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Genesi di un nazista. Alfred Andersch e la scuola di Himmler, ovvero: imparare a obbedire
Un esile monolite austero, essenziale, incandescente. Breve come una sentenza capace di incidere nella carne viva della Storia, la domanda che nessun fiammifero riesce a pronunciare senza bruciare: da dove nasce un assassino? Il male non ha un principio teatrale, non comincia con un grido o un’esplosione. Il male indossa i panni del giorno feriale, siede in cattedra, detta compiti, chiede declinazioni. Il male, spesso, si impara. E in un breve romanzo – un pugno e una preghiera – Alfred Andersch ci porta dentro l’aula dove il suo alter ego, Franz Kien, adolescente inquieto, è protagonista di un’inquietudine più grande: la sua espulsione dalla ginnasio per mano del preside Himmler; sì, il padre di quel Himmler, quell’Heinrich al tempo ancora ragazzino, ancora impacciato, ancora figlio, colui che diverrà generale, poliziotto e criminale di guerra tedesco; il diretto organizzatore della soluzione finale all’origine dell’Olocausto. Il padre di un assassino (Der Vater eines Mörders) è l’ultimo testo che Alfred Andersch pubblica, un ago di luce infilato nel passato, rivolto al silenzio. È un’invocazione contro l’oblio travestita da racconto scolastico. Scrivere questo libro – nel 1980, un mese prima della sua morte – fu per Andersch una forma di testamento civile. Trasmettere una ferita. > “Il giovane Himmler è un tipo molto a posto – gli aveva detto suo padre – un > giovanotto in gamba, un seguace di Hitler, ma non fazioso.” È il 1928. Siamo in un Gymnasium bavarese. Andersch è protagonista di una scena apparentemente banale: un’interrogazione, un errore, uno sguardo che si fa giudizio. Ma tra quei banchi, tra quelle frasi arcaiche e le pause imposte dal silenzio, si gioca qualcosa di più profondo: il rito della sottomissione. Il preside Himmler è il custode di un mondo morente, quello della Germania imperiale, della pedagogia rigida come il passo dell’oca, del latino come lingua sacra dell’obbedienza. Il preside. L’autorità. Il vetro. L’arma. Kien, invece, è l’erede di un tempo nuovo, ancora oscuro, ancora informe, ma già indotto a sfidare la violenza. L’atto educativo diventa allora un processo al bambino stesso: il preside non insegna, giudica. E il giudizio, lo sappiamo, è la prima forma di condanna. > “Le pagelle scolastiche sono l’unico documento personale della mia infanzia e > della mia adolescenza che sia sopravvissuto alla guerra. Sono firmate dal > preside del ginnasio Wittelsbach: Himmler.” Nato nel 1914 a Monaco, Alfred Andersch cresce nel cuore di una Germania ancora traumatizzata dalla sconfitta nella Prima guerra e dalle turbolenze della Repubblica di Weimar. Abbandona presto la scuola, rifiutando la disciplina soffocante dell’istruzione tradizionale. Si iscrive giovanissimo al partito comunista e subisce l’internamento a Dachau. Durante la seconda guerra mondiale viene arruolato nella Wehrmacht e, nel 1944, diserta in Italia per farsi catturare dagli Alleati. Passa il resto della guerra come prigioniero in un campo americano. Al ritorno, fonda con Hans Werner Richter il celebre Gruppo 47, fucina della nuova letteratura tedesca del dopoguerra.  > “Non serve davvero a niente, pensò Franz, che io continui a fingere che le > risposte alle sue domande mi vengano a mancare proprio quando me le pone. > Perchiò butto fuori un ‘no’ a bassa voce, ma senza esitazione.” Andersch è un autore schivo e complesso, fin troppo antiaccademico per l’élite letteraria, troppo borghese per la sinistra rivoluzionaria. È tuttavia sempre lucido, sempre inquieto. Mai compromesso nonostante le censure. Reduce dal dissenso, esule per scelta, narratore del margine, egli affida al ricordo l’onere della resistenza. Scrive con la sobrietà di chi ha molto visto e poco dimenticato. Non c’è pianto, non c’è retorica. Il suo stile è secco come una sentenza scolastica ma ci fa sentire come se sotto la superficie asciutta del testo si agitasse un magma di colpa e domande senza risposta. Lui stesso spiega il motivo dell’uso di un alter ego:  > “Il raccontare in terza persona permette a uno scrittore di essere il più > sincero possibile. Lo aiuta a superare le inibizioni di cui difficilmente puo’ > liberarsi quando dice – Io –”. Perché, però, raccontare questo spaccato d’infanzia congelata? Perché lì, in quella mattina di maggio, Andersch ha visto l’origine del nazismo: non nei proclami, non nella folla, ma nell’educazione come strumento di controllo, nella