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La mente è un campo di battaglia. “Auto da fé”: storia di un libro necessario
Si alza un fumo denso da una biblioteca addormentata, tra scaffali muti e finestre sigillate. Una lingua di fuoco percorre costole di volumi, lambisce l’inchiostro, accarezza le idee fino a consumarle e trasformarle in alveo perturbante. L’aria è immobile, ma qualcosa brucia, lentamente, silenziosamente, nel cuore stesso del pensiero. Là dove la mente si fa tempio e prigione e il sapere incanta, inabissa, devasta. L’incontro tra follia e cultura ha un nome, un volto, un ordine narrativo. Esso nasce come visione, febbre, vertigine. Il delirio e l’erudizione di Auto da fè sono incisioni su lastre di vetro: ogni parola taglia, rifrange, moltiplica. E ciò che prende forma è il ritratto di un’intelligenza assoluta e assolutista, che cerca nella purezza intellettuale la salvezza, trovandovi invece la più irreversibile delle solitudini. > “La nostra esistenza è tutta una mostruosa cecità”. Il romanzo-mondo di Elias Canetti, apparso nel 1935 sotto il titolo tedesco Die Blendung è un’opera unica, per certi versi indecifrabile, e si offre al globo come labirinto, rogo in cui la parola si consuma nel falò della conoscenza. Il protagonista, Peter Kien, sinologo di fama internazionale, vive immerso in un culto libresco che sconfina nella più feroce misantropia. La sua esistenza ascetica si svolge interamente tra gli scaffali della sterminata biblioteca privata: ottantamila volumi, che Kien definisce “le uniche creature degne di rispetto”. La realtà esterna, per Kien, è un’interferenza da cui difendersi; la lingua un’arma da perfezionare sino alla lacerazione. Ma come ogni sistema autoreferenziale, anche la sua torre di Babele è destinata a crollare. Il matrimonio con la sua governante Therese, figura grottesca e carnale, antitesi vivente della purezza intellettuale, innesca una vertiginosa discesa nell’abisso. > “Poco mancava che Kien cedesse alla tentazione di credere nella felicità, > questa spregevole meta degli analfabeti”. Canetti, ebreo sefardita nato il 25 luglio del 1905 a Ruse e cresciuto fra Vienna, Zurigo e Francoforte, scrive questo romanzo negli anni in cui l’Europa si inabissa nel culto della forza e della massa, su cui Canetti inciderà con il celebre Massa e potere. In contrasto, Auto da Fé, a lungo ignorato, ha trovato un nuovo eco nel secondo dopoguerra, anche grazie al riconoscimento tardivo conferito a Canetti con il Nobel per la Letteratura nel 1981. Il titolo originario, Die Blendung, evoca l’accecamento, tanto fisico quanto metaforico: è la cecità dell’intellettuale isolato, incapace di leggere i segni del tempo; ma è anche la cecità della cultura quando si chiude in sé stessa, quando diventa autorità dogmatica, repressione del corpo, negazione del mondo. Non a caso, il titolo inglese, scelto da Canetti stesso, Auto da Fé, richiama i roghi inquisitoriali, in cui i libri, e le idee, venivano ridotti in cenere. Il sapere che brucia se stesso. A livello stilistico, Auto da fé è un’opera straniante, costruita su un linguaggio ossessivo, talora volutamente meccanico, che restituisce la rigidità mentale dei personaggi. Ogni figura è iperbolica, caricaturale, come se uscisse da un incubo kafkiano o da una pièce espressionista: Therese, massa informe e famelica; il portinaio Fischerle, gobbo paranoico e megalomane; Georges, il fratello psichiatra, emblema della razionalità normalizzante. Tutti i personaggi orbitano attorno a Kien come satelliti impazziti, e insieme compongono una satira amara della società moderna, in cui la cultura non salva, ma isola, ossifica, disumanizza. > “Si potrebbe quasi credere che sia un morto. A che scopo vive un essere di > quella specie […] Una persona simile non serve a nulla.” In questo senso, Auto da fé è una critica radicale alla fiducia illuminista nella ragione. Kien non è un umanista, ma un feticista del sapere; la sua cultura è ritiro solitario, la sua mente una camera stagna. Lungi