Si alza un fumo denso da una biblioteca addormentata, tra scaffali muti e
finestre sigillate. Una lingua di fuoco percorre costole di volumi, lambisce
l’inchiostro, accarezza le idee fino a consumarle e trasformarle in alveo
perturbante. L’aria è immobile, ma qualcosa brucia, lentamente, silenziosamente,
nel cuore stesso del pensiero. Là dove la mente si fa tempio e prigione e il
sapere incanta, inabissa, devasta.
L’incontro tra follia e cultura ha un nome, un volto, un ordine narrativo. Esso
nasce come visione, febbre, vertigine. Il delirio e l’erudizione di Auto da
fè sono incisioni su lastre di vetro: ogni parola taglia, rifrange,
moltiplica. E ciò che prende forma è il ritratto di un’intelligenza assoluta e
assolutista, che cerca nella purezza intellettuale la salvezza, trovandovi
invece la più irreversibile delle solitudini.
> “La nostra esistenza è tutta una mostruosa cecità”.
Il romanzo-mondo di Elias Canetti, apparso nel 1935 sotto il titolo tedesco Die
Blendung è un’opera unica, per certi versi indecifrabile, e si offre al globo
come labirinto, rogo in cui la parola si consuma nel falò della conoscenza.
Il protagonista, Peter Kien, sinologo di fama internazionale, vive immerso in un
culto libresco che sconfina nella più feroce misantropia. La sua esistenza
ascetica si svolge interamente tra gli scaffali della sterminata biblioteca
privata: ottantamila volumi, che Kien definisce “le uniche creature degne di
rispetto”. La realtà esterna, per Kien, è un’interferenza da cui difendersi; la
lingua un’arma da perfezionare sino alla lacerazione. Ma come ogni sistema
autoreferenziale, anche la sua torre di Babele è destinata a crollare. Il
matrimonio con la sua governante Therese, figura grottesca e carnale, antitesi
vivente della purezza intellettuale, innesca una vertiginosa discesa
nell’abisso.
> “Poco mancava che Kien cedesse alla tentazione di credere nella felicità,
> questa spregevole meta degli analfabeti”.
Canetti, ebreo sefardita nato il 25 luglio del 1905 a Ruse e cresciuto fra
Vienna, Zurigo e Francoforte, scrive questo romanzo negli anni in cui l’Europa
si inabissa nel culto della forza e della massa, su cui Canetti inciderà con il
celebre Massa e potere. In contrasto, Auto da Fé, a lungo ignorato, ha trovato
un nuovo eco nel secondo dopoguerra, anche grazie al riconoscimento tardivo
conferito a Canetti con il Nobel per la Letteratura nel 1981. Il titolo
originario, Die Blendung, evoca l’accecamento, tanto fisico quanto metaforico: è
la cecità dell’intellettuale isolato, incapace di leggere i segni del tempo; ma
è anche la cecità della cultura quando si chiude in sé stessa, quando diventa
autorità dogmatica, repressione del corpo, negazione del mondo. Non a caso, il
titolo inglese, scelto da Canetti stesso, Auto da Fé, richiama i roghi
inquisitoriali, in cui i libri, e le idee, venivano ridotti in cenere. Il sapere
che brucia se stesso.
A livello stilistico, Auto da fé è un’opera straniante, costruita su un
linguaggio ossessivo, talora volutamente meccanico, che restituisce la rigidità
mentale dei personaggi. Ogni figura è iperbolica, caricaturale, come se uscisse
da un incubo kafkiano o da una pièce espressionista: Therese, massa informe e
famelica; il portinaio Fischerle, gobbo paranoico e megalomane; Georges, il
fratello psichiatra, emblema della razionalità normalizzante. Tutti i personaggi
orbitano attorno a Kien come satelliti impazziti, e insieme compongono una
satira amara della società moderna, in cui la cultura non salva, ma isola,
ossifica, disumanizza.
> “Si potrebbe quasi credere che sia un morto. A che scopo vive un essere di
> quella specie […] Una persona simile non serve a nulla.”
In questo senso, Auto da fé è una critica radicale alla fiducia illuminista
nella ragione. Kien non è un umanista, ma un feticista del sapere; la sua
cultura è ritiro solitario, la sua mente una camera stagna. Lungi dall’essere
salvifica, la conoscenza diventa un assoluto che divora colui che la persegue.
“Chi non ha libri è perduto,” dice Kien. Ma Canetti ci mostra, con feroce
lucidità, che chi ha solo libri lo è altrettanto.
Proprio per questo, pochi giorni fa, ho deciso di incidere Kien sulla mia pelle;
il suo volto baffuto che si fascia gli occhi per isolarsi nel suo mondo, per
essere come quei ciechi che lui stesso ama e detesta; Kien sta lì, completamente
perso, cieco volontario tra i ciechi inconsapevoli, a ricordarmi che oggi, in
un’epoca segnata dal sovraccarico informativo, dall’inflazione dei saperi e
dalla crisi dell’autorità intellettuale, la sua storia risuona con un’attualità
inquietante. È un monito contro ogni forma di idolatria del sapere, contro la
tentazione di annientarsi, di nascondersi dentro un cervello inanime, di
rinchiudersi nella torre d’avorio della propria persona.
> “Al mondo, dice, ci sono troppi libri e troppi stomaci affamati.”
Elias Canetti ci considera impotenti, non vuole e non può proporci soluzioni o
redenzioni. Ci offre solamente un ritratto impietoso della mente contemporanea,
colta nel momento della sua combustione. Un cervello in fiamme, come la
biblioteca di Kien. Un’auto da fé, appunto, in cui si brucia non solo il corpo
dell’intellettuale, ma anche la sua illusione di dominio.
E in questo luglio che si arroventa, non possiamo non ricordare che il 25
saranno trascorsi 120 anni dalla nascita di Elias Canetti. 120 anni dalla
comparsa di uno spirito lucido e profetico, che ha saputo guardare nell’occhio
della follia collettiva senza arretrare, e che ancora oggi ci parla con una voce
che arde come brace sotto la cenere della storia.
Auto da fé è un’opera al limite tra sapere e psicosi, tra parola e silenzio, tra
individuo e massa. Canetti ci costringe a interrogarci non solo su ciò che
sappiamo, ma su come e perché lo sappiamo. L’anima di Kien è rovina nobile,
cattedrale gotica che crolla su chi la abita troppo a lungo. Il pensiero, se
assoluto, si chiude con catene d’oro, lucide e serrate.
E allora, cosa ci resta? Il crepitio, l’eco. Resta la figura dell’intellettuale
come incendiario e superstite, come martire di un sapere che abbaglia e
consuma. Canetti ci insegna che la mente è un campo di battaglia e solo
l’incendio può redimerci; nel buio della catarsi, l’abisso sa leggere anche noi.
Tommaso Filippucci
*In copertina: Francisco Goya, Capricho No. 23: Aquellos polvos
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