> È vero che tutto deve cominciare repentinamente, ma se poi non segue un
> istante di raccoglimento la cosa si sgretola subito e va perduta. Repentinità
> e raccoglimento si compenetrano perché una cosa risulti bella: il lampo
> dell’occhio e la pazienza delle mani.
>
> E. Canetti, La rapidità dello spirito
*
Nelle folgoranti, indimenticabili pagine iniziali di Tolstoj e Dostoevskij,
George Steiner sostiene che la critica letteraria dovrebbe scaturire da un
debito di amore.
> “In modi evidenti e tuttavia misteriosi una poesia o un dramma o un romanzo
> afferrano la nostra immaginazione. Nel momento in cui deponiamo il libro non
> siamo più quelli che eravamo prima di leggerlo”.
Scrivere qualcosa su Canetti, oggi, mi pare richieda proprio questo: il
tentativo di saldare ciò che ancora resta in sospeso, a credito dell’autore
bulgaro.
Avevo previsto di cominciare con una disamina del volume di saggi La coscienza
delle parole. Ma ben presto mi sono accorto che Canetti mi tirava per la
giacchetta, trascinandomi altrove, irresistibilmente, verso altri suoi libri — e
in particolare verso le pagine degli Appunti, che egli scrisse con meticolosa
costanza dal 1942 fino a poco prima della morte. L’opera di Canetti è piena di
amorose corrispondenze: echi di significato che si richiamano da un luogo
all’altro del suo dettato, come stelle appartenenti alla medesima costellazione,
disperse tra le vaste distanze delle galassie.
Ecco perché quanto segue somiglierà più a ciò che, nella letteratura cinese, è
noto come biji, o, nella tradizione giapponese, come zuihitsu: uno zibaldone di
frammenti e lampeggiamenti, simili a colpi di pennello tremolanti appena
tracciati su una tela. Non sembrerà poi così assurdo, allora, parlare di Kafka
ed evocare, nello stesso respiro, la forza del mito e la leggerezza del taoismo.
Da qualche parte – nei Campi Elisi degli scrittori – immagino già un timido
sorriso illuminare il volto sobrio di Canetti.
*
Marina Nadotti, in una significativa chiosa a un’opera del compianto John
Berger, usò un’espressione che mi colpì per la sua risonanza evocativa:
“ospitalità del pensiero”. Con quell’immagine, Nadotti indicava una particolare
disposizione della mente e del cuore: un’attitudine a lasciarsi attraversare,
con curiosità e generosità, dalle multiformi esperienze della vita sensibile e
di quella interiore. Tutto, nel dettato di Canetti, sembra chiedere proprio
questo: di essere accolto, abbracciato, riconosciuto – con una smisurata empatia
emozionale.
In questo senso, Canetti appare come l’ultimo degli umanisti: un instancabile
alchimista del sapere, intento a ibridare ambiti solo apparentemente distinti
come l’antropologia, la storia, la letteratura, la critica. Ma, a differenza
della baldanza fiduciosa del faber rinascimentale, la sua aspirazione alla
conoscenza è costantemente attraversata da una minaccia incombente: il terribile
volto della storia.
Colpisce, in Canetti, la vastità dell’argomentazione, sostenuta da un’erudizione
mai fine a sé stessa, ma sempre animata da un profondo senso di responsabilità
etica. Una responsabilità che si esercita, in prima istanza, nei confronti della
lingua e delle parole che la compongono. Basti pensare al titolo del primo
volume del trittico autobiografico: La lingua salvata. La biografia canettiana è
segnata, fin dagli esordi, da una convivenza fitta e inquieta di lingue e
culture, che l’autore sente il dovere di proteggere dalla deriva babelica, dalla
cannibalesca supremazia dell’una sull’altra. Da qui nascono la sua fiducia nelle
parole “non travestite”, capaci di restituire barlumi di autenticità, e un
sentimento di vibrante commozione verso l’atto stesso del nominare il mondo:
come se, nel dare nome alle cose, si riattivasse ogni volta un legame originario
— e dunque atemporale — tra lo sguardo dello scrittore e ciò che lo circonda.
