Nella Seconda lettera ai Corinzi, capitolo 12, Paolo dice di essere stato
“rapito fino al terzo cielo”, nel luogo detto “Paradiso” e lì di aver “udito
parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare”. Ne dice parlando in
terza persona – “so che un uomo, in Cristo…” – dicendo di non sapere se questa
razzia di sé, accaduta quattordici anni prima, sia stata compiuta “con il corpo
o senza corpo”. L’insenziente corpo, l’insaziato corpo, è posseduto da Cristo.
Nella Prima lettera ai Corinzi, Paolo – capitoli 12-14 – distingue tra
“profezia”, linguaggio a edificazione della neonata ecclesia, e “glossolalia” –
le “lingue degli angeli” – l’incomprensibile idioletto che congiunge il fedele,
l’ispirato, a Dio, frutto di singolare esperienza, che non si può comunicare.
Paolo scrive agli abitanti di Corinto, la città legata a Poseidone, dove si
svolgevano i giochi Istmici; la città di Sisifo, dove Medea ordisce la sua
vendetta contro Giasone. In cima all’Acrocorinto, ricorda Pausania, spiccava il
tempio di Venere, “nel quale sono la statua della Dea armata, quella del Sole,
quella dell’Amore con l’arco”. Non è un caso che Paolo operi il suo trattato sul
linguaggio nella terra del logos; che parli della “straordinaria grandezza delle
rivelazioni” nella terra dei misteri, dell’enigma, della trance. Scrivendo in
greco – lingua accessoria, d’uso, non connaturata, che è poi la subdola lingua
dei Vangeli, redatti nella lingua che Gesù non parlava – Paolo risignifica ogni
parola. È come se mutasse su zattera il senso di ogni sintagma. Nella terra
del logos egli si fa portavoce del Logos, il Verbo che sconfigge ogni verbo.
*
Nel dodicesimo libro della Genesi alla lettera, Agostino sviscera il brano di
Paolo. Come esistono tre cieli, così esistono tre specie di visioni, quella
“corporale”, quella “spirituale” e quella “intellettiva”. Delle visioni, occorre
discernere quelle che sono ispirate dagli “angeli buoni” da quelle che sono
insinuante opera del demonio. In sostanza – sulla stessa scia di Paolo –
Agostino disciplina la facondia estatica dei fedeli. Il tempo in cui gli dèi
parlavano nei fiumi, nel vento e negli alberi, in cui tutto era opera, è al
tramonto: improvvisamente, non c’è più strepito, ma silenzio, le cose mutevoli
sono ormai mute, alla selva fa specchio la basilica, al mito il rito.
A un certo punto, per assecondare “alcuni dei più stimati commentatori delle
Sacre Scritture in conformità con la fede cattolica”, Agostino scrive che
“l’Apostolo inoltre sarebbe stato rapito per contemplare in una visione di
straordinaria evidenza il regno delle realtà incorporee che le persone
spirituali anche in questa vita amano e desiderano godere al di sopra di ogni
altra cosa”.
In realtà, Paolo non dice di aver visto, ma di aver udito qualcosa. Visione per
verba, preverbale.
*
I pionieri del cristianesimo, gli apostoli, parlavano in lingue, possedevano
parole efficaci, in grado di sanare e di far risorgere i morti. Così dice Gesù
ai Dodici: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi,
scacciate i demoni”; atto che si compie “dicendo che il regno dei cieli è
vicino” (Mt 10, 7-8). Annuncio che guarisce, linguaggio che vince la morte. Non
unguento né formulario offre il Nazareno, ma un “potere” che lavora tramite
corpo e lingua – linguaggio incarnato, lingua amuleto, Verbo che dilaga. Di ciò
non resta che qualche vestigia – l’esorcismo –; quanto al resto, è compilazione
di atti ruderi che segnalano una sequela. Mirabile danza – nei sacerdoti che non
optano per un ‘fai-da-te’ liturgico – la cui forza si misura, semmai, in eoni.
Quasi che all’entusiasmo delle origini sia sostituita la sfinente attesa, il
dispiegarsi di una spettrale speranza. All’efficacia seguì l’ufficio.
*
Alle origini, i cristiani ‘sciamanizzavano’ – guarivano i malati, avevano
visioni, elevavano a nuova vita i morti, parlavano in lingue – e andavano in
estasi. La parola ekstasis – nel senso proprio della trance, dell’uscire fuori
di sé – ricorre due volte nel Nuovo Testamento. La prima (At 10, 9 ss.) riguarda
Pietro: la guida degli apostoli è a Giaffa, è mezzogiorno, è sulla terrazza di
una casa a pregare, quando, “Gli venne fame e voleva prendere cibo. Mentre
glielo preparavano, fu rapito in estasi”. Pietro vede una tovaglia, imbandita di
quadrupedi, rettili, uccelli. Il senso della visione è legato alla storia del
centurione Cornelio, “uomo giusto e timorato di Dio”, un “impuro” – come i cibi
visti in estasi – che si avvia alla conversione. All’estasi di Pietro sono
legati i criteri dell’estasi arcaica: la preghiera solitaria, il digiuno
preparatorio, la visione che rovescia il canone costituito.
