Nel 1910, a Copenaghen, esce un libro a suo modo decisivo. S’intitola Vita del
lappone, lo ha scritto Johan Turi in uno stile, al contempo, crudo e fiabesco,
come appena estratto dal fuoco, una specie di nordica Lascuax. Nelle fotografie,
Turi ha lo sguardo ad accetta, occhi che contengono boschi. Nato nel 1854,
faceva l’allevatore di renne; il suo libro, scritto in lingua sami con la
traduzione in danese, fu pubblicato in diverse lingue: in Italia è al 235 della
“Biblioteca Adelphi”. Il libro ha una leggiadria adamitica, la prontezza delle
cose prime e nude: si parla di bestie, di estati come coltelli, di segni nel
suolo e nel cielo e della “pietra del serpente”; le costellazioni si chiamano
“Alce”, “Branco di cani” e “Sciatori”; la Via Lattea è la “Scala degli
uccelli”.
La data in cui è pubblico il libro è importante: di lì a poco i Sami, etnia
indigena del Nord, verranno ripetutamente vessati dalle entità statali,
Norvegia, Finlandia, Svezia, a estirpare terre, a sradicare tradizioni. Non a
caso, intorno a quella data, nel 1913, attracca Ædnan, il poema epico di Linnea
Axelsson, poetessa svedese di origine Sami. Edito nel 2018, Ædnan – che in Sami
significa “terra”, “luogo natio” quando non “madre, matria” – racconta, in
versi, la saga di una famiglia Sami, tra enormità di panorami, apparizioni di
morti, vessazioni, dai primi del Novecento al nostro millennio. Il ritmo imposto
dalla Axelsson contrasta con il tambureggiare dell’epica tradizionale: i versi
sono brevi, a volte brevissimi; si procede per singulti e apocalissi in palmo di
mano; c’è molto bianco intorno, tanto che le parole paiono impronte di renna
sulla neve, rivoli di una danza antica e perduta, di uomini-pernice, di
uomini-gufo. Un esempio:
“Mi addentrai nella palude
dei lamponi gialli
–
Avanzai
finché potei
poi mi spogliai
sciolsi i nodi dei pantaloni
e li riempii di bacche
–
Annodai lo scialle con
della stoffa e ne feci
uno zaino
ricolmo di bacche
–
Una pozza nera
si aprì nel muschio
l’acqua era fredda
meravigliosa per la nuca
–
Allora spuntò
scura nel cielo
l’aquila reale
l’occhio giallo
e nero
–
Nell’occhio giallo
il mondo ebbe
un altro riflesso
–
Dischiuse gli artigli
e si gettò su Aslat
lasciai le bacche
e corsi gridando
con le braccia alzate
–
Vidi l’immenso
rapace volare via
–
Tutto era come sempre
ma c’era un’ombra”
Tradotto in inglese, da Knopf, nel 2024, Ædnan ha avuto un impatto importante:
il libro, tra l’altro, è stato finalista al National Book Award for Translated
Literature. Di questo “ambizioso romanzo in versi”, an Arctic epic from Sweden,
ha detto il “Guardian”, toccando il punto centrale del testo: “in ogni pagina,
distese di spazio bianco, a memoria di una narrazione fatta di assenze,
fratture, silenzi, oblio e mutilazione”. Una porzione di Ædnan è stata tradotta
da Maria Cristina Lombardi – già traduttrice, tra l’altro, del fenomenale poema
epico-cosmico Aniara del Nobel per la letteratura Harry Martinson – nel libro
libro collettivo Voci di donne dal Nord, edito da Crocetti (in cui sono
sintetizzati, per poesie-totem, i lavori, oltre che di Linnea Axelsson, di Eva
Ström e di Ann Jäderlund).
Lei è Linnea Axelsson
Ædnan, soprattutto, è il poema di una lingua defunta che risorge rifulgendo (“La
lingua sami dormiva/ da tempo nel corpo/ bloccata// dentro/ dalla vergogna…//
Come se mai/ noi e i nostri avi/ fossimo esistiti// mai avessimo/ costruito
nulla”). Di una lingua dissotterrata, di minime, esigenti tracce nella neve che
tornano artigli, il ruggito del profondo Nord. Certo, il poema s’infittisce
nella nostalgia: le parole descrivono ma non operano; la danza, non più
sciamanica, è sciamannata, dei fasti restano le vestigia, le braci – pigolano
gli astri. Su tutto, tuttavia, agisce lo straordinario.
