Esiste un tipo d’uomo che nasce aurora e muore nuvola: illumina, promette, ma
non riscalda. Un lampo che non precede il tuono, un seme che conosce la forma
dell’albero ma non affonda mai le radici. Un tipo d’uomo che cammina con parole
di fuoco sulle labbra, ma con piedi di vetro, che parla di verità, giustizia,
bellezza — un profeta senz’altare. Rudin è uno di questi. È l’eco di tutte le
generazioni che hanno saputo cosa cambiare, ma non come.
Nel 1856, Ivan Turgenev pubblicava Rudin, il suo primo romanzo, tracciando il
ritratto inconfondibile di un uomo colto, brillante, idealista – eppure incapace
di agire. A quasi due secoli di distanza, la figura di Dmitrij Rudin resta
inquietantemente attuale. È l’archetipo dell’intellettuale disarmato, simile a
protagonisti russi come Eugene Onegin di Puškin e Pečorin di Lermontov; coloro
che hanno tutte le parole del mondo, ma nessuna azione nelle mani. Uomini di
idee senza opere, di ideali senza sacrifici. Coloro che non vivono, bensì
declamano la vita. Parlano di futuro, ma rimangono prigionieri di loro stessi.
> “Gli uomini hanno bisogno di questa fede; essi non possono vivere di
> impressioni soltanto, è un peccato per loro di temere il pensiero e di non
> aver confidenza con esso. Lo scetticismo si è sempre distinto per fecondità,
> per impotenza.”
In Rudin si annida la malinconia dell’inconcluso, la nobiltà sterile del
pensiero che non sa incarnarsi. È un personaggio che seguirà il filone dei
protagonisti turgeneviani, quelli che come Icaro volano verso il sole con ali di
concetti, e che come Icaro, cadono – ma non per eccesso di coraggio, bensì per
esitazione.
L’influenza dell’idealismo tedesco e del Romanticismo è il prisma attraverso cui
si può leggere gran parte dell’anima di Rudin. Egli parla come un discepolo
tardivo di Hegel, immaginando lo Spirito Assoluto scorrere nei suoi monologhi,
ma senza la forza storica della sintesi. È innamorato dell’infinito, come ogni
romantico educato ai versi di Schiller e alla filosofia di Fichte: per lui,
l’idea non è uno strumento, ma una dimora. Il mondo esterno, con i suoi limiti e
la sua carne, gli appare come una minaccia alla purezza concettuale. Così resta
inchiodato alla soglia, dove l’ideale non diventa realtà, ma simulacro. Come un
pianista che conosce lo spartito ma non osa toccare il piano, Rudin incarna la
grandezza sterile del pensiero assoluto.
Eppure, Turgenev stesso traccerà più avanti un controcanto: in Padri e figli,
egli oppone a Rudin la figura di Bazarov. Se Rudin è il predicatore delle idee
non vissute, Bazarov è il nichilista, l’iconoclasta che nega ogni altezza. Tra i
due si apre una frattura generazionale: l’uno è figlio del Romanticismo e della
filosofia, l’altro del disincanto scientifico. Rudin crede ancora nella bellezza
della parola, Bazarov nella freddezza dell’azione. Entrambi, però, falliscono a
modo loro. Il primo affoga nella retorica, il secondo nel cinismo. In questo
confronto, Turgenev non prende posizione, ma ci offre due specchi: uno per le
illusioni che ci paralizzano, l’altro per le verità che ci svuotano. In Rudin,
Turgenev ha scolpito una condizione che incarna quella malattia dell’anima che
Nietzsche avrebbe poi definito decadentismo dello spirito; ma egli non lo
condanna: lo contempla. Rudin non è un fallito, è un segnale. Un avvertimento
per ogni epoca in cui la parola rischia di sostituire il gesto, e in cui il
cielo, pur bellissimo, si dimentica della terra.