Gli Atti degli Apostoli dicono anche del rapimento di Paolo (22, 17). È lui a
farne testimonianza, davanti ai Giudei: al racconto della “voce” udita mentre
andava verso Damasco, della luce che lo acceca, segue quello dell’estasi. “Dopo
il mio ritorno a Gerusalemme, mentre pregavo nel tempio, fui rapito in estasi”.
Durante l’estasi, Paolo vede Cristo che gli rivela “ti manderò lontano, alle
nazioni”. Pur diversa da quella di Pietro – qui si calca un compito – l’estasi è
simile nel codice: convertire i pagani.
*
Che s’intende dire? Che il cristianesimo originario non è statico, non
istituisce norme, ma è insicuro, instabile – è nella giovinezza della danza. La
parola estasi, nel mondo greco, è centrale (si legga: Negli abissi luminosi.
Sciamanesimo, trance ed estasi nella Gracia antica, a cura di Angelo Tonelli,
Feltrinelli, 2021) nell’affronto col numinoso, nell’addestrarsi al suo contatto.
Nei Vangeli, Gesù obbliga a una continua uscita da sé, a un linciaggio del sé,
al brigantaggio dell’io – e lo fa nel Verbo. Dopo la sua morte, l’accesso a Lui
è tramite memoria e estasi.
Così scrive Tonelli, per capirci sulla tempesta estatica greca:
> “La capacità profetica nasce dalla mania, ovvero da una condizione
> di trance che consente di trascendere i limiti dell’ego e della coscienza
> ordinaria, strutturata spaziotemporalmente, aprire un varco ed entrare in
> contatto con l’Assoluto invisibile”.
Emozione sonnambula nell’assistere al mutamento radicale di alcune parole-dolmen
– profezia, estasi, mania, logos – da un tempio (Atene) a un altro
(Gerusalemme). Paolo sa di aprire un nuovo mondo: scrive come dal sepolcro
vuoto; scrive rovesciando le pietre.
Ai primordi del cristianesimo tutti i paramenti – le vesti animalesche, il
tamburo, i cembali, le maschere, il fuoco e le erbe – sono inutili: in quella
fanciullezza, Gesù accadeva così, d’improvviso, senza preparazione, era dietro
la porta, origliava, preparava la tavola.
*
Unico compito della poesia, svestita delle corazze letterarie: dire le “parole
indicibili [ekousen arreta] che non è lecito ad alcuno pronunciare”. Il resto:
didattica del verbo, bieco conforto, confusione.
*
Vado a Mercatello sul Metauro: il luogo di Veronica Giuliani. Nella violenta
sequela del linguaggio non arretra di fronte alle ekousen arreta, non indottrina
le indicibili parole.
Vedo il sentiero che da Mercatello va a Città di Castello, dove Veronica si
infossa tra le cappuccine. Trenta chilometri. Li faceva a piedi. Tra forre,
campi, terre glabre, lunari scollinamenti: era questo il deserto di Veronica. Il
sole è filisteo – è tutto un furore di lucertole.
Nella casa natale di Veronica – nata qui il 27 dicembre del 1660 – elargiscono
lieti depliant. Uno di questi, Spes contra Spem, raduna uno spettro di pensieri
che non ammette decoro. Questo è il primo:
> “Mi sento con una oscurità ed aridità così grande, che non ho neppure un
> pensiero buono. Non mi posso aiutare con atti di fede, perché non mi pare
> d’aver fede in niente; né con atti di speranza, perché non trovo ove fermarmi;
> né con atti di carità perché non so cosa sia. Mi sento la mente così offuscata
> e come una nebbia densa che mi copre qualsiasi bene”.
Diremmo, il coraggio della disperazione – sfigurare il niente. Un niente che è
nient’altro che niente – nessun premio corona la corsa del fedele in tale notte
oscura. La Giuliani non è Giovanni della Croce – è al di là.
Il pio cronachista stempera a inconsistenza il martirio di Veronica e scrive che
“Tante esperienze mistiche destano l’attenzione del Sant’Ufficio che esamina e
controlla severamente il suo operato, provocandole una grande sofferenza; viene
però scagionata da ogni accusa di falsità e mistificazione”. Nello specifico, le
cose, riguardo alla grande sofferenza, sono andate così: “Denunciata al
Sant’Uffizio nel 1697, viene esaminata con insistenza impietosa, ispezionata
corporalmente in modi umilianti, segregata, privata d’ogni carica, interdetta
dal comunicare con l’esterno. Il rigore si attenua, ma riprende presto in forme
più dure, toccando l’apice nel 1714, con le sconsideratezze d’un giovane
confessore che la tratta da strega (in un’età in cui le streghe andavano al
togo), da indemoniata e le impone di leccare sterco, inghiottire insetti” (così
in: Scrittrici mistiche italiane, a cura di G. Pozzi e C. Leonardi,
Marietti,1988). Veronica muore nel luglio del 1727. Da bambina fu falciata dalle
estasi: vedeva Gesù; da ragazza, a Piacenza, al seguito del padre, fu desiderata
da molti, era bellissima. Sconveniente il suo essere: tirava di scherma,
preferiva gli abiti maschili, non dominava l’ira. Dai pretendenti – nobili,
tanti – si schermò con l’immagine del Crocefisso.