> “Il mio Dio è il nome, il soffio della mia vita è la parola.”
Le parole non sono mai ancelle né gregarie dell’uomo, ma ne riflettono la parte
migliore: quella, in fin dei conti, meno vulnerabile all’oblio della morte.
> “Ma ci sono parole di un tipo particolare, che accendono l’entusiasmo, quelle
> che contengono spazio e futuro, vastità da ogni parte. Quanto di storto e di
> vano era racchiuso nell’uomo ora si espande d’improvviso con enorme fretta in
> cento direzioni diverse, con le sue parole egli va a toccare per dritto e per
> traverso inizio e fine e centro del mondo.”
*
Seduce, in Canetti, il dialogo sempre aperto con le grandi civiltà asiatiche –
soprattutto con quella cinese: un volgersi verso forme altre di cultura, di
scrittura, di differente visione del mondo. A questo movimento di apertura verso
l’esterno ne corrisponde uno speculare di ripiegamento interiore in sé stessi: è
il Canetti degli Appunti, che si avvicina alla parte più autentica di noi, in un
atto di responsabilità verso il proprio tempo. Indagarsi, interrogarsi, aprirsi
all’orizzonte del cambiamento: come nella disposizione d’animo del viaggiatore.
Anche in questo, Canetti rivela una fibra quasi rinascimentale, come un
Montaigne del ventesimo secolo: tuttavia, sotto la superficie, affiora sempre un
senso sottile d’inquietudine, lo svelamento progressivo della desacralizzazione
di ogni cosa.
Diventa allora più arduo, per il viaggiatore-scrittore, testimoniare la perdita
dello stupore, l’ammutolirsi della sorpresa. Eppure, in fondo, la letteratura
non è che questo: il dimorare del pellegrino nella meraviglia.
La missione dello scrittore: fare il vuoto dentro di sé e accogliervi la
traboccante ricchezza dell’esistente, la metamorfosi continua che attraversa la
storia e le vicende umane. Ancora, cercare le fontane dove stilla la musica
delle antiche favole, ritrovare tracce dei miti nel respiro del mondo. Canetti
vorrebbe credere in un universo dove dimorano gli dèi, dove il lampo e il tuono
abitano nello sguardo delle tigri e i vascelli solcano le acque tra i mostri
marini e le isole incantate dei Feaci. Il mito è come il viaggio: si insedia in
una dimensione senza tempo, dove lo sguardo degli uomini non si posa mai due
volte sullo stesso luogo e ogni cosa parla il linguaggio prebabelico della
meraviglia.
> “I nuovi luoghi non si inseriscono nei vecchi significati. Per un certo tempo
> ci apriamo realmente. Tutte le storie passate, la nostra vita stracolma, che
> soffoca di senso, ci restano dietro le spalle d’improvviso, come se le
> avessimo lasciate in deposito da qualche parte., e mentre se ne stanno là
> accade l’assolutamente inesplicato: il nuovo”.
Una delle ragioni dell’imbarbarimento dei tempi moderni sta nell’aver staccato
la spina ai miti. Canetti vive con dolore l’assenza totale degli dèi nel
presente: al loro posto, sul trono del mondo, siede il volto impietoso e
definitivo della storia sanguinosa.
> “Per me il pensiero più desolante è che alla storia non si sfuggirà mai più. E
> questo il vero motivo per cui continuo ad armeggiare tra tutti i miti? Ripongo
> forse speranze in un mito dimenticato che possa salvarci dalla storia?”
*
All’interno della raccolta di saggi La coscienza delle parole, brillano i due
capitoli dedicati a Kafka e al suo epistolario con Felice, la donna che avrebbe
dovuto sposare e alla quale fu legato da un rapporto tormentoso e conflittuale.
