessionava il pellegrino russo, sconvolto dall’invito
che Paolo fa ai Tessalonicesi: “pregate ininterrottamente” (5, 17). Quali sono
le “rade parole” che permettono la preghiera senza interruzioni? Secondo la
tradizione cristiana, in particolare ortodossa, tali parole sono raccolte, in
simbolo, nella cosiddetta “Preghiera del Cuore”, mutuata dal Vangelo di Luca
(18, 13): “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!”
(Κύριε ἸησοῦΧριστέ, Υἱὲ τοῦ Θεοῦ, ἐλέησόν με τὸν ἁμαρτωλόν).
Rade, rare parole che non costringono Dio all’ascolto, ma aprono il nostro corpo
– petto/orecchio; costato/occhio – ad ascoltare ciò che Dio ci dice. Preghiera
da sussurrare di continuo per conferire un’aura al nostro fare, per illuminare
l’opera. Parola che inchiavarda il cielo alla terra.
Il versetto di Qoelet, tuttavia, continua in questo modo:
> “…perché arriva il sogno dalla troppa attività, il dire del vile dalle troppe
> parole”.
Chi parla troppo è un cretino (kesil), uno stolto, un seguace del gregge. Si
ostina al discorso – il logos greco –, inutile a incatenare Dio. Il discorso,
vanto dei filosofi, rimarca Babele: il linguaggio che doveva unire Dio all’uomo
ha sancito irremovibile divario. La parola umana non sfiora l’Impronunciabile;
per giungere a Dio bisogna percorrere l’aldilà del linguaggio – le “lingue degli
angeli”, la “glossolalia”, lingua-fiamma – come fanno i poeti, o essere da Lui
invasati, invasi come accade ai profeti. Non si dà Dio in lingua umana, capace
di sondare l’evidente, inabile al cospetto dell’invisibile. Per dirla come Lev
Šestov,
> “Dio non è dimostrabile. Non si può cercare Dio nella storia. Egli è il
> ‘capriccio’ incarnato, che respinge ogni garanzia”.
Il sogno (chalom), qui, è agli antipodi della veglia, non impreziosisce la vita
ma la svia, la inselvatica in un roveto di sinistri segni. Il sogno – che pure
ha parte nella storia della salvezza: si guardi alla storia di Giuseppe, che i
sogni dissigilla – è da Qoèlet deprezzato a segno della vita australe a Dio:
nell’esatto dire, hahalowm consuona con haelohim, Dio, appunto, nella sua più
neutra accezione, il dio moltiplicato in dèi. I sogni creano dèi, ci
imbambolano, inibiscono la via a Dio, sono la controfigura dell’idolo. In questo
caso, il sogno è in contrasto con il detto (neum) e l’oracolo (massà) che Dio
concede al profeta: analoga differenza tra miraggio e miracolo, tra negromante
ed eletto, tra mistagogo e vagabondo del mistero.
Il pensiero è estremizzato nel versetto 6:
> “…nella folla dei sogni è vanità come nelle troppe parole: perciò ti
> impaurisca Dio”.
Troppe parole intrappolano, bocca che tarpa la levità del cuore (ormai sede del
male: “pieno di male il cuore dei figli dell’uomo”, dice Qoèlet, 9, 3, ripetendo
l’originaria asserzione di Dio: “ogni intento del cuore umano è incline al
male”, Gn8, 21). I sogni: meri preamboli di nebbia, come il discorso umano.
Desto o addormentato, l’uomo vaga tra vanità: la mania del calcolo –
circoscrivere in numeri la realtà – è pari al delirio di chi divina i segni
tratti dal sonno, declivio nelle inconsistenze dell’incubo. Sembra di udire
Eraclito: “È la medesima realtà il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il
giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli, e quelli di nuovo
mutando son questi”.
Eppure, ancora. Come si parla a Dio, come parla il dio?