*
Della Giuliani, l’agone nel linguaggio, l’agonia. Analfabeta, “imparò a scrivere
scrivendo”, sotto obbligo del confessore, dal 1693: da quella tortura proviene
il diario, abnorme – oltre ventiduemila pagine –, in cui, con rozza violenza,
descrive le sue rivelazioni. È tra i grandi scrittori italiani di ogni tempo –
purissimo cannibalismo si avverte qui, e avvince. Temprato, il suo scrivere,
dalla scomodità e dallo scandalo: Veronica “scriveva solo di notte, in positure
estremamente disagiate… una scrittura, la sua, nata nel coniugio del buio
esteriore con le tenebre dell’anima”.
Per dire l’indicibile, inventa parole. La sua speleologia nel niente è
insuperata:
> “…perché Idio più si fa sentire e intendere, meno si sente e si cape. È
> incomprensibile, non v’è modo di capire niente, è immenso, non c’è capacità a
> comprenderlo, né creatura alcuna pò mai arivare a questo, e se esso dà qualche
> sagio al’anima di questo suoi divini atributi è in modo che non si trova modo
> a racontarlo. Più si cape meno si cape, più s’intende men s’intende; ci fa
> scordare di tutto; resta l’anima tutta asorbita in Dio, non capisce più niente
> di sé né di nulla di questa vita”.
L’enorme inermità della parola – “Dico e ridico e non dico niente” – la rende
rondine a penetrare l’eterno. Mistero dei misteri, il Dio che non va pronunciato
invano è, invece, detto e contraddetto – detto fino a esaurire ogni umano verbo
– detto fino a spaccargli il volto.
Il diario della Giuliani: una straordinaria cancellatura, una sparizione nella
torba linguaggio. Una diario-petroglifo: lapidazione di frasi lapidarie. “Io non
dico altro. Non so cosa abbia detto”; “Non dico altro, perché tanto non dico
niente”. Eppure, continua a dire, a ridire, ossessionando l’alfabeto fino al
bestiario, alle fiere e ai mostri, Veronica, a fecondare il divino niente (“Te
ne stai nel profondo del tuo annientamento”): che fiorisca – lei sguainerà falce
e denti in legione.
*
Mettere a repentaglio il linguaggio, rapinarlo da ogni senso, insediarsi in esso
per insidiarlo.
Più tardi scendo verso il Metauro. Le acque sono straordinariamente limpide –
limpide come di capelli chiari. Non c’è difetto di distanza tra il corpo di
Veronica Giuliani e il corpus dei suoi scritti: si scrive, si intaglia. A quel
punto di concisione, basta che qualcuno ti dica davvero e sparirai – puf!
Comunque, a Mercatello, cornacchie ovunque, in ogni infisso di casa. Sono una
decina, sul ponte. Hanno preso dominio di una piccola cappella. Sopruso di
becchi nei ruderi. Forse gli abitanti, qui, rinascono cornacchie. Forse Veronica
ha previsto l’immacolato tormento di Kafka. Al cielo bufalo hanno tagliato le
corna.
*In copertina e nell’articolo alcuni “Studj di pittura” di Giambattista
Piazzetta (1682-1754)
L'articolo Il tormento e l’estasi. Tra apostoli sciamani e stregonerie del
linguaggio: il poeta dica soltanto “parole indicibili” proviene da Pangea.
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Entro in una libreria, siccome è per bambini è come se gli adulti s’inventassero
per sé un cartello all’ingresso che li esclude. Scelgo Il segreto delle cose di
Maria José Ferrada e mettendo giù Il borsellino della sirena e altre poesie di
Ted Hughes prendo a leggere le prime pagine di Dizionario segreto d’infanzia di
Arianna Giorgia Bonazzi. Alla frase “ma adesso, capisco che durante tutta
l’infanzia ho coltivato quel che potremmo chiamare un verbario o meglio
un sonario” capisco che il libro vuole essere letto tutto, che io, presunto
lettore di letteratura-adulta, sto facendo esperienza della nuova frontiera di
quello che in un volume della Carrocci Emy Beseghi e Giorgia Grilli
chiamano letteratura-invisibile. Il Dizionario è una storia d’amore per il
linguaggio. Un cripto-romanzo di grande consapevolezza linguistica. Un’avventura
carrolliana dove ogni parola è uno specchio e l’infanzia è il Bianconiglio di sé
stessa. Per dirlo con Antonio Moresco, è il canto delle parole. Quanto grandi
bisogna essere diventati grandi per poter accogliere dentro di sé il proprio
essere stati piccoli, senza alterare il racconto dell’infanzia per puntellare la
nostra vita adulta? Ho chiesto ad Arianna Giorgia Bonazzi di parlare di questo e
altro, e lei ha risposto. (a.c.)
