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“Conoscevano i segreti delle erbe, delle piante, degli animali, dei sassi, leggevano nelle stelle”
Il poeta presiede all’identità di un luogo.  Potremmo dire che un luogo esiste in virtù del canto del poeta.  Quando quel canto si perde, da quei luoghi fuggono gli dèi e i negromanti; quei luoghi tornano anonimi, legati, semmai, a qualche catena di parentele – che come ogni altra cosa, prima o poi si slegherà – a qualche circostanza ‘paesaggistica’, fotografica. The nymphs are departed, cantava Eliot sulla sua rovinosa arpa: il Tamigi scorre dolce, trascinando “bottiglie vuote, carte da sandwich… cicche di sigarette”; al posto dei fauni corrono, fatui, i ben agghindati banchieri della City, in brigata.  * Soltanto il canto dispiega i nomi, ne dice – celandolo – il segreto. E quel nome – cioè: quel fiume e quella valle, quel bosco e quella particolare rocca, quella particola fonte – splende, imperituro, imperiale, nostro. Se perdiamo il canto, siamo dispersi al mondo. L’arte, allora – o ciò che ne resta – non è che implorazione e lamento, peana malinconico, reprimenda, semmai, inerte trama di marce vocali. Gli artisti – non più poeti, non più aedi – si rinnovano nei ricami del lacchè, dei mestieranti del sé. Diventano esperti, sono professionisti – mentre l’incanto e l’inesprimibile cerca gli ingenui e i dilettanti; chi, vuoto di sé, sappia davvero incaricarsi dell’altro, invasarsi di altro. L’angelo, allora, non grida più dalle pareti delle più inerpicate pievi; il dio non scende più dalla volta celeste, non scoscende come un acquazzone, in corsa – i lupi, i licaoni e gli stambecchi non corrispondono più al canto – il poeta ha smesso di essere falco e erba, cicala e serpe.  * In un dialogo privato, Rosita Copioli, poetessa, studiosa di William Butler Yeats e del misticismo irlandese, mi ha introdotto alla figura dell’ollam. Nella cultura d’Irlanda, l’ollam ha un ruolo diverso dal bardo, dall’aedo, dal poeta di corte: egli serba i canti che riformulano il mondo. L’ollam è il garante del re, in quanto mediatore dei poteri superni. L’ollam somma in sé la statura del bardo e la sapienza del druido: il suo addestramento è un destino, al ruolo si è avviati per lignaggio. Quando un ollam sceglie di farsi morire perché un re gli ha mancato di rispetto, si siede sulla soglia del castello e digiuna. Alla morte dell’ollam segue, necessariamente, quella del re: la legge terrena è officiata dal canto celeste.  Tutti conosciamo la storia di Eraclito, tramandata da Diogene Laerzio. Il pensatore oscuro, artefice di enigmi, capace di penetrare nelle angustie del linguaggio – avrà un eletto discepolo nel poeta francese René Char – è preteso dagli abitanti di Efeso, la sua città. Alla richiesta di plasmare per loro la costituzione, Eraclito si indigna, preferisce ritirarsi all’ombra del tempio di Artemide e giocare a dadi con i bambini. Infine, sceglie l’ascesi tra i boschi, si imbestia, dimentico di sé, a quattro zampe, seguace delle belve notturne.  * Alla poesia incantatoria seguirà il poema cavalleresco, che reca diletto ai principi in stanze corredate di orsi impagliati e impigliati falchi, contorno di Titani alle pareti, di nubi e forre ricche di satiri. Nelle sale dei re rivive il selvatico e la selva, ormai dragato dall’ingegno umano, che relega le ninfe a ninfette, le sirene a pin up, i duelli all’arma bianca, sotto lo stemma del fato, a stermini di massa. L’azione fine a se stessa si volge in azienda, il ‘bel gesto’, connaturato al cavaliere, stinge in spiccio utilitarismo. La fiaba reca ancora, sigillato, il segreto di un mondo fatato e fatale; il motto e l’adagio popolare serbano dell’antico poema cosmico la lisca, l’estrema esca.  