famiglia come prima caserma, nella scuola come anticamera del Reich. Il ventre in cui si forma la disciplina cieca, il seme del fanatismo, la grammatica dell’obbedienza. Una frase come una misura. Una bilancia. Un confine. È tutto qui, nel gesto minimo del giudicare, Andersch cerca la radice, osserva, ricorda la forma mentis che rende possibile l’assassinio; egli scrive per non tacere.. > “La definizione di assassino per Heinrich Himmler è molto mite; non è stato un > assassino qualsiasi ma, fin dove arrivano le mie nozioni storiche, il più > grande sterminatore di vite umane che sia mai esistito.” Il vero tema del libro, dunque, non è Himmler o lo stesso Andersch: è il modo in cui si costruisce un individuo incapace di scegliere. Andersch lascia che la scena parli da sé. L’assassino non nasce per vocazione. Ma per esposizione quotidiana a una cultura che educa all’obbedienza come virtù. Il vero Nazismo è un’enorme pedagogia del conformismo. Quando nel 1961 Hannah Arendt assiste al processo Eichmann a Gerusalemme, formula la celebre teoria della Banalità del male. Eichmann non è un mostro, non è un sadico: è un uomo mediocre, che si è rifiutato di pensare. Un funzionario della morte che ha applicato regole. Un alunno modello del sistema. Il padre di un assassino mostra qualcosa di simile: il male come effetto collaterale dell’obbedienza, come frutto dell’incapacità di mettere in discussione l’autorità, di dire “no”. Il preside Himmler, con la sua educazione cinica, non guida; misura. E nella misura c’è già la distanza, e nella distanza, l’abbandono. > “Non era stupido, era semplicemente senza idee. Quella lontananza dalla realtà > e quella mancanza di idee, possono essere molto più pericolose di tutti gli > istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo.” > > Hannah Arendt Il padre di un assassino (uscito, in Italia, per Guanda e per Marcos y Marcos) è anche un trattato implicito su come l’istruzione possa deformare l’essere umano. Il giovane Himmler, sconosciuto all’Andersch ragazzino, non è all’epoca l’uomo dei campi di sterminio, ma è guidato verso la metamorfosi in mostro. Foucault affermava che la scuola, così come la caserma e la prigione, è un’istituzione che plasma i corpi e le menti attraverso la microfisica del potere. L’autorità si interiorizza nei gesti quotidiani, nei voti, negli sguardi. Chi obbedisce non lo fa più per pa1ura, ma perché ha imparato che obbedire è giusto. In questo senso, il padre di Himmler — preside, figura autorevole, rappresentante della vecchia Germania imperiale — è un’emanazione viva del potere disciplinare. Ma non è un carnefice. Non è nemmeno un ideologo. È un funzionario. Un nodo nella rete. Anche Nietzsche, in Al di là del bene e del male, smaschera l’educazione, la intende come meccanismo di addomesticamento. La cultura borghese tedesca, quella in cui è nato Himmler, ha prodotto individui obbedienti, ben nutriti e incapaci di pensiero critico. L’uomo addestrato non è l’uomo libero. La massa, infatti, come spiega EliasCanetti, desidera il comando, e l’autorità diventa figura sacra proprio perché intoccabile, distante, paterna. La scena del preside che espelle il giovane Andersch è perfetta per incarnare una distanza sacralizzata: il potere che si legittima non parlando mai abbastanza. > “Io mi sono tratto d’impaccio, poichè ho tentato di scrivere la storia di un > ragazzo che non ha voglia di studiare. E neppure in questo senso la cos aè > priva di ambiguità: ci saranno lettori che, di fronte allo scontro fra il Rex > e Franz Kien, prenderanno le parti del preside.” La tragedia non è che Himmler diventerà un assassino. È che nessuno glielo impedirà in tempo, perché tutti avranno fatto della disciplina la regola della sopravvivenza. Andersch ci da quindi un avvertimento. Un libro breve come un ricordo, ma duro come un monito inciso nella carne. Ogni società educa i propri figli. Ogni educazione trasmette una visione del mondo. Quale mondo stiamo insegnando? In un tempo in cui vige la reificazione dell’uomo; in un’epoca che ama la performance, il ranking, la produttività, e che premia il silenzio mascherandolo da competenza, questo libro resta un contrappunto filosofico radicale. Forse non è l’odio a generare l’assassino. Forse è l’obbedienza cieca, il rispetto con la benda sugli occhi, il sistema che premia chi non mette in dubbio nulla. Forse, siamo tutti fanatici prigioneri. Tommaso Filippucci L'articolo Genesi di un nazista. Alfred Andersch e la scuola di Himmler, ovvero: imparare a obbedire proviene da Pangea.