Dmitrij Rudin è incapace di trasformare il fuoco in gesto. È un filosofo da
salotto, un oratore da veranda estiva, innamorato di concetti e idee come altri
uomini si innamorano di donne. Ma le sue idee non mettono radici nella realtà.
Sono fiori secchi in un vaso di porcellana: belli da vedere, ma già morti.
> “Egli dimostrò che l’uomo senza amor proprio è niente, che l’amor proprio è la
> leva di Archimede, con la quale si può sollevare il mondo […] L’uomo deve
> stroncare il tenace egoismo della sua personalità per dare a questa il diritto
> di manifestarsi!”
Anche nell’amore, Dmitrij è incompiuto. La giovane e forte Natal’ja lo ama con
l’istinto del vivere, mentre lui la ama come si ama un’idea: da lontano, con un
certo timore. Quando arriva il momento di scegliere, indietreggia, preferendo la
coerenza astratta alla realtà impura dell’esistenza. Così perde tutto: non solo
l’amore, ma anche l’occasione di diventare ciò che predicava.
Turgenev, con la sua scrittura delicata e malinconica, dà voce a una generazione
post-napoleonica pronta alla bufera rivoluzionaria (forse ci ricorda qualcosa).
Rudin però è il figlio di un tempo sospeso, di una Russia ancora addormentata,
dove l’azione non ha ancora trovato la sua lingua, e la parola si consuma
nell’eco. La sua tragedia è tutta interiore: sapere cosa andrebbe fatto, ma non
riuscire mai a farlo. Rudin però non è un codardo, è solamente privo della forza
incarnata del vivere. È il pensiero che non sa sporcarsi. Forse per questo alla
fine morirà altrove, come un Don Chisciotte tardivo, combattendo una rivoluzione
non sua, in una terra straniera, come se solo lontano dalla propria voce potesse
finalmente agire. Ma è troppo tardi. La sua morte non redime, non compie: è
l’epilogo silenzioso di una sinfonia mai suonata.
> “La frase, è vero, mi ha rovinato, mi ha perduto; sino alla fine non ho potuto
> disfarmene. Ma ciò che ho detto non è una frase. Non sono una frase, fratello,
> questi capelli bianchi, queste rughe; questi gomiti logorati non sono una
> frase.”
Rileggendolo due secoli dopo, capiamo che Rudin vive ancora oggi, in ogni
intellettuale che sa parlare ma non fare, in ogni anima che cerca la verità per
osservarla da lontano. È la figura eterna dell’uomo che conosce il sentiero, ma
si perde nella mappa. Eppure, la sua malinconica grandezza sta proprio lì: nella
purezza dei suoi sogni non realizzati, nella struggente bellezza di chi voleva
cambiare il mondo – e non ha nemmeno cambiato se stesso.
> “Sono nato sopra sabbie mobili – Non posso fermarmi.”
Quante volte abbiamo parlato e non agito? Quante volte abbiamo scambiato
l’ideale per il compimento? La filosofia greca ha esaltato il pensiero come
suprema attività dell’anima, ma in Rudin vediamo il volto oscuro di questa
esaltazione: il pensiero come rifugio, come paralisi. L’ideale, se non si fa
azione, si consuma in se stesso, si svuota. Errore non è cecità, lo è invece
l’inazione; non il peccato, ma l’inerzia dell’anima. L’agire od il patire; Rudin
vive nell’attesa di un’epoca che non arriva, in un eterno non ancora. È un uomo
che vede la vetta, ma non sa camminare. Per questo ci lascia tra le liane del
nostro animo a riflettere: è peggio fallire tentando o non tentare affatto per
paura di fallire?
Tommaso Filippucci
*In copertina: Théodore Géricault, Ritratto di Delacroix, 1819 ca.
L'articolo “Sono nato sopra sabbie mobili”. Apoteosi di Rudin, l’idealista che
non sa agire, l’intellettuale di oggi proviene da Pangea.