Carlo Fornara, Da una leggenda alpina, 1902 * Forse è per l’ancestrale potere degli ollamain che in Irlanda il poeta è tenuto in alto onore: è ancora lui a onorare i nomi delle valli, dei fiumi, dei brutali bastioni. Un’amicizia si stringe sotto il fuoco del poeta. In Inghilterra un valore simile ha il “Poet Laureate”: l’incarico (mutuato dall’alloro poetico conferito in Italia, tra l’altro, a Petrarca), di eminenza ‘politica’ (a investire il poeta è il Primo ministro in carica e il sovrano, non una combine di intellettuale né un club di letterati), dura dieci anni. Un tempo – fino al 1999 – era un compito da percorrere a vita, ora è qualcosa di simile al ‘servizio di Stato’. Il primo poeta laureato fu John Dryden, incoronato nel 1668. L’esercizio, dicevo, è ‘politico’: il poeta si fa – secondo il proprio insindacabile, ingiustificabile estro – portavoce dell’identità della nazione.  Il poeta laureato inglese di maggior talento, Ted Hughes, trafficava con gli oroscopi, ha dedicato il suo libro più bello al corvo, l’uccello psicopompo, si ritirava nello Yorkshire a scrivere e a cacciare. Non è un caso che abbia tradotto Eschilo, tra i tragici il più grave di sacro. In una intervista del 1971, rilasciata al “London Magazine”, Hughes anela al ritorno del poeta-sciamano: “Il Bardo Thodol è un volo sciamanico, con ritorno. Il buddismo tibetano è influenzato enormemente dallo sciamanesimo. Il potere occulto che emana la cultura tibetana proviene dal substrato sciamanico più che dal buddismo. Lo sciamanesimo si concentra sull’attività di uno stregone, un uomo di medicina, presso le genti primordiali. L’individuo è evocato da certi sogni. Gli stessi sogni in tutto il mondo. Uno spirito lo chiama… di solito un animale o una donna. Se egli rifiuta la chiamata, muore… o muore uno che gli è accanto. Se accetta, si predispone al lavoro, ci vogliono anni… Di solito si apprende l’arte da un altro sciamano, ma lo spirito può dare insegnamenti diretti. Una volta educato, può entrare in trance a suo piacimento e varcare il mondo degli spiriti… Lo stesso schema lo troviamo in migliaia di racconti popolari e di miti. L’Odissea, la Divina Commedia, Faust… Come può un poeta tornare stregone e volare alla fonte, saper guarire e pronunciare oracoli?”. * Nella prima delle Leggende delle Alpi Lepontine catalogate e riscritte con garbo da Aurelio Garobbio (ora stampate dall’Associazione culturale Terra Insubre per tramite di De Piante Editore), Il drago di Sesto Calende, si dice di un pescatore che d’improvviso partecipa ai misteri della terra e del cielo. “L’uomo sentì dentro di sé un che di immenso nel quale gli parve naufragare”. Al di là della eco leopardiana, è proprio questa, frugale, lignea, l’esperienza sciamanica: cogliere i colloqui tra “acqua terra cielo”. Il poeta ascolta, si fa da parte – inscrive se stesso e i suoi in un luogo. Digging, direbbe Seamus Heaney, il grande poeta irlandese – scavando.  * Nelle leggende registrate da Garobbio ci sono le ninfe di lago: sono nella Valle Isorno, una delle valli dell’Ossola; sguazzano nel Matogno, a poco più di duemila metri. Attraggono a sé i viandanti, il loro fare ricorda quello delle Sirene:  > “Sono creature amorose ed attirano i giovani cantando. L’incauto che udendole > s’avvicina alle rive, difficilmente riesce a sottrarsi a tanto fascino; esse > lo invitano mostrandosi dalle ginocchia in su. Chi mette un piede nell’acqua > più non si libera dall’incantesimo e le segue immergendosi pian piano, come > esse si immergono, scomparendo nei flutti in un abbraccio che non ha fine”.  C’è qualcosa di liberty in queste donne che all’ardore omerico uniscono le ambiguità dei ritratti di Klimt.  “Tra i ghiacciai del Rosa”, invece, si apre “una misteriosa isola verde”, specie di Eden di ubertose terre, a contrasto con le gelide lande. Sembra di rileggere il mito tibetano di Śambhala, di varcare la prodigiosa città di Shangri-la, conficcata in un luogo segreto, a nord del Ladakh. In quel luogo – che è poi un varco tra i mondi, è un luogo simbolico – il viandante accede a un’armonia perduta, impara il linguaggio delle bestie:  > “Per tre settimane egli resta nella valle fatata, in mezzo agli animali che > più non fuggono dinanzi a lui, e vive la loro vita imparando il loro > linguaggio. Ode suoni mai uditi e vede cose che sempre sfuggirono al suo > occhio acutissimo, apprende mille segreti penetrando nell’armonia del > creato”.  È una sorta di quarantena al contrario, questa, di ventuno giorni: l’uomo ritorna Adamo e Mowgli, puer eterno che doma le fiere e ascolta i sussurri degli alberi.  