Da Dizionario segreto d’infanzia: “In principio era il verbo, e il verbo era
presso Dio, e il verbo ero io.”
La bambina protagonista del libro si fa l’idea di essere lei a creare il mondo,
battezzandolo. Il libro, di per sé, vuole segnare il confine tra il linguaggio
come strumento espressivo e il linguaggio come imbrigliatura in automatismi di
pensiero. Nei primi anni di vita siamo noi a inventare il linguaggio, liberi di
associare alle parole travisate, storpiate o sentite male i significanti che
secondo noi più si addicono ai loro suoni. Poi cresciamo, socializziamo, c’è la
scuola, il lavoro, la televisione, i social, ed è il linguaggio del cervello di
massa a parlarci, a irrigidirci nei codici che ci avvicinano alla comunicazione
standard e ci portano lontani da noi stessi.
Sulla soglia di Dizionario segreto d’infanzia troviamo Natalia Ginzburg a
pronunciare la parola poesia.
L’epigrafe tratta da Vita immaginaria è stata aggiunta alla fine. Mi sono
imbattuta nel libro della Ginzburg a Dizionario già scritto:
“Molte sono le parole che sentiamo di dover pensare nel loro vero significato,
scrostandone ogni volta le vernici di falsità che le hanno coperte; e una di
queste è la parola poesia.”
Sono stata in dubbio se riportare o meno l’ultima parte della citazione. Troppo
esplicita. L’accesso alla letteratura, deve avvenire per vie traverse. Nel libro
la parola poesia non ricorre, mentre abbondano parole quasi sgradevoli:
dialettali, ispide, ruvide. Alla poesia si arriva per dei budelli segreti.
Astrakan, sgrisoli, sencillo, ternoriposo tra tomba e tombola, torsolo tra orso
e toro. Come collani le parole di cui fai dizionario? Dal verbo collanare: “la
collana era una macchina da scrivere.”
L’idea del libro nasce dall’incontro con Giovanna Zoboli editrice di
Topipittori. Zoboli, conoscendo Les adieux, il mio esordio pubblicato da
Fandango libri nel 2007, mi propose di entrare a far parte della loro collana
sulla nascita degli immaginari artistici nei primi anni d’infanzia. La mia prima
risposta fu: io non ho un immaginario! Ho sempre fantasticato tramite le parole,
i loro suoni. Così ho accettato senza sapere come avrei fatto. Zoboli mi ha poi
fatto notare che il libro in realtà è zeppo di immagini perché ogni parola fa
sorgere una serie di visioni. Ci aveva visto bene prima di me. Una volta deciso
il formato del dizionario, le parole sono venute da sé, per associazioni
istintive. Volendo, si possono suddividere i lemmi per aree tematiche: ci sono
le parole delle filastrocche, le toponomastiche, le capite-male, le onomatopee.
A scavo avviato il processo è diventato sorgivo, e tutt’oggi continuano a
venirmi in mente altre parole che chiedono un loro spazio nel Dizionario. I
dizionari si sa non stanno mai fermi.
Il libro indica due rischi del linguaggio: deve esserci consapevolezza della
distinzione tra tTempo vero/lingua vera e tempo falso/lingua standard , ma ci si
deve pure guardare dal non “ricadere nelle lusinghe di un individualismo di
maniera.” Esiste un punto d’equilibrio?
È la letteratura il luogo dell’armistizio tra il linguaggio intersoggettivo
necessario a una vita comunitaria e il linguaggio personale necessario a una
vita onesta con sé stessi. Rachel Cusk in un saggio contenuto in Coventry spiega
che il motivo della diffusione dell’insegnamento della scrittura creativa è da
ricercarsi nel bisogno di un linguaggio più onesto: scrivere è il recupero di un
“sé” più vero all’interno di un mondo dove ci si sente alienati.
Tra il favoleggiato e il biografico nel Dizionario traspare la storia di un
idillio con le parole che è stato consentito dall’essere stati risparmiati a una
“una precoce socializzazione”. È un lieto fine o una fine dovuta quello della
protagonista che dice “finalmente a scuola dopo anni di isolamento, la mia
gorgogliante parlantina cominciò a irrigidirsi nelle statue ghiacciate
dei cioè e dei praticamente”? Sembra un finale alla Collodi, dove non si sa se
essere felici o no per Pinocchio, o alla Carroll. Per dirlo dalla prefazione di
Busi a Alice nel paese delle meraviglie: “la disgrazia più irrimediabile della
vita: non essere mai adulti e poi, improvvisamente, non essere più bambini”.
Non idealizzo l’infanzia come tempo mitico dove tutti siamo felici e buoni. C’è
anche tanta crudeltà nell’infanzia e la protagonista del Dizionario la lascia
trasparire attraverso i suoi pensieri più oscuri. È una bambina un po’ folle ma
anche molto matura, con uno sguardo severo sulle ombre della vita familiare.
Allo stesso tempo, la voce adulta che rievoca quella bambina non ha smarrito la
propria identità infantile. La salvezza, se ce n’è una, è essere stati bambini
un po’ spietati; e diventare adulti con uno sguardo pietoso per l’infanzia.