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Il fuoco e la paglia, il crampo tra la noce moscata e il chiodo di garofano, il
nubìvago dimenticato; Salomo Friedlaender – alias Mynona – è il filosofo
giambico che fece della carezza prima dello schiaffo la chiave della sua
rivolta. Nel deserto dei cadaveri dell’identità sociale, l’assurdo balla, il
delirio squarta, la cicciona sconfigge l’orco; Mynona è la maschera che non
chiede scusa – ma che ride, e ride, e ride…
Nato nel 1871 a Gollantsch, allora terra tedesca, oggi Polonia, Salomo
Friedlaender sboccia nella prigione della serietà; figlio di un medico ebreo e
di una madre musicista, crebbe al crocevia tra rigore e dissonanza, scienza e
poesia. La sua vita fu un ponte levatoio tra l’interno e l’esterno, tra la
filosofia e il grottesco, tra la maschera e la verità assoluta.
Studente di medicina a Monaco, poi filosofo per vocazione a Berlino e Jena,
Friedlaender non cercava risposte, bensì domande più grandi. Ben presto trovò
nella speculazione il suo teatro interiore. A Berlino si immerse nei circoli
bohémien, accanto agli espressionisti, ai dadaisti, ai visionari. Qui nacque
Mynona: “Anonym” (anonimo) scritto al contrario – la firma di una scrittura che
ride sotto i baffi, di un giocoliere grottesco.
Dal 1909 iniziò a firmare racconti, satire e poesie che sembravano sfuggire a
ogni logica – o meglio, che reinventavano la logica come un carnevale perpetuo e
provocatore.
> “Affermo con coraggio di essere attualmente l’unico a rappresentare una certa
> sintesi tra Kant e il clown Chaplin”.
Il suo mondo era popolato da personaggi eccentrici, situazioni impossibili,
frasi che si rincorrevano come equilibristi sul filo dell’assurdo. “Fasching als
Logik” – il carnevale come logica – divenne la sua poetica. Mynona è sempre
attratto dall’aspetto pietoso o derisorio della condizione umana; una situazione
è spinta all’estremo fino a sfociare nell’assurdo o nel surreale.
> “Tutto questo è, Dio ce ne scampi, solo una zuffa da topi, una piccola rissa
> teologica da gattini.”
Tra il 1910 e il 1920, Berlino fu il suo laboratorio: una metropoli in fermento,
tra avanguardie artistiche e tempeste politiche. Dietro la maschera
dell’umorismo, infatti, Friedlaender celava un pensiero radicale. Dopo
un’iniziale passione per Schopenhauer, fu Kant a segnare per lui una
“rivoluzione spirituale”. Visse un’esistenza laboriosa da insegnante e al
contempo una vita bohémien con i suoi amici, in particolare Paul Scheerbart e
Carl Einstein. Fu parte dei gruppi d’avanguardia, dei circoli espressionisti,
dadaisti e attivisti, e nel cenacolo della rivista Der Sturm. Fin dall’inizio
del secolo, apparse spesso sulla scena del “Neopathetisches Cabaret”, dove,
insieme a Kurt Hiller, Jakob van Hoddis, Georg Heym, René Schickele, e Frank
Wedekind, portò al successo la satira, la polemica e l’umorismo nero, leggendo i
suoi testi grotteschi.
> “Posso solo darvi un buon consiglio: non urlate mai dentro un uovo! provoca un
> tale trambusto rotolante, che vi farà stare malissimo”.
Dal 1911 al 1914, collaborò con Die Aktion e, già dal 1910, il suo nome apparve
nei sommari di una serie di periodici d’avanguardia, spesso molto effimeri, di
cui adotta volentieri il tono aggressivo e polemico. La libertà del pensiero,
l’indipendenza dello spirito, la religione della ragione: la sua teorizzazione
di “Indifferenzza Attiva” è un invito a non lasciarsi ingabbiare: né dai dogmi,
né dalle ideologie, né dalle identità imposte.