Al ghiacciaio del Belvedere, presso Macugnaga, dimora invece la Fata Bianca: naturalmente, è agli umani precluso il suo “volto fulgente”. Secondo il mito classico – Atteone, mutato in cervo dopo aver scorto Artemide nuda – e il monito biblico – “Mosè si coprì il volto, aveva paura di guardare verso Dio”, Es 3, 6 – la vista del divino è vietata all’uomo, pena la cecità e la morte: “gli occhi umani non resistono a quel celestiale splendore”. D’altronde, se si è ciechi a se stessi è per eguale ragione: terrore provoca sondare il mostro che si agita nel nostro cuore. Meglio ignorarlo – e che lui, ingordo, ci divori da dentro. Rinnegare se stessi, cioè: disertarsi, essere di sé il bandito, bandire razzia all’ego. Così, vuoti, potremo fare altare dell’Altro.  * Da bambino, volevo conquistare il monte Zeda. Forse per quel nome, definitivo. Più tardi, avrei associato lo Zeda a Zembla, l’immaginaria regione dei ghiacci inventata da Vladimir Nabokov in Fuoco pallido, romanzo impossibile che ruota attorno a un poema, un’eredità, una filigrana di magie. Zembla è mutuato, credo, da Novaja Zemlja, l’inaccessibile arcipelago russo che perfora il Mar Glaciale Artico. Vi domina l’orso polare e la volpe bianca – fu un’importante base nucleare sovietica.  Anselm Kiefer, Voglio vedere le mie montagne – für Giovanni Segantini, 2013 Lo Zeda svetta in Val Grande. Da bambino, si partiva verso il Rifugio Pian Cavallone da Miazzina o da Comero. Si passava lì la notte – le stelle, agnelline, belavano – i pascoli pieni di mirtilli. Lo Zeda – poco più di duemila metri – mi fissava, come un selvaggio con l’arco a tracolla. L’ho sognato più volte – come fosse il mio Himalaya personale, un Everest da taschino. Garobbio scrive dello Zeda in un racconto che s’intitola Il pastore malvagio; come sempre, è capace nel pennello, pare un Segantini:  > “In alto stanno i pascoli del monte Zeda, e da lontano sembrano velluto, > soffici come sono all’occhio che riposato li percorre digradando lungo pendici > e sostando su ripiani e pianori. L’aria risuona del martellante scampanio > delle mandrie; in qualche anfratto gli ultimi rododendri segnano rosse > pennellate”. Nel sentiero che dal rifugio porta allo Zeda, si spalanca, dopo un po’, una cella. Vi è dipinto, in modo rudimentale, un angelo che schiaccia la serpe, il demonio. La serpe si diparte in un cespuglio di corpi che sibilano; l’angelo ha il volto camuffato, ha un volto da lupo. Le ali, appese alla meglio, sembrano chiese in prestito da un airone. Lo zio mi diceva che lì abitava il monaco dello Zeda. Figura per lo più leggendaria, non apparteneva, nel suo appartarsi al mondo, ad alcun ordine monastico costituito. Vagabondava con una Bibbia in mano, come l’antico pellegrino russo, di tutto spoglio, di nulla manchevole. Dicono sapesse mutarsi in cervo; dicono sapesse curare chi era preda, su quel suolo di ingannevoli pietre, di un incidente; morso di vipera non ne intaccava il nerbo. Dicono che le stelle lo seguissero, a notte, come cani. Sognavo di vivere quella stessa vita – lo dicono altissimo, bianchissimo, purificato dal gelo – a metà tra l’eremita e il licaone.   * Quando racconta degli strani abitanti nei pressi di Dongio, in Canton Ticino, Garobbio scrive che costoro “conoscevano i segreti delle erbe, delle piante, degli animali, dei sassi, leggevano nelle stelle, adoravano il sole e la luna e forse vedevano al di là delle cose visibili”. Dimoravano presso pareti vertiginose, vivendo secondo la formula degli antichi cenacoli: dai pitagorici ai Terapeuti, dai seguaci di Orfeo agli Esseni, agli pneumatici confitti nelle meteore dell’Athos. A quello stadio, il canto non conta più: si vive nell’incanto. Il poeta non ha più peso né senso perché si è tutti poeti e la profezia è ormai realizzata. Non esiste legge né loggia, mio o tuo, bene o male – tutto, semplicemente, è.    *In copertina: Giovanni Segantini, Il castigo delle lussuriose, 1891 L'articolo “Conoscevano i segreti delle erbe, delle piante, degli animali, dei sassi, leggevano nelle stelle” proviene da Pangea.