dall’essere salvifica, la conoscenza diventa un assoluto che divora colui che la persegue. “Chi non ha libri è perduto,” dice Kien. Ma Canetti ci mostra, con feroce lucidità, che chi ha solo libri lo è altrettanto. Proprio per questo, pochi giorni fa, ho deciso di incidere Kien sulla mia pelle; il suo volto baffuto che si fascia gli occhi per isolarsi nel suo mondo, per essere come quei ciechi che lui stesso ama e detesta; Kien sta lì, completamente perso, cieco volontario tra i ciechi inconsapevoli, a ricordarmi che oggi, in un’epoca segnata dal sovraccarico informativo, dall’inflazione dei saperi e dalla crisi dell’autorità intellettuale, la sua storia risuona con un’attualità inquietante. È un monito contro ogni forma di idolatria del sapere, contro la tentazione di annientarsi, di nascondersi dentro un cervello inanime, di rinchiudersi nella torre d’avorio della propria persona.  > “Al mondo, dice, ci sono troppi libri e troppi stomaci affamati.” Elias Canetti ci considera impotenti, non vuole e non può proporci soluzioni o redenzioni. Ci offre solamente un ritratto impietoso della mente contemporanea, colta nel momento della sua combustione. Un cervello in fiamme, come la biblioteca di Kien. Un’auto da fé, appunto, in cui si brucia non solo il corpo dell’intellettuale, ma anche la sua illusione di dominio. E in questo luglio che si arroventa, non possiamo non ricordare che il 25 saranno trascorsi 120 anni dalla nascita di Elias Canetti. 120 anni dalla comparsa di uno spirito lucido e profetico, che ha saputo guardare nell’occhio della follia collettiva senza arretrare, e che ancora oggi ci parla con una voce che arde come brace sotto la cenere della storia. Auto da fé è un’opera al limite tra sapere e psicosi, tra parola e silenzio, tra individuo e massa. Canetti ci costringe a interrogarci non solo su ciò che sappiamo, ma su come e perché lo sappiamo. L’anima di Kien è rovina nobile, cattedrale gotica che crolla su chi la abita troppo a lungo. Il pensiero, se assoluto, si chiude con catene d’oro, lucide e serrate. E allora, cosa ci resta? Il crepitio, l’eco. Resta la figura dell’intellettuale come incendiario e superstite, come martire di un sapere che abbaglia e consuma. Canetti ci insegna che la mente è un campo di battaglia e solo l’incendio può redimerci; nel buio della catarsi, l’abisso sa leggere anche noi. Tommaso Filippucci *In copertina: Francisco Goya, Capricho No. 23: Aquellos polvos L'articolo La mente è un campo di battaglia. “Auto da fé”: storia di un libro necessario proviene da Pangea.
July 22, 2025 / Pangea
Il pellegrino della meraviglia. Omaggio a Elias Canetti
> È vero che tutto deve cominciare repentinamente, ma se poi non segue un > istante di raccoglimento la cosa si sgretola subito e va perduta. Repentinità > e raccoglimento si compenetrano perché una cosa risulti bella: il lampo > dell’occhio e la pazienza delle mani. > > E. Canetti, La rapidità dello spirito * Nelle folgoranti, indimenticabili pagine iniziali di Tolstoj e Dostoevskij, George Steiner sostiene che la critica letteraria dovrebbe scaturire da un debito di amore.  > “In modi evidenti e tuttavia misteriosi una poesia o un dramma o un romanzo > afferrano la nostra immaginazione. Nel momento in cui deponiamo il libro non > siamo più quelli che eravamo prima di leggerlo”. Scrivere qualcosa su Canetti, oggi, mi pare richieda proprio questo: il tentativo di saldare ciò che ancora resta in sospeso, a credito dell’autore bulgaro. Avevo previsto di cominciare con una disamina del volume di saggi La coscienza delle parole. Ma ben presto mi sono accorto che Canetti mi tirava per la giacchetta, trascinandomi altrove, irresistibilmente, verso altri suoi libri — e in particolare verso le pagine degli Appunti, che egli scrisse con meticolosa costanza dal 1942 fino a poco prima della morte. L’opera di Canetti è piena di amorose corrispondenze: echi di significato che si richiamano da un luogo all’altro del suo dettato, come stelle appartenenti alla medesima costellazione, disperse