Con l’aiuto della Lombardi, abbiamo contattato Linnea Axelsson, a dare ligneo
lignaggio a questa lingua.
Come è nata l’idea di scrivere un poema epico sui Sami? Come ha scelto di
strutturare il libro?
Più che un’idea iniziale, sono stati il lavoro e il materiale ad ispirarmi la
scrittura di un poema epico sui Sami: la poesia epica è stata una scoperta che
poi ho messo in pratica. Credo che un’opera si sviluppi da un’immagine interiore
che funge da orientamento verso un certo linguaggio, una data struttura, un
mondo che il lettore è chiamato ad immaginarsi. Nel caso di Ædnan, l’immagine,
almeno come come la ricordo, era un volto di donna, o meglio, il silenzio nel
suo volto. Fu lei che durante la stesura del testo haportato con sé lo spazio
(Sápmi, la terra dei Sami), gli eventi e gli altri personaggi. Pian piano
l’ampiezza e la natura del materiale – ad esempio, le relazioni interpersonali e
lo svolgimento della narrazione nel tempo – iniziarono a suggerirmi che forse il
racconto sarebbe stato più adatto alla prosa che alla poesia. Prosa e poesia
sono costituite dagli stessi elementi, ma si utilizzano in modi diversi e con
enfasi diversa. Non mi pareva giusto scrivere un romanzo, sarebbe stato come
assolvere a un compito inesatto. Così, a un certo punto, mi è venuta in mente la
tradizione epica, e allora mi sono presa una pausa necessaria. Non nel senso che
ho cominciato a leggere i poemi epici antichi; piuttosto, ho iniziato a
impostare alcuni principi formali di riferimento. Ho riflettuto a lungo intorno
alla tradizione degli joikar sami che sono contemporaneamente canto, tradizione
poetica più o meno narrativa, e strumento per ricordare e conservare le memorie.
Come è riuscita a trovare il ‘ritmo’ adatto al poema? Intendo dire: nel poema si
coagula una lingua arcana, arcaica, ma anche un tono proprio della poesia
contemporanea. Mi spieghi il suo processo linguistico.
Trovare il ritmo è stato decisivo ed è parte della forma stessa del poema: versi
brevi, scarsità di parole, silenzio. Questo mi ha ispirato un sensazione di
ampiezza e di movimento, nello spazio e nel tempo, che tenesse insieme e
caratterizzasse la narrazione. Ci è voluto molto a trovare il giusto ritmo: in
qualche modo, è scaturito durante la scrittura. Altre volte mi è accaduto di
sentire un ritmo senza nessuna parola, che solo dopo è divenuto poesia, ma non è
il caso di quest’opera.
Il ritmo è anche legato alla respirazione e allo svolgimento, nel senso che
nasce quando una poesia si muove tra qualcosa di quotidiano, che senti sulla
pelle, e qualcosa di cosmico, di esistenziale. Produce suono e realismo. Lo
stesso svolgimento si rispecchia nella parola: un termine della sfera quotidiana
o comunque della contemporaneità si incontra con una parola più solenne, più
carica di connotazioni o più antica, riuscendo nella poesia a essere avvertito
come semplice e naturale al pari della parola quotidiana.
Per molto tempo – oggi non è più così – sono stata attratta dall’arcaismo
facile, sia perché amo le profondità e le diverse fasi della lingua, sia perché
quello che devo costruire non è documentato, ma vive nella narrazione orale,
nelle fiabe, nel mito. In Ædnan ho cercato anche di cogliere un certo suono che
credo fosse tra i Sami nell’ambiente in cui sono cresciuta quando si parlava di
cose come lo stato e gli svedesi, o come quando si raccontavano aneddoti.
Quali sono le fonti di cui si è nutrita? In Italia è abbastanza noto il
resoconto di Johan Turi, ma per il resto il popolo dei Sami appare tra le brume
della leggenda. Quali sono i miti miliari, decisivi dei Sami?
Uso tutto quello che posso: ricordi, cose che ho sentito e ho visto, che ho
letto. Più importante di tutto è l’immaginazione, lo spazio per la capacità di
rappresentazione che dobbiamo conservare in noi stessi. Non faccio ricerca nel
senso giornalistico ma, al contrario, evito di leggere proprio di ciò su cui
scrivo.