August 8, 2025 / Pangea
La mente è un campo di battaglia. “Auto da fé”: storia di un libro necessario
Si alza un fumo denso da una biblioteca addormentata, tra scaffali muti e finestre sigillate. Una lingua di fuoco percorre costole di volumi, lambisce l’inchiostro, accarezza le idee fino a consumarle e trasformarle in alveo perturbante. L’aria è immobile, ma qualcosa brucia, lentamente, silenziosamente, nel cuore stesso del pensiero. Là dove la mente si fa tempio e prigione e il sapere incanta, inabissa, devasta. L’incontro tra follia e cultura ha un nome, un volto, un ordine narrativo. Esso nasce come visione, febbre, vertigine. Il delirio e l’erudizione di Auto da fè sono incisioni su lastre di vetro: ogni parola taglia, rifrange, moltiplica. E ciò che prende forma è il ritratto di un’intelligenza assoluta e assolutista, che cerca nella purezza intellettuale la salvezza, trovandovi invece la più irreversibile delle solitudini. > “La nostra esistenza è tutta una mostruosa cecità”. Il romanzo-mondo di Elias Canetti, apparso nel 1935 sotto il titolo tedesco Die Blendung è un’opera unica, per certi versi indecifrabile, e si offre al globo come labirinto, rogo in cui la parola si consuma nel falò della conoscenza. Il protagonista, Peter Kien, sinologo di fama internazionale, vive immerso in un culto libresco che sconfina nella più feroce misantropia. La sua esistenza ascetica si svolge interamente tra gli scaffali della sterminata biblioteca privata: ottantamila volumi, che Kien definisce “le uniche creature degne di rispetto”. La realtà esterna, per Kien, è un’interferenza da cui difendersi; la lingua un’arma da perfezionare sino alla lacerazione. Ma come ogni sistema autoreferenziale, anche la sua torre di Babele è destinata a crollare. Il matrimonio con la sua governante Therese, figura grottesca e carnale, antitesi vivente della purezza intellettuale, innesca una vertiginosa discesa nell’abisso. > “Poco mancava che Kien cedesse alla tentazione di credere nella felicità, > questa spregevole meta degli analfabeti”. Canetti, ebreo sefardita nato il 25 luglio del 1905 a Ruse e cresciuto fra Vienna, Zurigo e Francoforte, scrive questo romanzo negli anni in cui l’Europa si inabissa nel culto della forza e della massa, su cui Canetti inciderà con il celebre Massa e potere. In contrasto, Auto da Fé, a lungo ignorato, ha trovato un nuovo eco nel secondo dopoguerra, anche grazie al riconoscimento tardivo conferito a Canetti con il Nobel per la Letteratura nel 1981. Il titolo originario, Die Blendung, evoca l’accecamento, tanto fisico quanto metaforico: è la cecità dell’intellettuale isolato, incapace di leggere i segni del tempo; ma è anche la cecità della cultura quando si chiude in sé stessa, quando diventa autorità dogmatica, repressione del corpo, negazione del mondo. Non a caso, il titolo inglese, scelto da Canetti stesso, Auto da Fé, richiama i roghi inquisitoriali, in cui i libri, e le idee, venivano ridotti in cenere. Il sapere che brucia se stesso. A livello stilistico, Auto da fé è un’opera straniante, costruita su un linguaggio ossessivo, talora volutamente meccanico, che restituisce la rigidità mentale dei personaggi. Ogni figura è iperbolica, caricaturale, come se uscisse da un incubo kafkiano o da una pièce espressionista: Therese, massa informe e famelica; il portinaio Fischerle, gobbo paranoico e megalomane; Georges, il fratello psichiatra, emblema della razionalità normalizzante. Tutti i personaggi orbitano attorno a Kien come satelliti impazziti, e insieme compongono una satira amara della società moderna, in cui la cultura non salva, ma isola, ossifica, disumanizza. > “Si potrebbe quasi credere che sia un morto. A che scopo vive un essere di > quella specie […] Una persona simile non serve a nulla.” In questo senso, Auto da fé è una critica radicale alla fiducia illuminista nella ragione. Kien non è un umanista, ma un feticista del sapere; la sua cultura è ritiro solitario, la sua mente una camera stagna. Lungi dall’essere salvifica, la conoscenza diventa un assoluto che divora colui che la persegue. “Chi non ha libri è perduto,” dice Kien. Ma Canetti ci mostra, con feroce lucidità, che chi ha solo libri lo è altrettanto. Proprio per questo, pochi giorni fa, ho deciso di incidere Kien sulla mia pelle; il suo volto baffuto che si fascia gli occhi per isolarsi nel suo mondo, per essere come quei ciechi che lui stesso ama e detesta; Kien sta lì, completamente perso, cieco volontario tra i ciechi inconsapevoli, a ricordarmi che oggi, in un’epoca segnata dal sovraccarico informativo, dall’inflazione dei saperi e dalla crisi dell’autorità intellettuale, la sua storia risuona con un’attualità inquietante. È un monito contro ogni forma di idolatria del sapere, contro la tentazione di annientarsi, di nascondersi dentro un cervello inanime, di rinchiudersi nella torre d’avorio della propria persona.  > “Al mondo, dice, ci sono troppi libri e troppi stomaci affamati.” Elias Canetti ci considera impotenti, non vuole e non può proporci soluzioni o redenzioni. Ci offre solamente un ritratto impietoso della mente contemporanea, colta nel momento della sua combustione. Un cervello in fiamme, come la biblioteca di Kien. Un’auto da fé, appunto, in cui si brucia non solo il corpo dell’intellettuale, ma anche la sua illusione di dominio. E in questo luglio che si arroventa, non possiamo non ricordare che il 25 saranno trascorsi 120 anni dalla nascita di Elias Canetti. 120 anni dalla comparsa di uno spirito lucido e profetico, che ha saputo guardare nell’occhio della follia collettiva senza arretrare, e che ancora oggi ci parla con una voce che arde come brace sotto la cenere della storia. Auto da fé è un’opera al limite tra sapere e psicosi, tra parola e silenzio, tra individuo e massa. Canetti ci costringe a interrogarci non solo su ciò che sappiamo, ma su come e perché lo sappiamo. L’anima di Kien è rovina nobile, cattedrale gotica che crolla su chi la abita troppo a lungo. Il pensiero, se assoluto, si chiude con catene d’oro, lucide e serrate. E allora, cosa ci resta? Il crepitio, l’eco. Resta la figura dell’intellettuale come incendiario e superstite, come martire di un sapere che abbaglia e consuma. Canetti ci insegna che la mente è un campo di battaglia e solo l’incendio può redimerci; nel buio della catarsi, l’abisso sa leggere anche noi. Tommaso Filippucci *In copertina: Francisco Goya, Capricho No. 23: Aquellos polvos L'articolo La mente è un campo di battaglia. “Auto da fé”: storia di un libro necessario proviene da Pangea.
July 22, 2025 / Pangea
“Sono nato sopra sabbie mobili”. Apoteosi di Rudin, l’idealista che non sa agire, l’intellettuale di oggi
Esiste un tipo d’uomo che nasce aurora e muore nuvola: illumina, promette, ma non riscalda. Un lampo che non precede il tuono, un seme che conosce la forma dell’albero ma non affonda mai le radici. Un tipo d’uomo che cammina con parole di fuoco sulle labbra, ma con piedi di vetro, che parla di verità, giustizia, bellezza — un profeta senz’altare. Rudin è uno di questi. È l’eco di tutte le generazioni che hanno saputo cosa cambiare, ma non come. Nel 1856, Ivan Turgenev pubblicava Rudin, il suo primo romanzo, tracciando il ritratto inconfondibile di un uomo colto, brillante, idealista – eppure incapace di agire. A quasi due secoli di distanza, la figura di Dmitrij Rudin resta inquietantemente attuale. È l’archetipo dell’intellettuale disarmato, simile a protagonisti russi come Eugene Onegin di Puškin e Pečorin di Lermontov; coloro che hanno tutte le parole del mondo, ma nessuna azione nelle mani. Uomini di idee senza opere, di ideali senza sacrifici. Coloro che non vivono, bensì declamano la vita. Parlano di futuro, ma rimangono prigionieri di loro stessi. > “Gli uomini hanno bisogno di questa fede; essi non possono vivere di > impressioni soltanto, è un peccato per loro di temere il pensiero e di non > aver confidenza con esso. Lo scetticismo si è sempre distinto per fecondità, > per impotenza.” In Rudin si annida la malinconia dell’inconcluso, la nobiltà sterile del pensiero che non sa incarnarsi. È un personaggio che seguirà il filone dei protagonisti turgeneviani, quelli che come Icaro volano verso il sole con ali di concetti, e che come Icaro, cadono – ma non per eccesso di coraggio, bensì per esitazione. L’influenza dell’idealismo tedesco e del Romanticismo è il prisma attraverso cui si può leggere gran parte dell’anima di Rudin. Egli parla come un discepolo tardivo di Hegel, immaginando lo Spirito Assoluto scorrere nei suoi monologhi, ma senza la forza storica della sintesi. È innamorato dell’infinito, come ogni romantico educato ai versi di Schiller e alla filosofia di Fichte: per lui, l’idea non è uno strumento, ma una dimora. Il mondo esterno, con i suoi limiti e la sua carne, gli appare come una minaccia alla purezza concettuale. Così resta inchiodato alla soglia, dove l’ideale non diventa realtà, ma simulacro. Come un pianista che conosce lo spartito ma non osa toccare il piano, Rudin incarna la grandezza sterile del pensiero assoluto. Eppure, Turgenev