July 21, 2025 / Pangea
“La lampada cammina, le ombre parlano”. Bogoraz e gli incantesimi dei Ciukci
Si trasformò da arguto rivoluzionario a “Robinson polare”. Nato Natan Mandelevich Bogoraz a Ovruč, attuale Ucraina, da famiglia colta ebraica, voltò il nome in Vladimir dopo essersi convertito al cristianesimo, firmava i suoi libri “Tan”. Come se il suo nome fosse il suono di un tamburo, un richiamo dai primordi d’Oriente. Agli studi di legge a San Pietroburgo, Vladimir alternava l’attività rivoluzionaria nei gangli dell’organizzazione antizarista e sovversiva “Narodnaja volja”. Arrestato nel 1886, poco più ventenne, fu spedito in Siberia, presso la Kolyma, in Jacuzia, area dei futuri campi stalinista, luogo d’orrore reso leggenda nei memorabili Racconti della Kolyma di Varlam Šalamov. La reclusione e l’esilio nell’Estremo Oriente russo cambiarono la vita di Vladimir Bogoraz. Fu affascinato dalla popolazione autoctona dei Ciukci: tribù di pescatori, di cacciatori e allevatori di renne, veneravano l’orso, vivevano in tende vaste come ville, si muovevano in kayak o su slitta. Sapevano addestrare il cane e la renna alla briglia. Erano riusciti a tradurre un luogo inospitale in una terra fertile di ‘segni’; perfino la più infima ombra, ai loro occhi, era viva: > “La lampada ha le zampe, cammina. Le pareti della tenda hanno voci > proprie…  le ombre sul muro costituiscono tribù ben definite, con un proprio > terreno di caccia, delle proprie dimore, dei cacciatori sapienti…” In questo mondo di ombre e di segni, che proliferavano ovunque, come il caglio di un dio, gli sciamani avevano un ruolo preponderante. Vivevano in prossimità dei boschi, addestrati dalle ‘voci’, per lo più eccentrici, decentrati all’esistenza comune. Evanescenti come la neve. A loro ci si rivolgeva di continuo: per propiziare la caccia e l’unione, per benedire le bestie e i nascituri, per dialogare con i morti, che dilagavano, dappertutto. Esistevano sciamani crudeli, scoppiavano guerre tra sciamani avversari. Bogoraz era affascinato, soprattutto, dalla struttura sociale dei Ciukci: pareva non avessero governanti diretti, le attività si svolgevano secondo un’‘autogestione’, per così dire, guidata da gerarchie cosmiche, da una consuetudine che nessuno osava intaccare. Gli parve di trovarsi di fronte a degli uomini buoni.  La prima raccolta di “Miti e leggende dei Ciukci” è pubblicata da Bogoraz nel 1899; l’anno dopo esce a San Pietroburgo l’importantissimo “Materiali per lo studio della lingua e del folclore dei ciukci”. Il giovane rivoluzionario divenuto pioniere dell’antropologia russa, è accolto nei gangli dell’Accademia delle Scienze. Quando può, però, Bogoraz attraversa l’oceano a sbarca a New York: presso l’American Museum of Natural History trova un complice nell’etnologo Franz Boas e partecipa alla mitica “Jesup North Pacific Expedition”. La missione si occupa di snidare, sondare e studiare le popolazioni indigene intorno allo stretto di Bering, tra Alaska e Estremo Oriente russo; l’esito di queste osservazioni permette a Vladimir Bogoraz – ormai americanizzato “Waldemar” – di pubblicare, nel 1910, Chukchee Mythology (da cui abbiamo tratto i testi in appendice) e nel 1913 The Eskimo of Siberia. Sono lavori miliari: la pagina dedicata ai Ciukci in Testi dello Sciamanesimo siberiano e centro-asiatico (Utet 1984; 2009), si avvale ancora di quel repertorio.  