Lo sguardo di Canetti sul celebre scrittore è di una sconvolgente e disarmante
tenerezza. Faccio fatica a trovare altri esempi in cui la critica letteraria si
spogli della sua arroganza cattedratica per diventare pura immersione nell’opera
che si pone come oggetto di studio. Forse, solo Cortázar, nel suo memorabile A
passeggio con John Keats, può essere annoverato come una fulgida eccezione.
Nessun altro scrittore è stato capace di penetrare così a fondo nelle
interiorità di un autore, e al tempo stesso, da speleologo di un destino
incistato nella letteratura, di offrirci un ritratto così potente. Kafka:
l’artista che trova giustificazione solo nella letteratura, che vive grazie alla
letteratura e di letteratura. Il dilemma intimo dello scrittore boemo: quanto
più la sua scrittura cresce in intensità, tanto più l’individuo si percepisce
sempre più piccolo, attratto come da un gorgo incantato dal grande, terribile e
meraviglioso oceano d’inchiostro nero che si stende sul foglio di fronte a lui.
Il sogno di Kafka: così come un certo tipo di storiografia ci mostra Nerone,
all’apice della solitudine, contemplare Roma devastata dall’incendio, così Kafka
desidera che, nella notte, solo lui rimanga sveglio nel mondo, per poter
finalmente “farsi carico” dell’umanità e confrontarsi con la sua multiforme
essenza. Si sente, in quel momento, giustificato davanti a sé stesso e agli
altri. A Kafka serve una statura, una postura da superstite, da ultimo uomo
sulla terra: nella sua stanza, a lume di candela, scrive come se inviasse
missive dall’Arca, in mezzo al diluvio.
Kafka: il poeta sempre in lotta contro il potere, alla ricerca di una libertà
assoluta e senza vincoli, così come il ritmo del respiro, il compenetrarsi degli
estremi, l’abbraccio di violenza e tenerezza.
Ecco uno dei sensi della parabola di Canetti, alfiere di un dettato che cavalca
verso l’altrove, ma mai in fuga rispetto al cuore oscuro del presente – più che
di vino, di oscuro sangue è fatta la storia del mondo. In questo senso,
l’eterogeneità della raccolta di saggi diventa naturale rifrazione della
multiformità dell’esistente: convivono, in una straordinaria galleria di
ritratti, Hermann Broch, autore del folgorante La morte di Virgilio, Karl
Kraus, Georg Büchner – il cui Woyzeck ha cambiato la vita di Canetti –, Tolstoj
e Confucio, esempio mirabile di integrità etica e letteraria.
*
Nel capitolo Dialogo con il terribile partner, tra i più belli di tutta la
raccolta, Canetti esplora le ragioni che spingono certi uomini a tenere un
diario. Colpisce, in queste pagine, l’importanza attribuita ai diari di viaggio,
ai quali ci si accosta fin da bambini. Il sentimento di una vita ingessata in
pose ormai fisse, l’oppressione di una realtà troppo carica di senso,
l’avvicendarsi di vicende sempre note ci spingono verso i resoconti di viaggio,
dove tutto è ancora al di qua di ogni inizio, avventura dopo avventura, giorno
dopo giorno. Solo immaginando città straniere, lingue misteriose e luoghi
irripetibili possiamo colmare la nostra insaziabile voglia di metamorfosi.
Non sorprendono quindi l’interesse sempre vivo di Canetti per l’antropologia, lo
studio comparato di civiltà lontane nello spazio e nel tempo, la sua
predilezione verso i grandi diari di viaggio, come quello del cinese Hsüan Tang
o dell’arabo Ibn Battura, e l’ammirazione verso forme di scrittura distanti –
il Libro del Guanciale di Sei Shōnagon e Storia di Genji, di Murasaki Shikibu.