Allargando il campo. I libri sull’infanzia rientrano in quella che Emy Berseghi
e Giorgia Grilli, in un bel saggio Carrocci, definiscono ‘letteratura
invisibile”, la letteratura che dà voce a chi non parla, per stare
all’etimologia di infanzia, lungo la faglia: “bambini come creature da formare e
bambini come creature non ancora deformate”. Ti senti una scrittrice-invisibile?
Katherine Rundell in Perché dovresti leggere libri per ragazzi anche se sei
vecchio e saggio cita un’intervista a Martin Amis. Gli avevano chiesto se avesse
mai pensato di scrivere per bambini e lui aveva risposto: “Forse se avessi un
grave danno celebrale lo farei.” Il saggio di Rundell è la replica perfetta allo
sguardo altezzoso che esiste verso la letteratura per ragazzi. C’è un
pregiudizio simile perfino tra chi i libri per bambini li scrive. Alla domanda:
“Hai scritto qualcosa ultimamente?” capita di rispondere “Ah, niente, solo un
libro per bambini.” Credo comunque che ci sia sempre stata una grande osmosi tra
i miei lavori per bambini e i miei lavori per adulti, al punto che scrivendo mi
capita di domandarmi a quale pubblico mi sto rivolgendo davvero. Stabilirlo in
modo netto è una questione editoriale e commerciale: i librai devono sapere in
quale settore catalogare ogni libro. Se mi sento una scrittrice invisibile?
Diciamo che mi piace ibridare, e che le dinamiche editoriali non sempre
sorridono a chi non rientra in facili classificazioni.
Secondo i saggi contenuti in La letteratura invisibile la domanda delle domande
è: “essere stati bambini che cosa significa”?
Aver vissuto senza pelle nell’incandescenza delle cose sentite fino in fondo e
conservarne intatto il ricordo nelle proprie identità future. Provando magari a
guardare sempre tutto come chi è appena arrivato sul pianeta Terra e cerca di
capire come vanno le cose.
Il Dizionario segreto d’infanzia contiene una bibliografia suggerita. Ginzburg,
Batuman, João Guimarães Rosa, Virginia Woolf, Dino Buzzati, Calvino, Magris,
Meneghello e altri. Perché Dizionario è anche un’esplicita riflessione sullo
scrivere. C’è la Le Guin de I sogni di spiegano da soli, che parla
delle disinsegnanti. La letteratura ci può ancora disinsegnare qualcosa?
La letteratura non fornisce risposte o consapevolezze ma apre a dubbi e
voragini, e la letteratura per l’infanzia deve fare altrettanto, senza
rinunciare alla sua ambiguità, non riducendosi a manualetto d’istruzione per le
prime volte, a promozione di messaggi educativi di base. I bambini sentono
l’impostura dei libri con la missione incorporata. Le storie devono dare la
possibilità a ciascun lettore di fare le sue scelte, morali e no.
Da Les Adieux: “Crescere è fare le cose dei libri dei proverbi, un vocabolario
che li mette in fila.” Proverbi in Dizionario credo di non averne trovati. Tra
il primo libro e questo com’è cambiato, se è cambiato, il tuo essere scrittrice?
È una domanda che mi sono posta mettendo mano dopo circa venti anni a questa
sorta di Les Adieux “remastered”: non mi ero allontanata più di tanto da
quell’inizio o stavo compiendo la chiusura di un cerchio? I temi ritornano ma la
consapevolezza è un’altra. Durante questi vent’anni sono diventata altre
persone, ho attraversato altre identità. Non avrei potuto proseguire con lo
stile sregolato di Les Adieux, così legato alla ventenne universitaria e
sperimentale che ero allora. In Dizionario tornano le mie ossessioni espresse
però dalla me che sono diventata dopo la conquista dell’età adulta. Continuando
a volermi incompleta, plasmabile, reinventabile.
Concludiamo con un ultimo tocco di teologia beffarda. Dal Dizionario: “Adulterio
– Era sicuramente il peccato di essere adulti.” Come ce lo si perdona?
È il passaggio del libro che meglio racchiude tutta la rabbia che il bambino
nutre verso il tradimento degli adulti quando non si sente visto, riconosciuto,
rispettato in quanto bambino, cittadino di un mondo misterioso e delicato. Non
ce lo si perdona.
antonio coda
*In copertina: illustrazione di John Tenniel ad “Alice’s Adventures Under
Ground”, 1886
L'articolo “Nell’incandescenza delle cose sentite fino in fondo”. La letteratura
per l’infanzia apre voragini. Dialogo con Arianna Giorgia Bonazzi proviene da
Pangea.
Mi rivolgo a te con parole come carezze di cardo, facendo delle mie spine un
lambire delicato, senza bardature morali, infine, e armamentari retorici.
Hai veduto, credo, quanta poca virtù alligni nella forza di chi mostra sicumera,
e quanta sapienza virtuosa in quella più dimessa di chi sorregge grandi pesi
senza farne mostra o parola.