stesso traccerà più avanti un controcanto: in Padri e figli, egli oppone a Rudin la figura di Bazarov. Se Rudin è il predicatore delle idee non vissute, Bazarov è il nichilista, l’iconoclasta che nega ogni altezza. Tra i due si apre una frattura generazionale: l’uno è figlio del Romanticismo e della filosofia, l’altro del disincanto scientifico. Rudin crede ancora nella bellezza della parola, Bazarov nella freddezza dell’azione. Entrambi, però, falliscono a modo loro. Il primo affoga nella retorica, il secondo nel cinismo. In questo confronto, Turgenev non prende posizione, ma ci offre due specchi: uno per le illusioni che ci paralizzano, l’altro per le verità che ci svuotano. In Rudin, Turgenev ha scolpito una condizione che incarna quella malattia dell’anima che Nietzsche avrebbe poi definito decadentismo dello spirito; ma egli non lo condanna: lo contempla. Rudin non è un fallito, è un segnale. Un avvertimento per ogni epoca in cui la parola rischia di sostituire il gesto, e in cui il cielo, pur bellissimo, si dimentica della terra. Dmitrij Rudin è incapace di trasformare il fuoco in gesto. È un filosofo da salotto, un oratore da veranda estiva, innamorato di concetti e idee come altri uomini si innamorano di donne. Ma le sue idee non mettono radici nella realtà. Sono fiori secchi in un vaso di porcellana: belli da vedere, ma già morti.  > “Egli dimostrò che l’uomo senza amor proprio è niente, che l’amor proprio è la > leva di Archimede, con la quale si può sollevare il mondo […] L’uomo deve > stroncare il tenace egoismo della sua personalità per dare a questa il diritto > di manifestarsi!” Anche nell’amore, Dmitrij è incompiuto. La giovane e forte Natal’ja lo ama con l’istinto del vivere, mentre lui la ama come si ama un’idea: da lontano, con un certo timore. Quando arriva il momento di scegliere, indietreggia, preferendo la coerenza astratta alla realtà impura dell’esistenza. Così perde tutto: non solo l’amore, ma anche l’occasione di diventare ciò che predicava. Turgenev, con la sua scrittura delicata e malinconica, dà voce a una generazione post-napoleonica pronta alla bufera rivoluzionaria (forse ci ricorda qualcosa). Rudin però è il figlio di un tempo sospeso, di una Russia ancora addormentata, dove l’azione non ha ancora trovato la sua lingua, e la parola si consuma nell’eco. La sua tragedia è tutta interiore: sapere cosa andrebbe fatto, ma non riuscire mai a farlo. Rudin però non è un codardo, è solamente privo della forza incarnata del vivere. È il pensiero che non sa sporcarsi. Forse per questo alla fine morirà altrove, come un Don Chisciotte tardivo, combattendo una rivoluzione non sua, in una terra straniera, come se solo lontano dalla propria voce potesse finalmente agire. Ma è troppo tardi. La sua morte non redime, non compie: è l’epilogo silenzioso di una sinfonia mai suonata. > “La frase, è vero, mi ha rovinato, mi ha perduto; sino alla fine non ho potuto > disfarmene. Ma ciò che ho detto non è una frase. Non sono una frase, fratello, > questi capelli bianchi, queste rughe; questi gomiti logorati non sono una > frase.” Rileggendolo due secoli dopo, capiamo che Rudin vive ancora oggi, in ogni intellettuale che sa parlare ma non fare, in ogni anima che cerca la verità per osservarla da lontano. È la figura eterna dell’uomo che conosce il sentiero, ma si perde nella mappa. Eppure, la sua malinconica grandezza sta proprio lì: nella purezza dei suoi sogni non realizzati, nella struggente bellezza di chi voleva cambiare il mondo – e non ha nemmeno cambiato se stesso. > “Sono nato sopra sabbie mobili – Non posso fermarmi.” Quante volte abbiamo parlato e non agito? Quante volte abbiamo scambiato l’ideale per il compimento? La filosofia greca ha esaltato il pensiero come suprema attività dell’anima, ma in Rudin vediamo il volto oscuro di questa esaltazione: il pensiero come rifugio, come paralisi. L’ideale, se non si fa azione, si consuma in se stesso, si svuota. Errore non è cecità, lo è invece l’inazione; non il peccato, ma l’inerzia dell’anima. L’agire od il patire; Rudin vive nell’attesa di un’epoca che non arriva, in un eterno non ancora. È un uomo che vede la vetta, ma non sa camminare. Per questo ci lascia tra le liane del nostro animo a riflettere: è peggio fallire tentando o non tentare affatto per paura di fallire? Tommaso Filippucci *In copertina: Théodore Géricault, Ritratto di Delacroix, 1819 ca. L'articolo “Sono nato sopra sabbie mobili”. Apoteosi di Rudin, l’idealista che non sa agire, l’intellettuale di oggi proviene da Pangea.
