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“Pratico alfabeti impropri”. Matthieu Messagier o della poesia come ribellione
Potremmo dire: didattica della sobillazione. Svergognare il linguaggio, potremmo dire. Riverginarlo. Resurrexi.  Senza che ciò diventi prassi, però – lui, il poeta, Prassitele del caos. Gli altri – i poetastri-poetini-impotenti – i parassiti del verbo, i cannibali del vocabolario.  Al posto del vocabolario: esigere l’arca. E rompere tutte le alleanze.  Esigere, cioè, il diluvio. Le tante bestie. Le acque sigillate. Nessuna colomba a imbottirci di false speranze.  Di Matthieu Messagier, per così dire, resta l’ombra, la figura corrotta e miracolata – il poeta, a dirla tutta, ha delirato e disertato: è già – e sempre – altrove.  Una fotografia, forse, lo centra: il ragazzo – viso da inquieto putto: capelli a tiara, inesorabili baffi, paffuto – siede su un triciclo, una mano regge il volto, in crollo; davanti, un cane. Il tutto, reso all’oscuro, tra vampe bianche, diacce. “Le Figaro” scrisse di una lumière obscure; era il 2020, Messagier sarebbe morto l’anno dopo, a ridosso dell’estate, doveva compiere 72 anni. Flammarion aveva pubblicato come Dernières poésies immédiates una raccolta di “Sérénades”. È un libro tra le strettoie del rischio, quello, scritto nel luglio del 2006, in ospedale: il poeta, “ricoverato per una grave ipercalcemia… dopo ventiquattro ore chiede un quaderno e una matita, a redigere, dice, un ‘Ticino di parole’”. Un insetto campeggia in copertina; la quarta è felicemente destabilizzante: > “Il foyer della Poesia gode dei tentativi > delle parole di trovare per lei > una ragion d’essere > (la poesia autorizza il conoscere > non certo l’inverso) > > Riverso il capo tra le mani > non rendo scaltre le poesie di agonie  > passate all’autopsia della notte: > pratico alfabeti impropri > estranei alla cappa del pensiero > necessario a ordire le loro > cronache contemporanee” Figlio di artisti – il padre, Jean, praticò, tra l’altro, come discepolo di Picasso – Messagier è stato messo nelle condizioni di esigere il meglio dal proprio genio. Girò qualche corto con Michel Bulteau, girò per Parigi giocando al flâneur flamboyant, scrisse disegnando. Praticò la parola fin da bimbo, con lo scopo, più che di auscultarsi, di sgretolarsi, di farsi lo scalpo, di scappare. L’esordio nel 1969, per Pauvert, con un ciclo di versi di implacabile precocità. Scrisse disinteressandosi di un ‘pubblico’, disperso tra i rivoli di pubblicazioni d’occasione, occipitali al tempo, presto introvabili. In Le Dernier des immobiles (1989), uno dei tanti fascicoli stampati con Fata Morgana, il poeta stila in distillato la propria poetica: > “Si scrive perché nessuna parola è in grado di condurci al senso: lasciala lì, > allora, prima dei bei sentieri dell’opera, incisi sul filo dell’evidenza. È > l’elegante unicità piromane a renderti pari alla natura originaria”.  Sviluppando la teoria delle ‘corrispondenze’ abbozzata da Baudelaire, Messagier scrive di voler “pervenire alla somiglianza/ per averne perso il senso”.  Schifò il Sessantotto; nel 1971 scrisse – insieme a un gruppo di accoliti – un improbabile Manifeste Électrique aux paupières de jupes, edito da Le Soleil Noir. Quando capì che il gruppo percorreva la via di William S. Burroughs e dei surrealismi, mollò tutti, facendo capo a se stesso. Anche Messagier – secondo il crisma rimbaudiano – aveva bisogno di significare la propria poesia disintegrandola. Dal ’72, per sette anni, non scrive; viaggia per l’Europa come un vagabondo, un senzatetto di sé, un pellegrino in sempiterna erranza. Dell’esperienza parigina serba l’amicizia con Dominique de Roux. Il grande editore anticonformista de “l’Herne”, gli aveva commissionato un improbabile “libro a venire”; gli aveva chiesto di dirigere insieme a lui la rivista “Exil”. Il primo numero, uscito nell’autunno del 1973, reca testi di Ezra Pound, Raymond Abellio, Henry James e J.