Trovo sempre più vasto lo sguardo di chi guarda al mondo con cuore semplice, e
di semplici, buone cose si nutre con la gioia manifesta di un bimbo che riceve
qualcosa in dono. Sia il mondo di coloro i cui sogni non poggiano solo su di un
guanciale. La mia parola, vedi, è ben umile cosa: artigianato e non arte –
sebbene le due cose non fossero così distanti tra loro nell’epoca fiorente delle
botteghe.
Non sono solito far tuonare la parola contro coloro che peccano, e so bene che
se esiste un Dio non si volge all’umana fallacia come se dovesse compilare un
libro mastro delle qualità e dei difetti. Faccio tuonare la parola, piuttosto,
contro coloro che non solo pianificano scientemente il male ma sono per
soprammercato incapaci di concepire il bene. Dio, però, e preferisco perseverare
nell’idea che esista oltre o prima di ogni iconografia, non è un notaio
dell’anima e nemmeno un cecchino dei cuori. Ho visto persone fare il male con
una innocenza bestiale ed essere ugualmente capaci di volere il bene senza
niente in cambio. Credo piuttosto che la malvagità sia insita nel progettare il
male, come suggerivo, nel renderlo numero organizzato, nel farlo divenire una
cosa seriale e un’abitudine. In questo i potenti sono maestri e capaci di ideare
falsi valori, idoli osceni, inclinazioni coatte, dispositivi senz’anima di
azioni simili ad automatismi. In tutto questo vorrei sempre che la poesia che
concepisco potesse essere trasversale, laterale a ogni acquisito, e ficcante
abbastanza da insinuare dubbi e domande, piuttosto che proclamare certezze.
D’altra parte, se il poeta fosse solo fingitore, la poesia sarebbe ben misera
cosa, il fatto è che il poeta finge, sì, ma sempre guarnendo la finzione di un
po’ di verità; o forse è proprio un certo tipo di finzione che è realmente
depositaria del dono di saper suscitare emozioni e pensieri veritieri. Ma non è
ancora questo il nodo. Fingere non significa necessariamente mentire,
esattamente come dissimulare non è sempre nascondere.
Forse il vero poeta finge un ruolo, una postura, uno stratagemma e una
disposizione, solo per aggirare l’ovvio e mettere in luce ciò che è nascosto,
recondito ma vero sebbene esule dall’attenzione dei più. Creare ha in questo
senso la pienezza, l’abbondanza di sé, e la veritativa sostanza, di ciò che
eccede le misure note e trabocca, promana ancora prima dell’intenzione di farne
dono o materia di scambio. Io, personalmente, creo come un invasato perché sento
l’impellenza di non volgermi all’indirizzo di questo o quel tipo di lettore, ma
nella speranza, sempre ferma e genuina, di traslare ciò che ho dentro fino al
punto di non appartenermi più, fino al punto di sorprendermi io stesso che le
sue caratteristiche siano più evidenti se adulterate dalla fantasia, che non
messe brutalmente in pedissequo elenco.
L’artista crea mondi ma non ne è padre, in qualche modo egli è solo un tramite,
prende in prestito qualcosa di comune e lo volge allo straordinario, prende in
prestito storie e paesaggi dell’esistere non comuni e restituisce la familiarità
di ciò che è vita senza apparenti eccezioni. Il suo è uno sguardo trasmigratore.
Egli conosce bene gli artifici e usa mille trucchi, esattamente com’è capace di
denudare la parola, renderla essenziale e parca, ma tutto questo avendo ben
presente che le due cose coincidono e si equivalgono, laddove si testimonia non
tanto di sé quanto di un sé che ridonda di altri ed altro, di un sé libero di
essere ovunque e in ogni tempo, ma mai in ritardo o fuori luogo.
Vorrei che tu sapessi che nella vita io ho molto sbagliato e perseverato
nell’errore e nell’ingiustizia; proprio per questo quando scrivo cerco di
colmare ciò che è in difetto, ricucire ferite, rimettere debiti, raccogliere la
voce di chi soffre in silenzio, soprattutto di sé, e renderla scudiscio e
carezza, ruggito e silenzio, un dono infine, che non ha l’intenzione del dono, e
soprattutto è tale verso me nel momento stesso che è raccolto da un’anima –
forse lontana fino allo stemperare della propria traccia, ma pur sempre sorella
in questo umano cammino.
Penso che questo possa essere l’inizio di un gesto di avvicinamento, ispettivo e
cauto, ma tale, di dialogo tra noi.
Massimo Triolo
*In copertina e nel testo: Johan Christian Dahl (1788-1857), Studi di nuvole
L'articolo Breve lettera a un’anima sorella sulla condizione del poeta e
questioni affini proviene da Pangea.
Aggiornamenti di attualità sul caso Paragon: le analisi smentiscono la difesa
del Copasir; letture sul tema del linguaggio che evoca lo schiavismo
nell'elettronica e informatica; Google usa le sue piattaforme per ostacolare le
alternative aperte.