tra le vaste distanze delle galassie. Ecco perché quanto segue somiglierà più a ciò che, nella letteratura cinese, è noto come biji, o, nella tradizione giapponese, come zuihitsu: uno zibaldone di frammenti e lampeggiamenti, simili a colpi di pennello tremolanti appena tracciati su una tela. Non sembrerà poi così assurdo, allora, parlare di Kafka ed evocare, nello stesso respiro, la forza del mito e la leggerezza del taoismo. Da qualche parte – nei Campi Elisi degli scrittori – immagino già un timido sorriso illuminare il volto sobrio di Canetti. * Marina Nadotti, in una significativa chiosa a un’opera del compianto John Berger, usò un’espressione che mi colpì per la sua risonanza evocativa: “ospitalità del pensiero”. Con quell’immagine, Nadotti indicava una particolare disposizione della mente e del cuore: un’attitudine a lasciarsi attraversare, con curiosità e generosità, dalle multiformi esperienze della vita sensibile e di quella interiore. Tutto, nel dettato di Canetti, sembra chiedere proprio questo: di essere accolto, abbracciato, riconosciuto – con una smisurata empatia emozionale. In questo senso, Canetti appare come l’ultimo degli umanisti: un instancabile alchimista del sapere, intento a ibridare ambiti solo apparentemente distinti come l’antropologia, la storia, la letteratura, la critica. Ma, a differenza della baldanza fiduciosa del faber rinascimentale, la sua aspirazione alla conoscenza è costantemente attraversata da una minaccia incombente: il terribile volto della storia. Colpisce, in Canetti, la vastità dell’argomentazione, sostenuta da un’erudizione mai fine a sé stessa, ma sempre animata da un profondo senso di responsabilità etica. Una responsabilità che si esercita, in prima istanza, nei confronti della lingua e delle parole che la compongono. Basti pensare al titolo del primo volume del trittico autobiografico: La lingua salvata. La biografia canettiana è segnata, fin dagli esordi, da una convivenza fitta e inquieta di lingue e culture, che l’autore sente il dovere di proteggere dalla deriva babelica, dalla cannibalesca supremazia dell’una sull’altra. Da qui nascono la sua fiducia nelle parole “non travestite”, capaci di restituire barlumi di autenticità, e un sentimento di vibrante commozione verso l’atto stesso del nominare il mondo: come se, nel dare nome alle cose, si riattivasse ogni volta un legame originario — e dunque atemporale — tra lo sguardo dello scrittore e ciò che lo circonda.  > “Il mio Dio è il nome, il soffio della mia vita è la parola.” Le parole non sono mai ancelle né gregarie dell’uomo, ma ne riflettono la parte migliore: quella, in fin dei conti, meno vulnerabile all’oblio della morte. > “Ma ci sono parole di un tipo particolare, che accendono l’entusiasmo, quelle > che contengono spazio e futuro, vastità da ogni parte. Quanto di storto e di > vano era racchiuso nell’uomo ora si espande d’improvviso con enorme fretta in > cento direzioni diverse, con le sue parole egli va a toccare per dritto e per > traverso inizio e fine e centro del mondo.” * Seduce, in Canetti, il dialogo sempre aperto con le grandi civiltà asiatiche – soprattutto con quella cinese: un volgersi verso forme altre di cultura, di scrittura, di differente visione del mondo. A questo movimento di apertura verso l’esterno ne corrisponde uno speculare di ripiegamento interiore in sé stessi: è il Canetti degli Appunti, che si avvicina alla parte più autentica di noi, in un atto di responsabilità verso il proprio tempo. Indagarsi, interrogarsi, aprirsi all’orizzonte del cambiamento: come nella disposizione d’animo del viaggiatore.  