-J. Langendorf. Messagier è già altrove, permette che sia pubblicato il suo Bestiaire.  Tornato in Francia, piagato da una malattia neuromuscolare, Messagier si installa nel Doubs, nascosto ai più. Lì scrive l’immane poema in prosa Orant (1990), per lo più un oratorio di quaderni, spunti, appunti, una pestilenza linguistica di ottocento pagine, “un affronto alla ragione, un gesto borderline, fitto di pura confusione emotiva ed epifanica vastità che non è improprio paragonare al Finnegans Wake di Joyce” (Renaud Ego).  Nei suoi scritti – che chiedono a chi li attraversa una sorta di ermeneutica all’arma bianca, il disarmo del sé – qualcuno riconosce la “teomania” di Henry Michaux. Renaud Ego ha rintracciato un lignaggio che lega Messagier a Gerard Manley Hopkins (“per l’audacia sintattica”), Giacomo Leopardi (“poesia come trasposizione della natura in piena esuberanza”) e Velimir Chlebnikov (“gusto per i neologismi e ricerca di una ‘cosmoglossa’, un linguaggio comune per dire l’universo”). Secondo il poeta > “Il significato originario delle parole è in totale contraddizione con l’uso > che ne ha fatto il nostro tempo: attonito rapimento, dolore, erba tra le > mani”. Di questa sregolatezza – improponibile a latitudini italiche, dove il dire incontrollato (chessò: Calogero, Fermini, Ceni) è messo ai margini, incompreso per incompiutezza di chi lo soppesa – resta l’impeto, il talamo, il sepolcro vuoto. Titanomachia. Semmai: venefico antidoto contro gli artifici dei bot, contro gli artificiosi versi dei poeti al botulino.  Spesso è opera che resta nei quaderni, quella di Messagier, che non si può restituire in trascrizione. Pena la perdita del corpo del reato, del corpo mistico del verso.  Dunque, sì: documento-nocumento.  *** Crepita il crepuscolo e crolla la camera sempre in quello stesso crollo nell’atto della creatura randagia finché Locarno non si serra in una crisalide epica e crepa l’idea Volto fisso e freme la circolazione nel particolare, oh, sì, l’unico preso dal panorama, il convulso, il rovinoso soprassalto della carne la maestà che diviene sudore e il più vile dei tratti: il tutto rampogna la propria apoteosi e vivacità dell’ossessa pazienza annaspa nel flusso perché lo stupore è un nodulo * Lugano, la forma lappa la sostanza del faticare  l’oscurità appena lambita dalla speranza angolare in aria si dispiega il rifugio dello stesso volume o quasi perché di rado l’arborescente visione compie dell’asse degli anni la nota astratta, la sorpresa al calendario delle sentinelle solo l’esasperazione di un paradiso in sussiego e il broncio corrugato come una goccia preso da una divinità larva che lavora al vertice di un’immaginazione esperita con tanto di balsamo addosso con tanta redenzione priva di pareti.  * Amadriadi arroganti al sole di maggio C’era una lunga seta poetica che nuotava con serica dolcezza. “Intanto della resina degli occhi della sentinella che sfianca il giorno la miscela è chiara e il bruto atomo la sua fragranza vinto al concerto dalla prima”. Amadriadi arroganti al sole di maggio e perfino la grammatica dell’assenzio le nuvole dei primati aggiunte a quelle trasparenze su sopiti prati… …su stupiti prati si slanciano classifiche di ore al miele e noi passiamo tra i punti e le virgole per perderci (quando il medico mi ha auscultato il cuore, ho detto: “non si facciano prigionieri!”) * L’autunno non sa redimersi dall’estate quando esplodono le lacrime perché è troppo – è difficile il vano appello all’oggetto e al fine Ed è rosa, è opaco porge la sua tristezza di rari alcolici Da qui puoi vedere tutto lo stato del risveglio appena importato Un torrente di carta & matita i sorrisi della mano sinistra frantumi di regni sconfitti al culmine di una illogica velocità Ma la vita è altro, è altrove  Matthieu Messagier L'articolo “Pratico alfabeti impropri”. Matthieu Messagier o della poesia come ribellione proviene da Pangea.
April 28, 2025 / Pangea