Il 5 Giugno, il Copasir ha pubblicato la sua relazione sul Caso Paragon: tra le
altre cose, ci dice che Citizen Lab potrebbe averla sparata un po' grossa, e che
Francesco Cancellato potrebbe non esser mai stato intercettato. Peccato che una
settimana dopo esca un nuovo report di Citizen Lab, che indica che altri due
giornalistə europei sono stati attaccati con malware Paragon, e che uno di
questi lavora proprio a Fanpage, la testata diretta proprio da Cancellato.
Abbiamo già parlato di linguaggio escludente nell'informatica, continuiamo a
farlo ripercorrendo uno studio sull'origine dell'espressione master-slave
(padrone-schiavo). Un'espressione più recente di quanto potrebbe sembrare, e
abbastanza specifica di elettronica e informatica. Attraverso vari esempi,
vediamo che anche se è difficile dare una ricostruzione certa della sua genesi,
questa espressione non deriva dall'essere una metafora espressiva - per quanto
problematica - di un meccanismo tecnico, ma da una specifica concezione della
divisione del lavoro che prevede sempre l'esistenza di un dualismo tra
volontà/intelletto e forza bruta.
Nextcloud denuncia che Google, attraverso il Play Store, ha artificialmente
limitato le possibilità della sua applicazione per Android, rendendo più
difficile (ma non impossibile) l'utilizzo di alternative libere.
Chiudiamo con il ruolo italiano nei bombardamenti statunitensi contro l'Iran.
Ascolta sul sito di Radio Onda Rossa
Potremmo dire: didattica della sobillazione. Svergognare il linguaggio, potremmo
dire. Riverginarlo. Resurrexi.
Senza che ciò diventi prassi, però – lui, il poeta, Prassitele del caos. Gli
altri – i poetastri-poetini-impotenti – i parassiti del verbo, i cannibali del
vocabolario.
Al posto del vocabolario: esigere l’arca. E rompere tutte le alleanze.
Esigere, cioè, il diluvio. Le tante bestie. Le acque sigillate. Nessuna colomba
a imbottirci di false speranze.
Di Matthieu Messagier, per così dire, resta l’ombra, la figura corrotta e
miracolata – il poeta, a dirla tutta, ha delirato e disertato: è già – e sempre
– altrove.
Una fotografia, forse, lo centra: il ragazzo – viso da inquieto putto: capelli a
tiara, inesorabili baffi, paffuto – siede su un triciclo, una mano regge il
volto, in crollo; davanti, un cane. Il tutto, reso all’oscuro, tra vampe
bianche, diacce. “Le Figaro” scrisse di una lumière obscure; era il 2020,
Messagier sarebbe morto l’anno dopo, a ridosso dell’estate, doveva compiere 72
anni. Flammarion aveva pubblicato come Dernières poésies immédiates una raccolta
di “Sérénades”. È un libro tra le strettoie del rischio, quello, scritto nel
luglio del 2006, in ospedale: il poeta, “ricoverato per una grave ipercalcemia…
dopo ventiquattro ore chiede un quaderno e una matita, a redigere, dice, un
‘Ticino di parole’”. Un insetto campeggia in copertina; la quarta è felicemente
destabilizzante:
> “Il foyer della Poesia gode dei tentativi
> delle parole di trovare per lei
> una ragion d’essere
> (la poesia autorizza il conoscere
> non certo l’inverso)
>
> Riverso il capo tra le mani
> non rendo scaltre le poesie di agonie
> passate all’autopsia della notte:
> pratico alfabeti impropri
> estranei alla cappa del pensiero
> necessario a ordire le loro
> cronache contemporanee”
Figlio di artisti – il padre, Jean, praticò, tra l’altro, come discepolo di
Picasso – Messagier è stato messo nelle condizioni di esigere il meglio dal
proprio genio. Girò qualche corto con Michel Bulteau, girò per Parigi giocando
al flâneur flamboyant, scrisse disegnando. Praticò la parola fin da bimbo, con
lo scopo, più che di auscultarsi, di sgretolarsi, di farsi lo scalpo, di
scappare. L’esordio nel 1969, per Pauvert, con un ciclo di versi di implacabile
precocità. Scrisse disinteressandosi di un ‘pubblico’, disperso tra i rivoli di
pubblicazioni d’occasione, occipitali al tempo, presto introvabili.
In Le Dernier des immobiles (1989), uno dei tanti fascicoli stampati con Fata
Morgana, il poeta stila in distillato la propria poetica:
> “Si scrive perché nessuna parola è in grado di condurci al senso: lasciala lì,
> allora, prima dei bei sentieri dell’opera, incisi sul filo dell’evidenza. È
> l’elegante unicità piromane a renderti pari alla natura originaria”.
Sviluppando la teoria delle ‘corrispondenze’ abbozzata da Baudelaire, Messagier
scrive di voler “pervenire alla somiglianza/ per averne perso il senso”.