Rientrato in Russia, Bogoraz fu professore di etologia; forse vide in Lenin il prototipo dello sciamano moderno; intuì che la Rivoluzione era guidata da un fervore ‘magico’, che le masse si muovono soltanto se guidate dalle voci e dalle ombre – cioè: dalle idee o dal dio, che a tratti sono la stessa cosa. Nel 1930 fondò a San Pietroburgo – allora Leningrado – l’“Istituto dei Popoli del Nord”, con il compito precipuo di studiare le lingue degli indigeni, organizzandole per vocabolari. Fu facile per Bogoraz intuire la parentela tra i Ciukci e gli Ainu, gli indigeni del Giappone settentrionale, un popolo per molti versi avvolto nel mistero. Ma i tempi cambiavano con rapidità di fortunale: Bogoraz, patriarca dell’antropologia russa, fu attaccato dagli allievi più giovani perché si rifiutava di utilizzare i codici della “lotta di classe” nell’interpretare l’organizzazione sociale dei Ciukci. Lo accusarono di voler preservare i nativi del Nord dai fasti dello “sviluppo economico”: per Bogoraz il cosiddetto ‘progresso’ avrebbe definitivamente corrotto la sciamanica autarchia dei Ciukci. Voleva credere in un Eden nordico, nella possibilità – ancora viva, prossima – di poter parlare con le renne, di cavalcare l’orso, di coalizzare un esercito di spiriti. Le ombre avevano preso a dialogare con lui.  Il vecchio rivoluzionario fu costretto a ritrattare e a rivedere alcune conclusioni. Comunque, morì poco dopo, nel maggio del 1936, in circostanze non del tutto chiare. Costantemente ristampate nel mondo americano, le opere di Bogoraz sono state recepite di recente dalle Éditions des Syrtes, in Francia: Récits de la Perdition raccoglie i miti dei Ciukci, ma soprattutto il picaresco racconto di un intellettuale perduto nel grande Nord. Così ne ha scritto “Le Monde”: “Intriso di una tenerezza non priva di humour, il libro racconta l’intima tragedia e il turbamento metafisico di un uomo bandito dalla società, prigioniero di una natura superba ma di cui non sa riconoscere i simboli, in cui è disorientato”.   Dal vasto repertorio di leggende, proverbi, miti assemblato da Bogoraz, si è scelto di tradurre alcuni “Incantesimi”. Si tratta di parole pronunciate dagli sciamani Ciukci e di brevi sketch che dicono di un mondo affollato di demoni, in cui l’invisibile ha la prevalenza sulla mera, sgargiante superficie delle cose; in cui le bestie parlano e risorgere vale quanto vendicarsi. Questo è un mondo in cui la parola – coagulata in gesti, in effluvio di gesticolii – è efficace o non è – come dovrebbe essere la parola poetica. Non c’è nulla di esornativo nella ripetizione della formula verbale, perché è grazie a quel giaculio, a quel gracidio, che il mondo continua a parlarci, continua a esistere. Vivere nel canto per non subire l’incanto; fare nido nel miracolo osteggiando il miraggio.  In un testo raccolto in Testo dello Sciamanesimo siberiano e centro-asiatico, “Il giovane sciamano e la sua fidanzata”, si narra del più piccolo di cinque fratelli che rifiuta di conformarsi ai riti sociali. Quando è il suo turno di prendere moglie, scappa, si nasconde, “sciamanizza” (cioè: articola canti a ritmo di tamburo). Infine, si innamora di una ragazza morta, dopo aver scorto il suo feretro trascinato dalle renne. Grazie agli innati, misteriosi poteri, il giovane va nell’aldilà (“Ora io andrò… mi immergo… cerco la sua anima…”), recupera l’anima della ragazza, la incastra nel corpo, fa della risorta la propria moglie. L’estasi dello sciamano è un’immersione nell’amnio del mondo – ascesi per apnea, diremmo –; la sua unione l’opera di un potere degno di aura. I fratelli non canzoneranno più il più piccolo, accogliendo il suo destino di solitudine e di estraneità.  A volte, attirato nell’altro mondo, nell’altrove, nel nessundove, uno sciamano non fa ritorno su questa terra. Il suo corpo resta crisalide vuota, in una specie di infantile rimbambimento. Tra le mani dello sciamano, si dice, mangiano gli orsi; lo sciamano, si dice, può domare perfino la tigre dell’Amur, la preda sbalorditiva, amata da Dersu Uzala, il “piccolo uomo delle grandi pianure” eternato dal film di Kurosawa.  