Il verbo umano fermenta idoli, eccelle nell’ideare miraggi. Ci è voluto il Verbo
– inchiodato come una falena, flagellato fino all’omega, franto e frainteso –
per distruggere il vocabolario. Vocabolario: ghigliottina dell’uomo – formulario
di inganni.
> “Nella parola si manifesta all’uomo la sapienza del dio, e la forma, l’ordine,
> il nesso in cui si presentano le parole rivela che non si tratta di parole
> umane, bensì di parole divine. Di qui il carattere esteriore dell’oracolo:
> l’ambiguità, l’oscurità, l’allusività ardua da decifrare, l’incertezza”.
>
> (Giorgio Colli, La nascita della filosofia).
Così, nel mondo greco classico: deragliare del linguaggio, delirare, singulti
sul bavero della bestia, lacerti quasi increati di verbo, diverbio, animosità
dell’amnio verbale. Da qui – come ai primordi dell’avventura cristiana – il
carisma del ‘traduttore’: uomo capace di interpretare, trasformandola in gergo
umano, la lingua divina.
Dunque, nel mondo greco, la divinizzazione dell’enigma, “la manifestazione nella
parola di ciò che è divino, nascosto, un’interiorità indicibile” (Colli), che si
sfa, nell’evo volgare, gioco di parole, rebus verbale, corazza retorica. Dalla
Pizia alla Sfinge, dall’oracolo di Delfi all’idolatria della Ragione – Edipo –
che sovrasta il Mostro – la Sfinge, che minaccia tramite indovinelli – ma infine
si acceca. A chi domina l’evidente sfugge la terribile evidenza della verità.
La mistica: tentativo di sobillare il linguaggio.
Da qui, l’incanutirsi del linguaggio in concetto, in bruma di bizantinismi, nei
principi, nell’essere/non-essere, nel vero vs. falso, nella ‘logica delle
cose’.
Beata filosofia che tutto insegna tranne il dio, che decide di recidere i
rapporti con il dio, per sempre.
Beata teologia: ragionare su Dio perché ci è sfuggito. Cingere in formule
l’informe.
Beata divinità logica: la legge ci insegna cosa è bene fare e cosa non bisogna
fare; linguaggio come corda, prigione, calcina della società.
Bisogna capirsi – da qui, gli azzeccagarbugli, gli irresponsabili, gli
esoteristi del linguaggio massonico, specifico, degli ‘esperti’, potere che
scimmiotta il dio; la sentenza: esigua, inerte, becera imitazione dell’oracolo.
Che cosa mi stai dicendo? Perché non mi capisci?
Linguaggio: solo scandaglio del cuore – ma non scendiamo nel nostro abisso con
la lanterna, a illuminare le beneamate oscurità. Spacchiamo il lume, che si
infervori in fuoco. Fuoco-volpe, fuoco muta di cani in corsa.
E la poesia? Ipotesi di linguaggio angelico, ci addestra a spezzare l’ordinaria
lingua. Ci addestra all’altro mondo del linguaggio – il solo.
Nel dire di Qoelet, che annienta evidenze e certezze, alla via dell’edonismo –
ebbrezza che raddoppia la vanità; cruenta ironia: consumiamo ciò che ci consuma
– segue quella dell’obbedienza. Imputridire nel timore di Dio. Lo ripete ancora
a sigillo del rotolo: “Paura di Dio, osservanza dei suoi comandi: tutto questo è
l’uomo” (12, 13). Yarè è proprio la paura, il terrore di Dio; è riconoscere la
propria vergogna, l’insuperabile distanza da Dio. “La tua voce ho udito nel
giardino e ho avuto paura perché ero nudo e mi sono nascosto”, dice Adamo a Dio
(Gn 3, 10). “Paura di Dio” significa: memoria della caduta. Dalla “paura di Dio”
comincia il percorso della salvezza, il rapporto tra Dio e l’uomo – “paura” è,
per paradosso, l’anello nuziale tra Dio e uomo – il punto in cui si è sciolto un
rapporto e si inaugura un nuovo patto. Mutilazione, massacro, frainteso, finché
il Verbo non fonderà un nuovo vocabolario, il Dio ineffabile si farà volto,
carne, corpo da abbracciare e deporre, da ungere con olio e fustigare.