Nei suoi scritti, filosofia e letteratura si confondono: ogni aforisma è
un’esperienza, ogni racconto una domanda. Divenne un maestro del grottesco, una
figura inclassificabile che destabilizza e incanta. “Nessun autore di lingua
tedesca, prima o dopo di lui, ha sviluppato la forma del grottesco a un tale
livello di maestria,” scrive Hartmut Geerken.
La sua associazione al movimento dadaista potrebbe facilmente specchiarsi
nell’affermazione di Hugo Ball:
> “Il dadaista combatte contro l’agonia e il delirio di morte del suo tempo…
> Quello che celebriamo è al tempo stesso una buffonata e una messa funebre”.
Ma Friedlaender resta, nonostante tutto, un metafisico e un moralista, e di
certo non mancano le critiche dei suoi colleghi, così Thomas Mann rispose a una
lettera di René Schickele nel 1939, che gli chiedeva di sostenere Mynona:
> “Non mi piace Mynona e non voglio vederlo in giro. Ha sempre avuto una bocca
> sfacciata alla Tersite”.
Anche il mondo accademico faticò a seguirlo. Mentre l’Europa si avviava verso
l’orrore, Mynona si mise in guardia dai “pigrotti della svastica”, anticipando
con ironia disperata la propria emarginazione.
Con l’ascesa del nazismo, la sua voce si fece più affilata e più tragica. Nel
1933 fuggì in esilio a Parigi, dove visse anni difficili, dimenticato dai più,
ma fedele al proprio stile, scriveva ancora, anche se il mondo attorno sembrava
non ascoltare.
> “Da un secolo ormai mi sforzo enormemente di solleticare il mio popolo con
> ogni sorta di pagliuzze nel naso, senza che esso abbia finora davvero voluto
> starnutire”.
Morì a Parigi nel 1946, nella povertà assoluta, lasciando dietro di sé un’opera
frammentaria, scomoda, impossibile da incasellare. Fu grazie a Ellen Otten e ad
altri studiosi che la sua opera cominciò a riemergere, come un enigma letterario
da decifrare; fu tradotto solamente in lingua inglese e spagnola ed è inedito in
Italia.
> “Chi porta alla luce, in modo stridente e urlante, il grottesco della nostra
> esistenza, apre uno scorcio indiretto su una vita autentica, tanto oscura
> quanto certa”.
Come un caleidoscopio in cui apparenza e verità, comicità e profondità, si
rincorrono all’infinito, Mynona è un invito a guardare il mondo da
un’angolazione obliqua, dove solo chi ride può intuire davvero l’assoluto.
La raccolta Rosa, die schöne Schutzemannsfrau. Grotesken (1913), segnò il suo
debutto e uno dei suoi maggiori successi. Nel breve racconto da cui prende il
nome (tradotto a fine articolo), Mynona trasforma il desiderio e il potere in un
grottesco paradosso. L’eroismo della divisa si trasforma in un feticismo
erotico. Rosa, la bella donna del poliziotto, non è attratta dall’uomo che
indossa il simbolo del potere, ma dal potere stesso che l’uniforme incarna. Rosa
è la protagonista di una “Verkehrung”, un’inversione in cui ciò che è sacro –
l’autorità – diventa oggetto di desiderio erotico. Il potere, anziché essere la
forza dell’individuo, diventa simbolo di un vuoto identitario. Mynona gioca con
il linguaggio, distorcendolo per smascherare le contraddizioni della modernità.
La risata che nasce da questa inversione non è solo comica, ma una critica
feroce ai valori stabiliti, dove il sacro e il profano si mescolano. In questa
parodia del potere, l’isteria diventa la chiave per vedere il mondo con occhi
nuovi, finalmente liberi dalle maschere dell’autorità.