June 26, 2025 / Pangea
“Una piccola rissa teologica da gattini”. Mynona, lo scrittore grottesco, una sintesi tra Kant e Chaplin
Il fuoco e la paglia, il crampo tra la noce moscata e il chiodo di garofano, il nubìvago dimenticato; Salomo Friedlaender – alias Mynona – è il filosofo giambico che fece della carezza prima dello schiaffo la chiave della sua rivolta. Nel deserto dei cadaveri dell’identità sociale, l’assurdo balla, il delirio squarta, la cicciona sconfigge l’orco; Mynona è la maschera che non chiede scusa – ma che ride, e ride, e ride… Nato nel 1871 a Gollantsch, allora terra tedesca, oggi Polonia, Salomo Friedlaender sboccia nella prigione della serietà; figlio di un medico ebreo e di una madre musicista, crebbe al crocevia tra rigore e dissonanza, scienza e poesia. La sua vita fu un ponte levatoio tra l’interno e l’esterno, tra la filosofia e il grottesco, tra la maschera e la verità assoluta. Studente di medicina a Monaco, poi filosofo per vocazione a Berlino e Jena, Friedlaender non cercava risposte, bensì domande più grandi. Ben presto trovò nella speculazione il suo teatro interiore. A Berlino si immerse nei circoli bohémien, accanto agli espressionisti, ai dadaisti, ai visionari. Qui nacque Mynona: “Anonym” (anonimo) scritto al contrario – la firma di una scrittura che ride sotto i baffi, di un giocoliere grottesco. Dal 1909 iniziò a firmare racconti, satire e poesie che sembravano sfuggire a ogni logica – o meglio, che reinventavano la logica come un carnevale perpetuo e provocatore.  > “Affermo con coraggio di essere attualmente l’unico a rappresentare una certa > sintesi tra Kant e il clown Chaplin”. Il suo mondo era popolato da personaggi eccentrici, situazioni impossibili, frasi che si rincorrevano come equilibristi sul filo dell’assurdo. “Fasching als Logik” – il carnevale come logica – divenne la sua poetica. Mynona è sempre attratto dall’aspetto pietoso o derisorio della condizione umana; una situazione è spinta all’estremo fino a sfociare nell’assurdo o nel surreale. > “Tutto questo è, Dio ce ne scampi, solo una zuffa da topi, una piccola rissa > teologica da gattini.” Tra il 1910 e il 1920, Berlino fu il suo laboratorio: una metropoli in fermento, tra avanguardie artistiche e tempeste politiche. Dietro la maschera dell’umorismo, infatti, Friedlaender celava un pensiero radicale. Dopo un’iniziale passione per Schopenhauer, fu Kant a segnare per lui una “rivoluzione spirituale”. Visse un’esistenza laboriosa da insegnante e al contempo una vita bohémien con i suoi amici, in particolare Paul Scheerbart e Carl Einstein. Fu parte dei gruppi d’avanguardia, dei circoli espressionisti, dadaisti e attivisti, e nel cenacolo della rivista Der Sturm. Fin dall’inizio del secolo, apparse spesso sulla scena del “Neopathetisches Cabaret”, dove, insieme a Kurt Hiller, Jakob van Hoddis, Georg Heym, René Schickele, e Frank Wedekind, portò al successo la satira, la polemica e l’umorismo nero, leggendo i suoi testi grotteschi. > “Posso solo darvi un buon consiglio: non urlate mai dentro un uovo! provoca un > tale trambusto rotolante, che vi farà stare malissimo”. Dal 1911 al 1914, collaborò con Die Aktion e, già dal 1910, il suo nome apparve nei sommari di una serie di periodici d’avanguardia, spesso molto effimeri, di cui adotta volentieri il tono aggressivo e polemico. La libertà del pensiero, l’indipendenza dello spirito, la religione della ragione: la sua teorizzazione di “Indifferenzza Attiva” è un invito a non lasciarsi ingabbiare: né dai dogmi, né dalle ideologie, né dalle identità imposte. Nei suoi scritti, filosofia e letteratura si confondono: ogni aforisma è un’esperienza, ogni racconto una domanda. Divenne un maestro del grottesco, una figura inclassificabile che destabilizza e incanta. “Nessun autore di lingua tedesca, prima o dopo di lui, ha sviluppato la forma del grottesco a un tale livello di maestria,” scrive Hartmut Geerken.  La sua associazione al movimento dadaista potrebbe facilmente specchiarsi nell’affermazione di Hugo Ball: > “Il dadaista combatte contro l’agonia e il delirio di morte del suo tempo… > Quello che celebriamo è al tempo stesso una buffonata e una messa funebre”. Ma Friedlaender resta, nonostante tutto, un metafisico e un moralista, e di certo non mancano le critiche dei suoi colleghi, così Thomas Mann rispose a una lettera di René Schickele nel 1939, che gli chiedeva di sostenere Mynona: > “Non mi piace Mynona e non voglio vederlo in giro. Ha sempre avuto una bocca > sfacciata alla Tersite”. Anche il mondo accademico faticò a seguirlo. Mentre l’Europa si avviava verso l’orrore, Mynona si mise in guardia dai “pigrotti della svastica”, anticipando con ironia disperata la propria emarginazione. Con l’ascesa del nazismo, la sua voce si fece più affilata e più tragica. Nel 1933 fuggì in esilio a Parigi, dove visse anni difficili, dimenticato dai più, ma fedele al proprio stile, scriveva ancora, anche se il mondo attorno sembrava non ascoltare. > “Da un secolo ormai mi sforzo enormemente di solleticare il mio popolo con > ogni sorta di pagliuzze nel naso, senza che esso abbia finora davvero voluto > starnutire”.  