Anche in questo, Canetti rivela una fibra quasi rinascimentale, come un Montaigne del ventesimo secolo: tuttavia, sotto la superficie, affiora sempre un senso sottile d’inquietudine, lo svelamento progressivo della desacralizzazione di ogni cosa. Diventa allora più arduo, per il viaggiatore-scrittore, testimoniare la perdita dello stupore, l’ammutolirsi della sorpresa. Eppure, in fondo, la letteratura non è che questo: il dimorare del pellegrino nella meraviglia. La missione dello scrittore: fare il vuoto dentro di sé e accogliervi la traboccante ricchezza dell’esistente, la metamorfosi continua che attraversa la storia e le vicende umane. Ancora, cercare le fontane dove stilla la musica delle antiche favole, ritrovare tracce dei miti nel respiro del mondo. Canetti vorrebbe credere in un universo dove dimorano gli dèi, dove il lampo e il tuono abitano nello sguardo delle tigri e i vascelli solcano le acque tra i mostri marini e le isole incantate dei Feaci. Il mito è come il viaggio: si insedia in una dimensione senza tempo, dove lo sguardo degli uomini non si posa mai due volte sullo stesso luogo e ogni cosa parla il linguaggio prebabelico della meraviglia. > “I nuovi luoghi non si inseriscono nei vecchi significati. Per un certo tempo > ci apriamo realmente. Tutte le storie passate, la nostra vita stracolma, che > soffoca di senso, ci restano dietro le spalle d’improvviso, come se le > avessimo lasciate in deposito da qualche parte., e mentre se ne stanno là > accade l’assolutamente inesplicato: il nuovo”. Una delle ragioni dell’imbarbarimento dei tempi moderni sta nell’aver staccato la spina ai miti. Canetti vive con dolore l’assenza totale degli dèi nel presente: al loro posto, sul trono del mondo, siede il volto impietoso e definitivo della storia sanguinosa.  > “Per me il pensiero più desolante è che alla storia non si sfuggirà mai più. E > questo il vero motivo per cui continuo ad armeggiare tra tutti i miti? Ripongo > forse speranze in un mito dimenticato che possa salvarci dalla storia?” * All’interno della raccolta di saggi La coscienza delle parole, brillano i due capitoli dedicati a Kafka e al suo epistolario con Felice, la donna che avrebbe dovuto sposare e alla quale fu legato da un rapporto tormentoso e conflittuale. Lo sguardo di Canetti sul celebre scrittore è di una sconvolgente e disarmante tenerezza. Faccio fatica a trovare altri esempi in cui la critica letteraria si spogli della sua arroganza cattedratica per diventare pura immersione nell’opera che si pone come oggetto di studio. Forse, solo Cortázar, nel suo memorabile A passeggio con John Keats, può essere annoverato come una fulgida eccezione. Nessun altro scrittore è stato capace di penetrare così a fondo nelle interiorità di un autore, e al tempo stesso, da speleologo di un destino incistato nella letteratura, di offrirci un ritratto così potente. Kafka: l’artista che trova giustificazione solo nella letteratura, che vive grazie alla letteratura e di letteratura. Il dilemma intimo dello scrittore boemo: quanto più la sua scrittura cresce in intensità, tanto più l’individuo si percepisce sempre più piccolo, attratto come da un gorgo incantato dal grande, terribile e meraviglioso oceano d’inchiostro nero che si stende sul foglio di fronte a lui. Il sogno di Kafka: così come un certo tipo di storiografia ci mostra Nerone, all’apice della solitudine, contemplare Roma devastata dall’incendio, così Kafka desidera che, nella notte, solo lui rimanga sveglio nel mondo, per poter finalmente “farsi carico” dell’umanità e confrontarsi con la sua multiforme essenza. Si sente, in quel momento, giustificato davanti a sé stesso e agli altri. A Kafka serve una statura, una postura da superstite, da ultimo uomo sulla terra: nella sua stanza, a lume di candela, scrive come se inviasse missive dall’Arca, in mezzo al diluvio. Kafka: il poeta sempre in lotta contro il potere, alla ricerca di una libertà assoluta e senza vincoli, così come il ritmo del respiro, il compenetrarsi degli estremi, l’abbraccio di violenza e tenerezza.  