Adamo ha paura di Dio perché è nudo – all’uomo è chiesto, fuori dal Giardino,
atto di più radicale denudamento, suprema spoliazione.
All’opposto equinozio di Babele: l’arca – Noè – e la culla – Mosè. Spazi in cui
rifugiarsi, oggetti che veleggiano sulle acque – ipotesi di nuova creazione.
Lingua-arca; lingua-culla. Le tavole dell’alleanza – verbo che si struttura in
legge per incapacità di intendere l’oracolo – custodite nell’arca: che
ringiovaniscano, che ritornino bimbe. In Eden non c’è legge: si parla come una
fioritura. Parole come foglie che sventagliano.
Tra Babele e arca/culla (arca: culla per tutti): il tempio. Il tempio non
racchiude Dio, non ne è la gabbia: è luogo d’incontro. Nel tempio posso trovare
Dio – o posso perderlo.
Nel tempio si risillabano le antiche parole per invitare Dio all’incontro.
Parole pari alla dipintura dell’icona. Parole-gesto, parole che ricalcano gli
stessi gesti, perché Dio appaia. Ma la ripetizione è ricreazione. Chi confida
nel ‘nuovo’ è un idolatra, un apostata.
Spogliarci del linguaggio.
L’estrema spoliazione è terribile. Defraudare il Nome per tentare il proprio
nome. Farsi arca perché l’altro in noi si sieda.
Dunque: imparare le lingue dei passeri, arcangelici, e quelle della formica,
della cimice, del capriolo.
Linguaggio: arte di trasalire – di travalicare.
Dunque: Vanitas vanitatum, farsi vanto della vanità. Vanità-vento. Incenerire
tutto perché da quella cenere Dio ci rifondi. Rifilare il vento – rifondare il
respiro.
**
Da “Qoelet”
9
Nel cuore ho sperimentato questo:
le opere dei giusti
l’estremismo dei santi
tutto è tra le dita di Dio
l’uomo non sa perché ama
ignora il raduno dell’odio
Stessa sorte per tutti
il giusto e il vile
il puro e l’impuro
chi fa sacrifici e chi dissacra
il buono e il peccatore
chi giura e chi scongiura
È male tutto
sotto il sole
stessa sorte
per tutti
nel cuore dell’uomo
alligna il male
follia nei suoi lembi
il fine è la morte
Speranza tra chi fluttua
nella flotta dei vivi:
un cane vivo è meglio
di un leone morto
I vivi sanno di dover morire
i morti non sanno nulla
privi di salario – memoria
tra i sali dell’oblio
Ciò che hanno amato
i motivi della lotta
e della gelosia: tutto
è cenere, pericope del lutto
per loro non c’è più posto
nel mondo arreso al sole
Allora:
godi e mangia
bevi il tuo vino
divora i cuori
Dio gratifica
le tue opere
Indossa bianche vesti
olio purifichi il tuo capo
La vita è vana: glorifica
i giorni con la donna che ami
unico sconto alla fatica
al dolore sigillato dal sole
Finché il corpo ti aiuta agisci
non c’è opera né sapienza
nello Sheol – tutto è insensato
tra le ombre dove andrai
Così è sotto il sole:
non va ai capaci la gara
la guerra non la vincono i forti
il pane non lo morde il santo
la ricchezza non sorride ai
geni
né agli scaltri la grazia –
su ogni cosa è il dominio del caso
L’uomo ignora la sua ora
come pesci presi tra perfide reti
come uccelli intrappolati dai lacci
il male migra sui figli dell’uomo – è ovunque
Verità sgravata dal sole:
Misera città
miseri uomini
la assedia un re
onnipossente
aureola di mura
Un santo di scarsi natali
salva la città ma nessuna
memoria lo onora –
E mi dico:
preferisci la sapienza
alla forza – eppure
il santo impoverito dal fato
è sfottuto – le sue
profezie negate
Deglutisci con cura
le parole del santo
ignora le urla
di chi alleva viltà
Anteponi la sapienza
alle armi – ma una
breve colpa avvelena
un grande bene
*Si pubblica per gentile concessione parte dei materiali editi in: “Qoelet.