Schifò il Sessantotto; nel 1971 scrisse – insieme a un gruppo di accoliti – un
improbabile Manifeste Électrique aux paupières de jupes, edito da Le Soleil
Noir. Quando capì che il gruppo percorreva la via di William S. Burroughs e dei
surrealismi, mollò tutti, facendo capo a se stesso. Anche Messagier – secondo il
crisma rimbaudiano – aveva bisogno di significare la propria poesia
disintegrandola. Dal ’72, per sette anni, non scrive; viaggia per l’Europa come
un vagabondo, un senzatetto di sé, un pellegrino in sempiterna erranza.
Dell’esperienza parigina serba l’amicizia con Dominique de Roux. Il grande
editore anticonformista de “l’Herne”, gli aveva commissionato un improbabile
“libro a venire”; gli aveva chiesto di dirigere insieme a lui la rivista “Exil”.
Il primo numero, uscito nell’autunno del 1973, reca testi di Ezra Pound, Raymond
Abellio, Henry James e J.-J. Langendorf. Messagier è già altrove, permette che
sia pubblicato il suo Bestiaire.
Tornato in Francia, piagato da una malattia neuromuscolare, Messagier si
installa nel Doubs, nascosto ai più. Lì scrive l’immane poema in
prosa Orant (1990), per lo più un oratorio di quaderni, spunti, appunti, una
pestilenza linguistica di ottocento pagine, “un affronto alla ragione, un gesto
borderline, fitto di pura confusione emotiva ed epifanica vastità che non è
improprio paragonare al Finnegans Wake di Joyce” (Renaud Ego).
Nei suoi scritti – che chiedono a chi li attraversa una sorta di ermeneutica
all’arma bianca, il disarmo del sé – qualcuno riconosce la “teomania” di Henry
Michaux. Renaud Ego ha rintracciato un lignaggio che lega Messagier a Gerard
Manley Hopkins (“per l’audacia sintattica”), Giacomo Leopardi (“poesia come
trasposizione della natura in piena esuberanza”) e Velimir Chlebnikov (“gusto
per i neologismi e ricerca di una ‘cosmoglossa’, un linguaggio comune per dire
l’universo”). Secondo il poeta
> “Il significato originario delle parole è in totale contraddizione con l’uso
> che ne ha fatto il nostro tempo: attonito rapimento, dolore, erba tra le
> mani”.
Di questa sregolatezza – improponibile a latitudini italiche, dove il dire
incontrollato (chessò: Calogero, Fermini, Ceni) è messo ai margini, incompreso
per incompiutezza di chi lo soppesa – resta l’impeto, il talamo, il sepolcro
vuoto. Titanomachia. Semmai: venefico antidoto contro gli artifici dei bot,
contro gli artificiosi versi dei poeti al botulino.
Spesso è opera che resta nei quaderni, quella di Messagier, che non si può
restituire in trascrizione. Pena la perdita del corpo del reato, del corpo
mistico del verso.
Dunque, sì: documento-nocumento.
***
Crepita il crepuscolo e crolla la camera
sempre in quello stesso crollo
nell’atto della creatura randagia
finché Locarno non si serra
in una crisalide epica e crepa l’idea
Volto fisso
e freme la circolazione
nel particolare, oh, sì, l’unico
preso dal panorama, il convulso, il rovinoso
soprassalto della carne
la maestà che diviene sudore
e il più vile dei tratti:
il tutto rampogna la propria apoteosi
e
vivacità dell’ossessa pazienza
annaspa nel flusso perché lo stupore è un nodulo
*
Lugano, la forma lappa
la sostanza del faticare
l’oscurità appena lambita
dalla speranza angolare
in aria si dispiega il rifugio
dello stesso volume o quasi
perché di rado l’arborescente visione
compie dell’asse degli anni
la nota astratta, la sorpresa
al calendario delle sentinelle
solo l’esasperazione
di un paradiso in sussiego
e il broncio corrugato come una goccia
preso da una divinità larva
che lavora al vertice
di un’immaginazione esperita
con tanto di balsamo addosso
con tanta redenzione priva di pareti.
*
Amadriadi arroganti al sole di maggio
C’era una lunga seta poetica
che nuotava con serica dolcezza.
“Intanto
della resina degli occhi
della sentinella che sfianca il giorno
la miscela è chiara
e il bruto atomo la sua fragranza
vinto al concerto
dalla prima”.
Amadriadi arroganti al sole di maggio
e perfino la grammatica dell’assenzio
le nuvole dei primati aggiunte
a quelle trasparenze su sopiti prati…
…su stupiti prati si slanciano
classifiche di ore al miele
e noi passiamo tra i punti e le virgole
per perderci (quando il medico mi ha auscultato
il cuore, ho detto: “non si facciano prigionieri!”)
*
L’autunno non sa redimersi dall’estate
quando esplodono le lacrime
perché è troppo – è difficile
il vano appello all’oggetto e al fine
Ed è rosa, è opaco
porge la sua tristezza
di rari alcolici
Da qui puoi vedere tutto
lo stato del risveglio
appena importato
Un torrente di carta & matita
i sorrisi della mano sinistra
frantumi di regni sconfitti
al culmine di una illogica velocità
Ma la vita è altro, è altrove
Matthieu Messagier
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