Ecco uno dei sensi della parabola di Canetti, alfiere di un dettato che cavalca verso l’altrove, ma mai in fuga rispetto al cuore oscuro del presente – più che di vino, di oscuro sangue è fatta la storia del mondo. In questo senso, l’eterogeneità della raccolta di saggi diventa naturale rifrazione della multiformità dell’esistente: convivono, in una straordinaria galleria di ritratti, Hermann Broch, autore del folgorante La morte di Virgilio, Karl Kraus, Georg Büchner – il cui Woyzeck ha cambiato la vita di Canetti –, Tolstoj e Confucio, esempio mirabile di integrità etica e letteraria. * Nel capitolo Dialogo con il terribile partner, tra i più belli di tutta la raccolta, Canetti esplora le ragioni che spingono certi uomini a tenere un diario. Colpisce, in queste pagine, l’importanza attribuita ai diari di viaggio, ai quali ci si accosta fin da bambini. Il sentimento di una vita ingessata in pose ormai fisse, l’oppressione di una realtà troppo carica di senso, l’avvicendarsi di vicende sempre note ci spingono verso i resoconti di viaggio, dove tutto è ancora al di qua di ogni inizio, avventura dopo avventura, giorno dopo giorno. Solo immaginando città straniere, lingue misteriose e luoghi irripetibili possiamo colmare la nostra insaziabile voglia di metamorfosi. Non sorprendono quindi l’interesse sempre vivo di Canetti per l’antropologia, lo studio comparato di civiltà lontane nello spazio e nel tempo, la sua predilezione verso i grandi diari di viaggio, come quello del cinese Hsüan Tang o dell’arabo Ibn Battura, e l’ammirazione verso forme di scrittura distanti – il Libro del Guanciale di Sei Shōnagon e Storia di Genji, di Murasaki Shikibu. * Tutti ricordano giustamente Canetti per il trittico autobiografico o per quel monumento del pensiero che è Massa e Potere. Eppure, io credo che il vero capolavoro dello scrittore siano i suoi Appunti, raccolti nell’arco di tutta una vita. Come non restare trafitti da quel dettato eracliteo fatto di lampeggiamenti, echi di senso dove il tuono si propaga a valle, di piccoli incendi e ripide cascate? Leggere Canetti è come cartografare il mondo, portando sempre dentro di sé il senso del mistero e della meraviglia. Esiste un breve scritto di Borges che chiude L’artefice, piccola opera quasi testamentaria del grande argentino. Nella mia copia del libro, ormai un po’ sgualcita, ho sottolineato con un leggerissimo tratto di lapis le ultime righe. Mi sembra che possano spiegare meglio di qualsiasi altra cosa ciò che Elias Canetti rappresenta per me. > “Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno > spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, > di isole, di pesci, di case, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. > Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia > l’immagine del suo volto”. Lorenzo Giacinto L'articolo Il pellegrino della meraviglia. Omaggio a Elias Canetti proviene da Pangea.
April 25, 2025 / Pangea
“Uomo, stupisciti”. Vagabondaggi nel cuore del “dottor Sonne”, il poeta che si consegnò al silenzio
Ogni poeta nasconde un segreto che la sua vecchiaia si incarica di custodire. Nei poeti senza tarda età, il segreto si assottiglia, resta sospeso per anni, vaga nelle nubi incerte delle interpretazioni e nel folto sottobosco delle note a piè di pagina; poi, con un movimento indistinto, ritorna al centro dell’opera, indisturbato, non visto, non notato, come nella Lettera rubata di Poe. Ma nei poeti che decidono di tacere e si rinchiudono a guscio nella vecchiaia, la questione minaccia di togliere il sonno: come giustificare, come tollerare che un corpo continui a esistere a dispetto delle sue poesie? Il mistero della creazione è spaventoso quando l’artefice, muto, ci sta davanti senza fornirci spiegazioni, come nel peggiore degli incubi.  È la sensazione che si prova di fronte al silenzio di un poeta-prodigio ebraico, Avraham Ben Yitzhak: un nome che sembra la trascrizione esatta, indelebile, di un salmo. Nato in Galizia nel 1883, in una nicchia geografica che gli permetteva di spaziare lo sguardo verso la Russia, l’Europa centrale e l’Impero austro-ungarico, a quindici anni già scriveva poesie in ebraico; allo stesso tempo, fu influenzato dalla nuova poesia europea di lingua tedesca, incarnata in tre dei suoi migliori araldi: il cupo e allucinato lirismo di Trakl, il simbolismo rabbrividente di Hofmannsthal e l’aerea levità metafisica di Rilke.  