*
Tutti ricordano giustamente Canetti per il trittico autobiografico o per quel
monumento del pensiero che è Massa e Potere. Eppure, io credo che il vero
capolavoro dello scrittore siano i suoi Appunti, raccolti nell’arco di tutta una
vita. Come non restare trafitti da quel dettato eracliteo fatto di
lampeggiamenti, echi di senso dove il tuono si propaga a valle, di piccoli
incendi e ripide cascate? Leggere Canetti è come cartografare il mondo, portando
sempre dentro di sé il senso del mistero e della meraviglia.
Esiste un breve scritto di Borges che chiude L’artefice, piccola opera quasi
testamentaria del grande argentino. Nella mia copia del libro, ormai un po’
sgualcita, ho sottolineato con un leggerissimo tratto di lapis le ultime righe.
Mi sembra che possano spiegare meglio di qualsiasi altra cosa ciò che Elias
Canetti rappresenta per me.
> “Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno
> spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli,
> di isole, di pesci, di case, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone.
> Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia
> l’immagine del suo volto”.
Lorenzo Giacinto
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Ogni poeta nasconde un segreto che la sua vecchiaia si incarica di custodire.
Nei poeti senza tarda età, il segreto si assottiglia, resta sospeso per anni,
vaga nelle nubi incerte delle interpretazioni e nel folto sottobosco delle note
a piè di pagina; poi, con un movimento indistinto, ritorna al centro dell’opera,
indisturbato, non visto, non notato, come nella Lettera rubata di Poe. Ma nei
poeti che decidono di tacere e si rinchiudono a guscio nella vecchiaia, la
questione minaccia di togliere il sonno: come giustificare, come tollerare che
un corpo continui a esistere a dispetto delle sue poesie? Il mistero della
creazione è spaventoso quando l’artefice, muto, ci sta davanti senza fornirci
spiegazioni, come nel peggiore degli incubi.
È la sensazione che si prova di fronte al silenzio di un poeta-prodigio ebraico,
Avraham Ben Yitzhak: un nome che sembra la trascrizione esatta, indelebile, di
un salmo. Nato in Galizia nel 1883, in una nicchia geografica che gli permetteva
di spaziare lo sguardo verso la Russia, l’Europa centrale e l’Impero
austro-ungarico, a quindici anni già scriveva poesie in ebraico; allo stesso
tempo, fu influenzato dalla nuova poesia europea di lingua tedesca, incarnata in
tre dei suoi migliori araldi: il cupo e allucinato lirismo di Trakl, il
simbolismo rabbrividente di Hofmannsthal e l’aerea levità metafisica di Rilke.
Quando si legge Ben Yitzhak, è facile pensare a una sorta di rosa degli inizi:
mentre tutto il mondo va avanti, e nel modo più sanguinario possibile, un poeta
non ancora ventenne cerca di rievocare la voce degli ispirati con un timbro
inconfondibile. L’impressione è che mentre gli altri poeti cercavano di definire
in poesia gli eventi, con un pinnacolo di versi a volte stordente, Ben Yitzhak
andava definendo una cattedrale di sensazioni sorta dalla pietra angolare di un
personale stupore: mentre i primi si servivano della realtà per stimolare una
sensibilità in esaurimento, Ben Yitzhak utilizzava l’impalcatura del reale per
fondare un nuovo personalissimo senso. Si esce dalle sue poesie, che sono
undici, come dopo altrettanti incontri privati con uno stregone: l’impressione è
di chi sa quali corde far risuonare per smuovere qualcosa nella calca del mondo.