Nella traduzione di S. Arduini, D. Brullo, M. Bontempelli”, De Piante, 2025
*In copertina: Kazimir Malevič, Quadrato rosso, 1915
L'articolo “Su ogni cosa è il dominio del caso”. Vagabondaggi intorno a Qoelet
proviene da Pangea.
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Nella biografia di uno dei primi romanzi, ripidi come un’erta di vento, c’è
scritto che “coltiva mimose nel paese natale”. In realtà – per scoscendimento di
luce – i suoi eroi, ostinati e desolati, figli di un sussurro, il Varí di Vento
largo, ad esempio, vagano tra ulivi che flagellano il cielo. Francesco Biamonti
veniva da San Biagio della Cima, alle spalle di Ventimiglia, ha esordito più di
quarant’anni fa, ne aveva più di cinquanta, è morto nel 2001. I suoi libri sono
rari, per pochi: gli piaceva scollinare nel rancore, era amico di Ennio
Morlotti, amava Cézanne, leggeva René Char, ma aveva imparato “la tenuta dello
stile… la laboriosità dello stile” da Julien Gracq.
Dopo una giovinezza disordinata – piena di città portuali dai nomi immaginari,
mi diceva – Biamonti era stato bibliotecario a Ventimiglia: negli occhi aveva
una nostalgia pietrificata, ligure, non scevra da una certa scaltrezza. Gracq,
nato nel 1910 nella Loira, nelle fotografie ha il viso affilato, duro; è magro e
perennemente elegante; il neo appena sopra il labbro e la pettinatura composta
confermano l’estro dei perfezionisti, una specie di ansiosa ossessione per il
dettaglio. Arrestato a Dunkerque nel 1940, imprigionato in Slesia insieme a
Raymond Abellio e a Patrice de La Tour du Pin, è ricordato come “il più
individualista, il più anticomunitario di tutti, ferocemente anti-Vichy, retto
per lo più da un perpetuo disprezzo”. A Biamonti piaceva Una finestra sul
bosco (1958); Julien Gracq esordisce nel 1938 con Nel castello di Argol: un
capolavoro, certo, ma editorialmente un disastro (130 copie vendute su 1200
stampate). André Breton, che aveva conosciuto l’autore nel ’39, vide in quel
libro l’esito del surrealismo, che si librava – diceva – verso la
“chiaroveggenza”. Come tentò di essere comunista – si iscrisse al Parti
communiste français nel 1936 – così si forzò di farsi surrealista: ancora nel
1953, una fotografia scattata da Man Ray al Café de la place Blanche lo ritrae
insieme a Le groupe surréaliste. Tra gli altri, si riconoscono Max Ernst,
Alberto Giacometti, Benjamin Péret; Gracq guarda di lato, perplesso; a
quell’epoca il suo destino era già deciso.
In effetti, si era fatto fuori da tutto, da tempo: gli pareva irrilevante, in
letteratura, “l’impegno”, una irrisione il “realismo socialista”; in genere, non
credeva nelle imprese di gruppo né nell’azione politica (“non è un serio
esercizio per la mente”, diceva), preferiva Edgar Allan Poe e Lautréamont a
Sartre, adorava Wagner. Fu fedele ad André Breton – d’altronde, era stato il
primo a riconoscerlo –, non parteggiò per alcuna avanguardia. Ad ogni modo,
a Nadja, l’opera imperitura – ma datata – di Breton, anteponeva Sulle scogliere
di marmo di Ernst Jünger. Gracq volle incontrare lo scrittore tedesco: si videro
a Parigi, nel ’52; Jünger apprezzava quell’uomo schivo, dai silenzi
sconvolgenti, e ancor più i suoi libri, “dopo Marcel Jouhandeau, ha scritto la
miglior prosa francese che abbia mai letto”.