Di questa recluta di leggende desunte da un sussurro, di identità spaiate in fotografia, in una cronaca della scienza, forse, restano le viscere di un dio, il pellame messo a nudo, lo scalpo, lo scalpiccio.  *** Incantesimo di una donna rifiutata dal proprio marito, gelosa della rivale Dunque sei tu quella donna! Amore hai da mio marito – tanto che lui mi respinge.  Ma tu non sei un umano essere. In carogna ti muto, carogna che crolla sui ciottoli, carogna vecchia, putrefatta.  Muto mio marito in un orso. Orso che viene da terre lontane. Orso roso dalla fame. Orso che incrocia la carogna e la divora. Poi la vomita. In quel vomito ti volto. Mio marito contempla il vomito. E la rifiuta appena la vede. Muto il mio corpo in quello di un giovane castoro appena svezzato. Liscio ogni mio pelo. Questa donna è gradita a lui, lui mi insegue, mi desidera, perché l’altra gli è ripugnante.  (Sputa, si imbratta di bava dalla testa ai piedi, il marito comincia a volerla). Egli mi ha rigettata e io mi rivolgo a lui, per lui mi trasformo in un male mortale. Che sia attratto dal mio odore, che mi azzanni. Lo respingo perché con più forza mi assalga.  Finché mio marito non abbandona la sua amante.  * Incantesimo per far tornare indietro i morti L’uomo è morto da poco e un altro esce allo scoperto: il morto è ancora nella sala d’attesa della morte, nella più remota stanza.  L’altro uomo parla all’Alba e all’Essere Superiore. Dice: Mente disorientata la mia, mente dissennata. A chi posso chiedere aiuto? Mi rivolgo a te. Dammi il tuo cane! Sono addolorato per mio figlio, che è scappato in un luogo lontano. Lasciami usare il tuo cane.  Muove la mano sinistra, come se afferrasse il cane. Poi sussurra all’occhio del morto, ulula come un cane, Uu, uuu, così. Il cane allora si lascia avvincere e insegue il morto. Lo insegue e ulula e abbaia. Gli passa davanti, lo incrocia, lo incorna. Abbaia con ferocia. Gli si avventa contro, gli blocca in ogni direzione il cammino. Infine, lo obbliga a interrompere il suo lungo viaggio e a tornare indietro. Deve rimetterlo nel corpo, deve riposizionarlo nel corpo. Poi il morto ricomincia lentamente a respirare. Pur essendo morto, ora vive.  * Per curare un malato Quando un uomo è malato fino al punto di poter morire e il suo corpo è debole, quest’uomo viene portato fuori casa, con grandi sforzi, e viene strofinato con la neve, dappertutto. Un altro uomo implora le Regioni Superiori e il fiume detto Ciottolo. “O Fiume Ciottolo, vieni a me! Scivola in me! Desidero che tu mi serva”. Inoltre, reclama il vento dell’Est.  Segue un acquazzone. Il fiume si gonfia. Il malato diventa le rapide del fiume. Tutto viene spazzato via – non resta più nulla. Qualcuno getta cibo nelle acque, e il fiume trascina via ogni rifiuto e ogni dono.  Così l’uomo che soffre può guarire e viene riportato a casa. * Incantesimo per allontanare Ke’let, il demone Quando scende la sera, lego due grandi orsi sulla soglia di casa mia e dico: “Oh, voi siete così grandi, così forti, non può capitarmi nulla di male finché sono al vostro fianco”.  Se un ke’let mi vuole e cerca di entrare in casa, gli orsi lo afferrano perché non fanno passare nessuno.  Poi c’è una vecchia, cieca, con gli occhi incavati, con le orbite vuote: agita una frusta di ferro tutta la notte, in ogni direzione. Lei sa spaventare i ke’let. È difficile assalirla. Dopo, su ogni lato della casa devi porre dei gufi polari di ferro. Hanno becchi di ferro e ali di ferro. Hanno becchi molto affilati.  Quando ke’let, l’Assassino, l’aggressore, trova la casa, loro lo colpiscono, lo feriscono, gli cavano gli occhi. Il demone, pieno di sangue, volta verso il deserto – vola obliquo, ha paura, se ne va per sempre.  L'articolo “La lampada cammina, le ombre parlano”. Bogoraz e gli incantesimi dei Ciukci proviene da Pangea.
June 21, 2025 / Pangea