Egli non solo deride le convenzioni, ma le riplasma, le distorce, le trasforma
in una lingua che è tanto poetica quanto inquietante. In ogni battuta, in ogni
paradosso, invita a riflettere: se l’ordine è il caos vestito da divisa, cosa
rimane della nostra identità? Se l’erotico è ridotto a ideologia, quanto siamo
davvero liberi di scegliere ciò che amiamo?
> “Il creatore del grottesco è profondamente convinto che bisogna quasi
> ‘disinfettare con lo zolfo’ questo mondo che ci circonda, per purificarlo da
> ogni parassita; egli diventa un disinfestatore dell’anima”.
Mynona – duplice firma bastarda – è il simbolo di una scrittura che non si
inginocchia, di un pensiero che osa schernire l’assoluto. Friedlaender fu
pensatore clandestino, artista dell’inversione, solitario in dialogo con
l’infinito. Leggerlo è un sogno lucido; da evitare se si cercano certezze, da
seguire se si ama l’estremo.
Salomo Friedlaender è il vento metafisico scandito da folate di parodia; il
riflesso di uno specchio infranto, la maschera derisoria che trasfigura, che
rovescia. Dietro smorfie e lazzi, caricature da cabaret sono i lapilli di un
pensiero che scoppietta sotto la lingua. Mynona è un vulcano travestito da
giullare, un alchimista utopico, un’ombra deforme che mantiene la sua promessa.
L’identità moderna non può tirare i freni dell’uomo, le vertigini non possono
fermare la rivoluzione, la resa non può essere un’alternativa; con il viso nella
lava, nell’Atanor, nel buio del mondo, Mynona assapora la possibilità di
rimanere umani.
Tommaso Filippucci
***
Rosa, la bella donna del poliziotto
Avete presente le ore uggiose in cui il poliziotto rimane sotto la pioggia per
ore e ore, e la sua donna nel mentre…?
Ma Rosa, la bella donna del poliziotto, era completamente diversa. Perché?
Perché era così diversa? Non erano certo le circostanze, ma lei stessa. E non
era certo a causa del marito, un tipo all’antica, diciamo, che Rosa amava. Ma un
miglior conoscitore di donne (con la fortuna negli occhi) una volta mi disse: la
donna è un bel segreto. E quando non fui d’accordo con lui, aggiunse: svelala
solo esteriormente, mai emotivamente! Poi disse qualcosa di Schiller, una
citazione che ho dimenticato, ma che non dimenticherò mai! Nel frattempo, Rosa
uscì e – credetemi! – camminava così bene che la bocca di un antico invalido si
aprì di scatto e la sua pipa divenne anch’essa invalida. Rosa camminava
sull’asfalto bagnato; attraversava uno splendido passaggio, superava il
terrapieno con la gonna alta. All’angolo si trovava l’uomo che l’amava, non suo
marito, ma anche lui un uomo.
Così a quest’uomo scese una lacrima alla vista della profumata Rosa che
passeggiava (non camminava come le signore d’accordo con se stesse, né
problematicamente come le donne di mezzo mondo, e certamente non come la troppo
nota ragazza del popolo, sapete, formosa e allegrotta; camminava, non posso
dirlo in altro modo: come se camminasse nella sua persona). Un monocolo sarebbe
stato generalmente più seducente, ma questo insegna l’autocontrollo, e l’uomo
non lo aveva per lei. Rosa non si accorse dell’uomo fino a che non gli si
avvicinò di corsa e gli parlò con foga:
“Farei qualsiasi cosa per te, qualsiasi cosa! Non dire niente, ti capisco. Ma
lei non mi capisce, non si rende conto di quanto sto soffrendo e di quanto sono
felice nonostante tutto. Non dire niente! Mio marito è in servizio, piove, sta
in piedi sul bagnato, è un poliziotto. Non è questo! Ma non riesco a superarlo.
Oh! Gli sono ancora più fedele quando non è con me. So che mi ami.