In realtà, si chiamava Louis Poirier, un nome al limite dell’insignificante: dal
1946 fu impiegato al Lycée Claude-Bernard di Parigi come insegnante di storia e
geografia, incarico che mantenne sino alla pensione, nel 1970. Consacrato al
sacerdozio dell’arte, mirava a farsi invisibile, mero gioco di verbi e di
specchi. Ci riuscì a tal punto da essere considerato, alla sua morte, capitata
tre giorni prima del Natale del 2007, “l’ultimo dei classici francesi”.Redigendo
una sorta di carta d’identità dei suoi personaggi letterari, ha scritto che “non
abitano mai a casa propria”, non se ne conosce il luogo né la data di nascita,
praticano il “nottambulismo” e il “sogno ad occhi aperti”.
Sfuggente, radicale, inafferrabile, il ‘tipo’ di Julien Gracq ha un’aristocrazia
in Francia – che riguarda, spesso, l’indocile postura dei poeti: Jean Grosjean,
Georges Perros, Thierry Metz, ad esempio – che scaturisce dalle scelte, quasi
messianiche, di Rimbaud. Il divino, tremendo Rimbaud è stato l’angelo di Gracq
durante la scrittura di Libertà grande(pubblicato nel 2021 da L’orma, che in
edizioni di pregio ha stampato alcuni grandi libri di Gracq); nel 1954, sulla
rivista “Arts”, in un articolo dal titolo Le Dieu Rimbaud, descrive il divo
Arthur come “l’uomo che mantiene sempre meravigliosamente le distanze”, che “non
ci è mai stato vicino”.
Quanto a Gracq, aveva preso le distanze dal fottio intellettuale francese pochi
anni prima, con un pamphlet vertiginoso e violento, La Littérature à l’estomac,
stampato nel 1950, tradotto da De Piante nel 2022 come La letteratura da
voltastomaco (a cura di Émil Ronìn, con una introduzione di Goffredo Fofi), dopo
un passaggio per Theoria nel 1990. Il testo, radioso per livore polemico,
scardina il giogo del sistema culturale, dimostrandone l’insensatezza,
l’iniquità. In un tempo in cui l’editoria ha come unico fine quello di
rimpinzare le masse di libri banali, prodotti da scrittori creati in vitro,
estratti “da una serra di coltivazioni forzate”, proni all’intrattenimento,
innocui, atti a favorire il sonno dell’audacia, a rimpinzare il “rumore di
fondo” nonché la vile acquiescenza sulle proprie convinzioni, palestra per
sottomessi e remissivi, la letteratura è scelta monastica, per eversivi e
miniatori del verbo. Nell’era delle apparenze e delle apparizioni estemporanee,
lo scrittore “ancor prima di avere un talento” deve curare “come si dice,
un’immagine esteriore”, deve “esibirsi”, in un contesto in cui la critica è
avvilita a “cronaca”, avviluppata nell’ebetudine. La ‘forma’ imposta da Julien
Gracq al pamphlet – livida, refrattaria alla facilità, con l’indole del
predatore – garantisce un’esuberanza corrusca che va ben al di là dell’‘attuale’
(a tutti è ormai noto che i premi premiano i soliti noti e che un sistema
editoriale schiavo delle classifiche di vendita è destinato a produrre libri
senza lignaggio, per lo più noiosi).
Il pamphlet infuocò fatue polemiche; di fatto, in molti perdonarono a Gracq
l’eccentricità da virtuoso avvelenato. L’anno dopo, nel ’51, gli assegnarono il
Goncourt per La riva delle Sirti, il libro più bello. Non attendeva altro:
rifiutò. Tra le molte cose, Gracq disprezzava il piagnisteo, la litania degli
eterni incompresi. La letteratura da voltastomaco è, in effetti, il referto di
una lotta.
L'articolo Praticare il sogno a occhi aperti. Julien Gracq contro gli scrittori
di oggi proviene da Pangea.