Quando si legge Ben Yitzhak, è facile pensare a una sorta di rosa degli inizi: mentre tutto il mondo va avanti, e nel modo più sanguinario possibile, un poeta non ancora ventenne cerca di rievocare la voce degli ispirati con un timbro inconfondibile. L’impressione è che mentre gli altri poeti cercavano di definire in poesia gli eventi, con un pinnacolo di versi a volte stordente, Ben Yitzhak andava definendo una cattedrale di sensazioni sorta dalla pietra angolare di un personale stupore: mentre i primi si servivano della realtà per stimolare una sensibilità in esaurimento, Ben Yitzhak utilizzava l’impalcatura del reale per fondare un nuovo personalissimo senso.  Si esce dalle sue poesie, che sono undici, come dopo altrettanti incontri privati con uno stregone: l’impressione è di chi sa quali corde far risuonare per smuovere qualcosa nella calca del mondo. Quello che colpisce immediatamente nelle undici Poesie di Avraham Ben Yitzhak – raccolte in un miracoloso libro edito da Portatori d’acqua nel 2018 – è la sensibilità senza filtri verso il mondo; l’assenza di compromessi linguistici di chi vede tutto e vuole dire tutto subito, a costo di pagare questa fedeltà all’istante poetico con un trentennale silenzio. Il lettore, semplicemente, si trova di fronte ai versi di un uomo che vive più intensamente degli altri: così, nelle pochissime poesie che ci ha lasciato, ogni evento – la primavera, la tempesta, il vento, la mietitura, la foresta – si trasfigura in qualcosa di più alto, che richiede solo la vertigine dello sgomento e della contemplazione. Come confessa in uno dei suoi diari:  > «Io, che ora sto seduto qui nella sala che uomini hanno decorato, con la coppa > d’uva accanto a me, quanta fatica, quanta cura, quanta astuzia, e quanto > dolore e quanta disperazione, quanti trionfi sono passati finché questa > banalità non si è trasformata nell’oggi attorno a me. Uomo, stupisciti. E > tremante, e Dio». La vera novità di Yitzhak risiede proprio nel suo bilinguismo poetico. Avvenimento più unico che raro, scrisse poesie in tedesco e in ebraico, tanto da essere definito dalla critica un novello Hölderlin. Se pensiamo a Paul Celan, il più grande poeta ebreo in lingua tedesca, crediamo di scorgere in Yitzhak il fondamento di una spiritualità altrettanto tormentata e sibillina: forse Yitzhak disertò la scrittura per preservare una purezza cristallina che minacciava di sgretolarsi; forse evitò di continuare a scrivere perché la consapevolezza della poesia, della predisposizione alla poesia, gli sussurrava che la lettera uccide lo spirito.  Del suo silenzio sono state fornite più spiegazioni: il crollo della Mitteleuropa, la malattia ai polmoni e, da ultimo, la perdita di alcuni scritti in seguito alla capitolazione della città natale, Przemysl, durante la Prima guerra. Alcuni, più sottili, sostengono che Yitzhak si rendeva conto che la letteratura ebraica non era ancora pronta ad accogliere l’innovazione delle sue poesie. Oppure, ancora, che viveva in modo talmente poetico da ricorrere alla poesia scritta soltanto nei momenti più prosaici. Eppure, in questo dedalo di ipotesi, la più convincente sembra la confessione fatta all’amica e poetessa Lea Goldberg:  > «Detto tra noi, ho scritto molto in quel periodo. Avevo quaderni pieni di > appunti e di tentativi di espressione. Tutto è andato perduto durante la Prima > guerra mondiale. Appena fuori dalla cittadina vi era un campo di cavoli rossi. > Un giorno stavo camminando nel bosco quando d’improvviso mi giunse un odore di > acqua stagnante, e capii che qualcosa stava per accadere. Proseguii per la mia > strada e vidi uno specchio d’acqua, al di sopra di esso un’altura e ai suoi > piedi il campo di cavoli. Vi si trovavano tutte le sfumature di rosso che si > possono immaginare. Da quello chiaro, quasi rosa, sino al viola. La lingua > umana – qualsiasi lingua – è troppo povera per esprimere ciò che vedono i > nostri occhi. Quali parole possediamo per trasmettere con precisione il > colore? Per giorni interi rimasi seduto davanti al campo, cercando di > trasmettere per mezzo del linguaggio quella visione».  