Morì a Parigi nel 1946, nella povertà assoluta, lasciando dietro di sé un’opera frammentaria, scomoda, impossibile da incasellare. Fu grazie a Ellen Otten e ad altri studiosi che la sua opera cominciò a riemergere, come un enigma letterario da decifrare; fu tradotto solamente in lingua inglese e spagnola ed è inedito in Italia. > “Chi porta alla luce, in modo stridente e urlante, il grottesco della nostra > esistenza, apre uno scorcio indiretto su una vita autentica, tanto oscura > quanto certa”. Come un caleidoscopio in cui apparenza e verità, comicità e profondità, si rincorrono all’infinito, Mynona è un invito a guardare il mondo da un’angolazione obliqua, dove solo chi ride può intuire davvero l’assoluto. La raccolta Rosa, die schöne Schutzemannsfrau. Grotesken (1913), segnò il suo debutto e uno dei suoi maggiori successi. Nel breve racconto da cui prende il nome (tradotto a fine articolo), Mynona trasforma il desiderio e il potere in un grottesco paradosso. L’eroismo della divisa si trasforma in un feticismo erotico. Rosa, la bella donna del poliziotto, non è attratta dall’uomo che indossa il simbolo del potere, ma dal potere stesso che l’uniforme incarna. Rosa è la protagonista di una “Verkehrung”, un’inversione in cui ciò che è sacro – l’autorità – diventa oggetto di desiderio erotico. Il potere, anziché essere la forza dell’individuo, diventa simbolo di un vuoto identitario. Mynona gioca con il linguaggio, distorcendolo per smascherare le contraddizioni della modernità. La risata che nasce da questa inversione non è solo comica, ma una critica feroce ai valori stabiliti, dove il sacro e il profano si mescolano. In questa parodia del potere, l’isteria diventa la chiave per vedere il mondo con occhi nuovi, finalmente liberi dalle maschere dell’autorità. Egli non solo deride le convenzioni, ma le riplasma, le distorce, le trasforma in una lingua che è tanto poetica quanto inquietante. In ogni battuta, in ogni paradosso, invita a riflettere: se l’ordine è il caos vestito da divisa, cosa rimane della nostra identità? Se l’erotico è ridotto a ideologia, quanto siamo davvero liberi di scegliere ciò che amiamo? > “Il creatore del grottesco è profondamente convinto che bisogna quasi > ‘disinfettare con lo zolfo’ questo mondo che ci circonda, per purificarlo da > ogni parassita; egli diventa un disinfestatore dell’anima”. Mynona – duplice firma bastarda – è il simbolo di una scrittura che non si inginocchia, di un pensiero che osa schernire l’assoluto. Friedlaender fu pensatore clandestino, artista dell’inversione, solitario in dialogo con l’infinito. Leggerlo è un sogno lucido; da evitare se si cercano certezze, da seguire se si ama l’estremo. Salomo Friedlaender è il vento metafisico scandito da folate di parodia; il riflesso di uno specchio infranto, la maschera derisoria che trasfigura, che rovescia. Dietro smorfie e lazzi, caricature da cabaret sono i lapilli di un pensiero che scoppietta sotto la lingua. Mynona è un vulcano travestito da giullare, un alchimista utopico, un’ombra deforme che mantiene la sua promessa. L’identità moderna non può tirare i freni dell’uomo, le vertigini non possono fermare la rivoluzione, la resa non può essere un’alternativa; con il viso nella lava, nell’Atanor, nel buio del mondo, Mynona assapora la possibilità di rimanere umani. Tommaso Filippucci *** Rosa, la bella donna del poliziotto Avete presente le ore uggiose in cui il poliziotto rimane sotto la pioggia per ore e ore, e la sua donna nel mentre…? Ma Rosa, la bella donna del poliziotto, era completamente diversa. Perché? Perché era così diversa? Non erano certo le circostanze, ma lei stessa. E non era certo a causa del marito, un tipo all’antica, diciamo, che Rosa amava. Ma un miglior conoscitore di donne (con la fortuna negli occhi) una volta mi disse: la donna è un bel segreto. E quando non fui d’accordo con lui, aggiunse: svelala solo esteriormente, mai emotivamente! Poi disse qualcosa di Schiller, una citazione che ho dimenticato, ma che non dimenticherò mai! Nel frattempo, Rosa uscì e – credetemi! – camminava così bene che la bocca di un antico invalido si aprì di scatto e la sua pipa divenne anch’essa invalida. Rosa camminava sull’asfalto bagnato; attraversava uno splendido passaggio, superava il terrapieno con la gonna alta. All’angolo si trovava l’uomo che l’amava, non suo marito, ma anche lui un uomo.  