Quello che colpisce immediatamente nelle undici Poesie di Avraham Ben Yitzhak –
raccolte in un miracoloso libro edito da Portatori d’acqua nel 2018 – è la
sensibilità senza filtri verso il mondo; l’assenza di compromessi linguistici di
chi vede tutto e vuole dire tutto subito, a costo di pagare questa fedeltà
all’istante poetico con un trentennale silenzio. Il lettore, semplicemente, si
trova di fronte ai versi di un uomo che vive più intensamente degli altri: così,
nelle pochissime poesie che ci ha lasciato, ogni evento – la primavera, la
tempesta, il vento, la mietitura, la foresta – si trasfigura in qualcosa di più
alto, che richiede solo la vertigine dello sgomento e della contemplazione. Come
confessa in uno dei suoi diari:
> «Io, che ora sto seduto qui nella sala che uomini hanno decorato, con la coppa
> d’uva accanto a me, quanta fatica, quanta cura, quanta astuzia, e quanto
> dolore e quanta disperazione, quanti trionfi sono passati finché questa
> banalità non si è trasformata nell’oggi attorno a me. Uomo, stupisciti. E
> tremante, e Dio».
La vera novità di Yitzhak risiede proprio nel suo bilinguismo poetico.
Avvenimento più unico che raro, scrisse poesie in tedesco e in ebraico, tanto da
essere definito dalla critica un novello Hölderlin. Se pensiamo a Paul Celan, il
più grande poeta ebreo in lingua tedesca, crediamo di scorgere in Yitzhak il
fondamento di una spiritualità altrettanto tormentata e sibillina: forse Yitzhak
disertò la scrittura per preservare una purezza cristallina che minacciava di
sgretolarsi; forse evitò di continuare a scrivere perché la consapevolezza della
poesia, della predisposizione alla poesia, gli sussurrava che la lettera uccide
lo spirito.
Del suo silenzio sono state fornite più spiegazioni: il crollo della
Mitteleuropa, la malattia ai polmoni e, da ultimo, la perdita di alcuni scritti
in seguito alla capitolazione della città natale, Przemysl, durante la Prima
guerra. Alcuni, più sottili, sostengono che Yitzhak si rendeva conto che la
letteratura ebraica non era ancora pronta ad accogliere l’innovazione delle sue
poesie. Oppure, ancora, che viveva in modo talmente poetico da ricorrere alla
poesia scritta soltanto nei momenti più prosaici. Eppure, in questo dedalo di
ipotesi, la più convincente sembra la confessione fatta all’amica e poetessa Lea
Goldberg:
> «Detto tra noi, ho scritto molto in quel periodo. Avevo quaderni pieni di
> appunti e di tentativi di espressione. Tutto è andato perduto durante la Prima
> guerra mondiale. Appena fuori dalla cittadina vi era un campo di cavoli rossi.
> Un giorno stavo camminando nel bosco quando d’improvviso mi giunse un odore di
> acqua stagnante, e capii che qualcosa stava per accadere. Proseguii per la mia
> strada e vidi uno specchio d’acqua, al di sopra di esso un’altura e ai suoi
> piedi il campo di cavoli. Vi si trovavano tutte le sfumature di rosso che si
> possono immaginare. Da quello chiaro, quasi rosa, sino al viola. La lingua
> umana – qualsiasi lingua – è troppo povera per esprimere ciò che vedono i
> nostri occhi. Quali parole possediamo per trasmettere con precisione il
> colore? Per giorni interi rimasi seduto davanti al campo, cercando di
> trasmettere per mezzo del linguaggio quella visione».
Una resa incondizionata di fronte alla superiorità del reale che ricorda il
libro-svolta di uno dei suoi poeti prediletti, la Lettera a Lord Chandos di
Hofmannsthal, una sorta di congedo silenzioso dalla letteratura che Kafka, il
quale conosceva il peso che reca con sé ogni parola, amava moltissimo.
L’essenziale, di regola, è sempre breve o ambisce alla brevità.
Elias Canetti, che lo incontrò a Vienna rimanendone abbagliato (Sonne, il vero
cognome di Yitzhak, in tedesco significa sole) ci ha lasciato di lui un ritratto
indimenticabile nel terzo volume della sua autobiografia, Il gioco degli occhi.