Una resa incondizionata di fronte alla superiorità del reale che ricorda il libro-svolta di uno dei suoi poeti prediletti, la Lettera a Lord Chandos di Hofmannsthal, una sorta di congedo silenzioso dalla letteratura che Kafka, il quale conosceva il peso che reca con sé ogni parola, amava moltissimo. L’essenziale, di regola, è sempre breve o ambisce alla brevità. Elias Canetti, che lo incontrò a Vienna rimanendone abbagliato (Sonne, il vero cognome di Yitzhak, in tedesco significa sole) ci ha lasciato di lui un ritratto indimenticabile nel terzo volume della sua autobiografia, Il gioco degli occhi. Ogni lettore che varca la soglia di questo capolavoro non tarderà ad accorgersi che il libro, più che incentrarsi sulla frequentazione di titani quali Robert Musil, Hermann Broch e Thomas Mann, si fonda sul fascino ipnotizzante che esercitarono le conversazioni e gli incontri col “dottor Sonne”, appostato nei bar di Vienna in rigorosa osservanza dell’arte della discrezione. Canetti scrive che incontrarlo gli dava l’impressione di avere davanti a sé «un uomo nelle cui mani confluivano i fili degli avvenimenti». Così, il ritratto di un uomo straordinario, che nulla ha lasciato se non uno scarno fascicolo di poesie, riesce a oscurare il lascito imponente di scrittori che hanno dedicato la loro esistenza a opere che occupano più scaffali di una biblioteca. Il lettore, dopo aver letto anche una sola delle sue poesie, potrà camminare più leggero per il mondo, portando in sé l’anima «come una goccia di cristallo», consapevole che la poesia, come ha scritto Paul Celan, è una forte tendenza ad ammutolire. Andrea Muratore ** Inverno lucente Puro e duro e bianco è il mondo. Dal nord il vento ieri ha messo in fuga sogni di nebbia cieca ed errante senza fine… Oggi il vento trattiene il respiro. Neve abbagliante all’intorno, e ombra cerulea di monti cieli azzurro pallido, vibrano nella propria luce. E nell’ombra – preso nel suo splendore di gelo si distende il fiume, quasi corazzato di squame – scuro smeraldo di ghiaccio  dalle nevi splendenti, sino a che si perde il suo dorso verdognolo e tortuoso laggiù lontano… dove la luce del giorno ha preso fuoco, con un bagliore dalle bianche fiamme — come se il sole fosse caduto sui blocchi informi di ghiaccio dal duro cristallo e si fosse infranto… Chiudo gli occhi. In me il sangue giubila e mi risuona nelle orecchie:  puro è il mondo. Mi sembra: insieme al cuore della terra,  pulsa in me il cuore; e scorre assieme ai rivoli che fluiscono sotto la crosta ghiacciata. Puro… il mondo… puro… * Salmo Per pochissimi istanti capita che porti in te l’anima come una goccia di cristallo: un mondo pieno del suo sole e di sfumature rifratte, un’orda di visioni e di parole tremanti; là volgi gli occhi come alla goccia di cristallo –  e tuttavia quel mondo teme di versarsi non sopporta di essere riempito e trema fino ai margini estremi… ed ecco sei consegnato a tutta l’eternità. –  Estreme lontananze trasparenti ti fluiscono dagli occhi e terrori d’oscurità vi si approfondiscono; –  ti trovano cose lontane e vicine –  e vogliono la tua vita. Nel silenzio delle notti ti ergi sulla cima dei monti, e tra stelle grandi e fredde poni il capo. Sprofondano a terra quanti vivono al di sotto; e sull’ultima vampa della loro sventura scende il nero oblio – mentre sei sveglio davanti ai terrori  al di sopra dell’oscurità. E se cade una stella da una fiamma tremante sale un ruggito dalle angosce della distruzione ai cieli – e cade la stella nella tua anima e nel suo abisso si spegne… E sul far del mattino ecco aleggi sulla superficie dell’abisso per distendervi i tuoi cieli profondi, e il sole grande nella tua mano fino a sera. *In copertina: un disegno di Alberto Giacometti del 1965 L'articolo “Uomo, stupisciti”. Vagabondaggi nel cuore del “dottor Sonne”, il poeta che si consegnò al silenzio proviene da Pangea.
March 29, 2025 / Pangea