Così a quest’uomo scese una lacrima alla vista della profumata Rosa che passeggiava (non camminava come le signore d’accordo con se stesse, né problematicamente come le donne di mezzo mondo, e certamente non come la troppo nota ragazza del popolo, sapete, formosa e allegrotta; camminava, non posso dirlo in altro modo: come se camminasse nella sua persona). Un monocolo sarebbe stato generalmente più seducente, ma questo insegna l’autocontrollo, e l’uomo non lo aveva per lei. Rosa non si accorse dell’uomo fino a che non gli si avvicinò di corsa e gli parlò con foga: “Farei qualsiasi cosa per te, qualsiasi cosa! Non dire niente, ti capisco. Ma lei non mi capisce, non si rende conto di quanto sto soffrendo e di quanto sono felice nonostante tutto. Non dire niente! Mio marito è in servizio, piove, sta in piedi sul bagnato, è un poliziotto. Non è questo! Ma non riesco a superarlo. Oh! Gli sono ancora più fedele quando non è con me. So che mi ami.  Non è un pericolo – oh mio Dio! Potremmo possederci a vicenda. . . Certo! Ed è interiormente impossibile per me: non come moglie, ma come donna del poliziotto. Vi amo – se questo vi consola! Niente mi può consolare, sono peggio di una suora, perché lei può rinunciare ai suoi voti, io sono legata a me stessa”. Ricordo che l’uomo aveva due gambe, che iniziarono ad agitarsi in modo particolare durante le parole di Rosa. A volte stava a destra, a volte a sinistra, si toglieva anche il cappello e si passava la mano tra i ricchi e folti capelli bruni. Stava in piedi sulla testa, sospirando come un uccello della foresta sognante, schiaffeggiando i polpacci con il bastone da passeggio, roteando gli occhi come Nerone al rogo di Roma. Rosa concluse così: “Comprendimi! Già da piccola, quando vedevo una guardia, avevo le convulsioni. Non so se è così per tutti. La mia coscienza non mi lascia riposare, questa divisa è ciò che mi rende donna, qualcosa di morbido, pallido, tremante, sopraffatto”. Nella testa dell’uomo si accese una luce, percepì qualcosa come la nascita dell’uniforme dallo spirito dell’erotismo. Poi all’improvviso chiese gelidamente: “E se osassi indossare un’uniforme come quella? E dicessi: che cosa ha tuo marito in più degli altri?”. Rosa arricciò il naso da Venere: “Prima, assolutamente niente, ma ora tutto, tutto! Quando ne ho preso uno, per gli altri era finita – sì, anche se ci ha fatto il favore di rendermi vedova – non potevo dimenticarlo! Non è amore, l’amore è stupido al confronto, sono questa donna del poliziotto con tutto il corpo e l’anima. Lo sono e lo resterò”. L’uomo barcollò come Golia quando fu colpito dalla fionda di Davide… beh, già lo sapete. Ma non cadde; urlò così forte che un poliziotto si avvicinò. Urlò come un pazzo: “Ma questa è follia! Bisogna lasciarla andare via con l’ipnosi! È una cosa facilissima da determinare psicoanaliticamente. Oh, devo andare subito a Vienna da Freud in persona…” Non andò oltre; una di quelle mani pesanti, familiari a quasi tutti i nativi tedeschi, si posò sulla sua spalla contratta: “Non lo farai!” affermò il poliziotto di Rosa – era lui. “Per favore, andatevene in modo discreto e decoroso. Non mi preoccupo per mia moglie. Tutti la amano e lei ama tutti. Nell’amore non c’è resistenza. È giovane, bella e focosa: basta guardarla! Ma ha la stoffa per farlo! Hai sentito. E adesso basta! Spesso non sono a casa, non posso fermarti – ma sono più protetto dalle corna. Avrebbe rotto il matrimonio senza esitazione, ma non questo; È così garantito da ciò che hai appena chiamato follia che io stesso – a volte si hanno pensieri del genere – non potrei cambiarlo. Nanu Adieu!”. Se ne andò con Rosa. L’uomo, stordito, nella direzione opposta. Non vide mai più Rosa. Non riuscì mai a strappare dal suo cuore l’amore per lei. Fu molto più tardi (davanti alla cattedrale di Strasburgo) che mormorò cupamente tra sé e sé: “Rosa, adorabile segreto! Sfinge di tutta la gendarmeria!” “Accidenti”, disse qualcuno quando glielo dissi, “Reprimi meglio le tue idee!”. Oh sì! Tutti dovrebbero tenere la bocca chiusa sulla Sfinge, più Sfinge della Sfinge. “E non chiamate la mia bocca bocca!”, mi interruppe la sfinge nel suo silenzio lungo un miglio. L'articolo “Una piccola rissa teologica da gattini”. Mynona, lo scrittore grottesco, una sintesi tra Kant e Chaplin proviene da Pangea.
May 23, 2025 / Pangea