Detto questo, sono sempre stata interessata e ho letto tanto sulla storia e
sulla mitologia dei Sami, ma la grande fonte, quando si tratta di questa storia,
è fatta di esperienza, cultura e narrazione orale, dunque, dalle conoscenze che
si tramandano in famiglia, tra parenti e amici. Molte culture, come quella sami,
si scontrano con due fattori essenziali: la propria storia scritta, quando non
sia stata resa del tutto invisibile e assimilata, è stata comunque a lungo
formulata da qualcun altro, e che ciò che si conserva ci si aspetta sia
autentico.
Nella mitologia sami ci sono divinità e miti della creazione. In realtà, non so
quanto delle fonti scritte sia influenzato e concepito dai colonizzatori che per
primi l’hanno scritta e tramandata. Ho riflettuto a lungo e non so se i
termini dèi e dèe funzionino veramente. Ad esempio, Sáráhkka[1], non è piuttosto
una forza che non una dèa nel senso occidentale del termine? Forza generatrice e
maternità sono presenti anche nelle acque di un lago.
Mi sembra che il suo poema epico abbia altresì un ruolo ‘politico’. Quali
reazioni ha risvegliato il libro dopo la pubblicazione?
Quando Ædnan è uscito in Svezia, credo abbia contribuito ad aprire gli occhi ai
lettori svedesi sulla loro storia e sulla situazione coloniale del paese: che la
Svezia non è mai stata un paese con un solo popolo. Tra i lettori Sami, se
parliamo da un punto di vista storico e politico-sociale, le reazioni sono state
ovviamente di altro tipo: riguardando soprattutto aspetti come rappresentazione,
riconoscimento, ecc. Io sono un po’ indecisa se considerare il
poema politico oppure no. Credo che tutto quel che scrivo abbia in sé un piano
politico. Ma sono assolutamente convinta che le eventuali verità sulla nostra
vita si possano scoprire solo attraverso l’immaginazione, liberandosi da ogni
dovere e impegno, e che qualsiasi riflessione su temi e aspetti politici emerga
molto tardi nella stesura di un’opera, se non addirittura mai.
Quali sono le letture che la hanno formata, i poeti che può appellare a maestri?
Sono molti e diversissimi tra loro. Nils Aslak Valkeapää, Birgitta Trotzig,
Robert Musil, Elizabeth Bishop, Ingeborg Bachmann. Mi piace moltissimo leggere
testi teatrali: Harold Pinter, Lars Norén, Brian Friel. Qualche volta leggere è
quasi come andare dal medico: è qualcosa di molto preciso quello che mi
prescrivo.
Oggi, nell’era dell’algocrazia, delle guerre continue e dell’intelligenza
artificiale, che senso ha la poesia? Che senso ha l’epica?
Mi viene voglia di rispondere che il senso della poesia oggi è lo stesso che è
sempre stato. La poesia sembra essere qualcosa cui si ricorre in situazioni
terribili. Lo vediamo oggi a Gaza: sia i palestinesi a Gaza che uomini e donne
in tutto il resto del mondo scrivono poesia che, in modi diversi, nasce
dall’attuale genocidio. Lo abbiamo visto nei campi di concentramento del Terzo
Reich, dove gli ebrei scrivevano poesie nonostante rischiassero la
vita. È un segno del significato della poesia, ma ilsignificato è difficile da
determinare. Per me, come lettrice e poeta, ha a che fare con il lavoro
linguistico, con la lingua come essere vivente, con l’immaginazione,
l’attenzione e la concentrazione. Ha a che fare con il piacere e la realtà.
Cioè, con un aspetto della realtà.
È come se poesia, letteratura e arte fossero un fiume che scorre accanto alla
vita, dalla stessa sorgente. Sono legate e si rispecchiano a vicenda, ma la
letteratura non può essere solo uno specchio, una rielaborazione o
un’esplorazione. È costruzione di se stessa. La poesia dovrebbe essere un
vortice ben definito, e i vortici portano ossigeno al fiume. Per me, poesia
epica non significa che il testo presenti una certa lunghezza, o si espanda in
un certo arco temporale o che sia narrativo allo stesso modo di un romanzo. Per
me la poesia epica è legata alla memoria e alle storie. Storie che possono
conservare il nostro contatto e la conoscenza delle nostre origini, e
testimoniare la qualità del nostro rapporto con tutto ciò che vive.
(Traduzione di Maria Cristina Lombardi)
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[1] Dèa dello sciamanesimo, protettrice del parto, venerata nelle regioni
abitate dai Sami in Svezia e Novegia.
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