Ogni lettore che varca la soglia di questo capolavoro non tarderà ad accorgersi
che il libro, più che incentrarsi sulla frequentazione di titani quali Robert
Musil, Hermann Broch e Thomas Mann, si fonda sul fascino ipnotizzante che
esercitarono le conversazioni e gli incontri col “dottor Sonne”, appostato nei
bar di Vienna in rigorosa osservanza dell’arte della discrezione. Canetti scrive
che incontrarlo gli dava l’impressione di avere davanti a sé «un uomo nelle cui
mani confluivano i fili degli avvenimenti». Così, il ritratto di un uomo
straordinario, che nulla ha lasciato se non uno scarno fascicolo di poesie,
riesce a oscurare il lascito imponente di scrittori che hanno dedicato la loro
esistenza a opere che occupano più scaffali di una biblioteca.
Il lettore, dopo aver letto anche una sola delle sue poesie, potrà camminare più
leggero per il mondo, portando in sé l’anima «come una goccia di cristallo»,
consapevole che la poesia, come ha scritto Paul Celan, è una forte tendenza ad
ammutolire.
Andrea Muratore
**
Inverno lucente
Puro e duro e bianco è il mondo.
Dal nord il vento ieri ha messo in fuga
sogni di nebbia
cieca ed errante
senza fine…
Oggi il vento trattiene il respiro.
Neve abbagliante all’intorno,
e ombra cerulea di monti
cieli azzurro pallido,
vibrano nella propria luce.
E nell’ombra –
preso nel suo splendore di gelo
si distende il fiume,
quasi corazzato di squame –
scuro smeraldo di ghiaccio
dalle nevi splendenti,
sino a che si perde il suo dorso
verdognolo e tortuoso
laggiù lontano…
dove la luce del giorno ha preso fuoco,
con un bagliore dalle bianche fiamme —
come se il sole fosse caduto
sui blocchi informi di ghiaccio
dal duro cristallo
e si fosse infranto…
Chiudo gli occhi.
In me il sangue giubila
e mi risuona nelle orecchie:
puro è il mondo.
Mi sembra:
insieme al cuore della terra,
pulsa in me il cuore;
e scorre assieme ai rivoli
che fluiscono sotto la crosta ghiacciata.
Puro… il mondo…
puro…
*
Salmo
Per pochissimi istanti capita che porti
in te l’anima come una goccia di cristallo:
un mondo pieno del suo sole e di sfumature rifratte,
un’orda di visioni e di parole tremanti;
là volgi gli occhi
come alla goccia di cristallo –
e tuttavia quel mondo teme di versarsi
non sopporta di essere riempito
e trema fino ai margini estremi…
ed ecco sei consegnato a tutta l’eternità. –
Estreme lontananze trasparenti ti fluiscono dagli occhi
e terrori d’oscurità vi si approfondiscono; –
ti trovano cose lontane e vicine –
e vogliono la tua vita.
Nel silenzio delle notti
ti ergi sulla cima dei monti,
e tra stelle grandi e fredde poni il capo.
Sprofondano a terra quanti vivono al di sotto;
e sull’ultima vampa della loro sventura
scende il nero oblio –
mentre sei sveglio davanti ai terrori
al di sopra dell’oscurità.
E se cade una stella
da una fiamma tremante sale un ruggito
dalle angosce della distruzione ai cieli –
e cade la stella nella tua anima
e nel suo abisso si spegne…
E sul far del mattino
ecco aleggi sulla superficie dell’abisso
per distendervi i tuoi cieli profondi,
e il sole grande nella tua mano
fino a sera.
*In copertina: un disegno di Alberto Giacometti del 1965
L'articolo “Uomo, stupisciti”. Vagabondaggi nel cuore del “dottor Sonne”, il
poeta che si consegnò al silenzio proviene da Pangea.