Non è un pericolo – oh mio Dio! Potremmo possederci a vicenda. . . Certo! Ed è
interiormente impossibile per me: non come moglie, ma come donna del poliziotto.
Vi amo – se questo vi consola! Niente mi può consolare, sono peggio di una
suora, perché lei può rinunciare ai suoi voti, io sono legata a me stessa”.
Ricordo che l’uomo aveva due gambe, che iniziarono ad agitarsi in modo
particolare durante le parole di Rosa. A volte stava a destra, a volte a
sinistra, si toglieva anche il cappello e si passava la mano tra i ricchi e
folti capelli bruni. Stava in piedi sulla testa, sospirando come un uccello
della foresta sognante, schiaffeggiando i polpacci con il bastone da passeggio,
roteando gli occhi come Nerone al rogo di Roma. Rosa concluse così:
“Comprendimi! Già da piccola, quando vedevo una guardia, avevo le convulsioni.
Non so se è così per tutti. La mia coscienza non mi lascia riposare, questa
divisa è ciò che mi rende donna, qualcosa di morbido, pallido, tremante,
sopraffatto”.
Nella testa dell’uomo si accese una luce, percepì qualcosa come la nascita
dell’uniforme dallo spirito dell’erotismo. Poi all’improvviso chiese
gelidamente: “E se osassi indossare un’uniforme come quella? E dicessi: che cosa
ha tuo marito in più degli altri?”.
Rosa arricciò il naso da Venere: “Prima, assolutamente niente, ma ora tutto,
tutto! Quando ne ho preso uno, per gli altri era finita – sì, anche se ci ha
fatto il favore di rendermi vedova – non potevo dimenticarlo! Non è amore,
l’amore è stupido al confronto, sono questa donna del poliziotto con tutto il
corpo e l’anima. Lo sono e lo resterò”.
L’uomo barcollò come Golia quando fu colpito dalla fionda di Davide… beh, già lo
sapete. Ma non cadde; urlò così forte che un poliziotto si avvicinò. Urlò come
un pazzo: “Ma questa è follia! Bisogna lasciarla andare via con l’ipnosi! È una
cosa facilissima da determinare psicoanaliticamente. Oh, devo andare subito a
Vienna da Freud in persona…”
Non andò oltre; una di quelle mani pesanti, familiari a quasi tutti i nativi
tedeschi, si posò sulla sua spalla contratta: “Non lo farai!” affermò il
poliziotto di Rosa – era lui. “Per favore, andatevene in modo discreto e
decoroso. Non mi preoccupo per mia moglie. Tutti la amano e lei ama tutti.
Nell’amore non c’è resistenza. È giovane, bella e focosa: basta guardarla! Ma ha
la stoffa per farlo! Hai sentito. E adesso basta! Spesso non sono a casa, non
posso fermarti – ma sono più protetto dalle corna. Avrebbe rotto il matrimonio
senza esitazione, ma non questo; È così garantito da ciò che hai appena chiamato
follia che io stesso – a volte si hanno pensieri del genere – non potrei
cambiarlo. Nanu Adieu!”.
Se ne andò con Rosa. L’uomo, stordito, nella direzione opposta. Non vide mai più
Rosa. Non riuscì mai a strappare dal suo cuore l’amore per lei. Fu molto più
tardi (davanti alla cattedrale di Strasburgo) che mormorò cupamente tra sé e sé:
“Rosa, adorabile segreto! Sfinge di tutta la gendarmeria!”
“Accidenti”, disse qualcuno quando glielo dissi, “Reprimi meglio le tue idee!”.
Oh sì! Tutti dovrebbero tenere la bocca chiusa sulla Sfinge, più Sfinge della
Sfinge. “E non chiamate la mia bocca bocca!”, mi interruppe la sfinge nel suo
silenzio lungo un miglio.
L'articolo “Una piccola rissa teologica da gattini”. Mynona, lo scrittore
grottesco, una sintesi tra Kant e Chaplin proviene da Pangea.