Il testo che apre il ‘Meridiano’ che accoglie Tutte le liriche di Hölderlin, è
il punto più alto, riassuntivo, della ‘funzione Hölderlin’ nella poesia
italiana. In quel testo – Con Hölderlin, una leggenda –, Andrea Zanzotto dice di
una “insistenza”, di un “lasciarmi andare… all’apertura di libro quasi
magica”. Quando arriva, Hölderlin – il gran mago, colui che conosce i nomi per
dissipazione e sublimazione – spiazza, fa piazza pulita, costringe a partecipare
del suo precipitare.
“L’incontro con Hölderlin è stato tanto intenso quanto quello con Rimbaud”,
scrive Zanzotto. È vero: entrambi i poeti sembrano dei banditi dal linguaggio,
degli irredenti al verbo, ma il loro impeto – troppi anni li separano, quasi
millenni – è opposto. Rimbaud non tenta l’armonia, solletica il caos; non cerca
gli dèi celesti ma quelli inferi; non alla Grecia mira ma all’ebbrezza esotica;
la sua è una fuga verso l’altro mondo, l’Africa, verso una vita che metta a
tacere la vita; Hölderlin sprofonda in sé, come chi ritorna dopo aver toccato le
vette: che altro dire dell’empito di quel cielo se non il frastiono? Rimbaud
strega il linguaggio fino all’Adamo; Hölderlin lo dissoda perché accada, ancora,
un qualche rivelazione del ‘secondo Adamo’. Le Illuminazioni vanno lette insieme
alle cosiddette “Poesie della torre”.
“Sentiamo che in Hölderlin ci sono delle zone oracolari, piziache, quasi”,
scrive Zanzotto. A dire: Hölderlin non sfregia il linguaggio per inorgoglire
l’opera di gorgiere, tutto il contrario – sfrega fino all’ultimo brillio, al
verbo che precede ogni verbo. Cioè – e Zanzotto lo sapeva bene –: troppi poeti
più o meno ‘oracolari’ abbiamo letto in questi decenni, ma dov’è l’oracolo il
poeta, semplicemente, non è, scompare. Dunque: Hölderlin non è un’opera, ma
una pratica – l’esito, sconvolgente (come dopo l’attraversamento di ogni grande
poeta), potrebbe realizzarsi nel balbettio, nel brivido, nel silenzio.
Tornando a noi. Nel secolo della poesia che si esprime per negazioni, che dice
ciò che non è (Montale), il poeta dell’essere, della solarità che acceca, “come
una gigantesca figura di poeta-profeta, che attinge alla civiltà greca i grandi
ideali che egli propone – in metri accesi e pindarici – ad una umanità migliore,
che deve ancora venire e di cui egli canta presago” (Vincenzo Errante nel
poderoso “Tesoro della lirica universale”, Orfeo, da lui allestito per Sansoni
nel 1949).
Si diceva, appunto, di una ‘funzione Hölderlin’ nella poesia italiana. Hölderlin
è stato tradotto, tra i tantissimi, da Giosuè Carducci (“Perché tutto co’ morti
il mio cuor è”) e da Gianfranco Contini (“Un segno noi siamo, indecifrato,/ non
avvertiamo il dolore,/ lontano dalla patria la lingua abbiam quasi scordata”),
da Cristina Campo e da Leone Traverso; Zanzotto cita le versioni di Giorgio
Vigolo e quelle, in dialetto, di Giacomo Noventa. Ungaretti dichiara Hölderlin –
insieme a Blake, Leopardi e Lautréamont – il poeta-totem della propria ricerca
lirica. Luigi Reitani, nel ‘Meridiano’ del 2001, pare aver chiuso il discorso
sulla filologia hölderliniana: tra l’altro, ormai, di Hölderlin abbiamo
setacciato i cunicoli della vita, degli amori e degli ardori; le lettere ci
permettono di spiarne i tormenti. Eppure, Hölderlin è un sovrappiù del
linguaggio, ha tana nel bianco-banchisa dei suoi frammenti incompiuti: si
rinnova – e ci sfida – ad ogni lettura. Così, per alcuni – come all’autrice del
libro di cui parliamo – è sempre oro la versione delle Liriche di Hölderlin
realizzata da Enzo Mandruzzato – gran traduttore di Pindaro, per altro,
poeta-pilastro di Hölderlin – stampata da Adelphi nel 1977:
> “Ma a noi non è dato
> riposare in un luogo,
> dileguano precipitano
> i mortali dolenti, da una
> all’altra delle ore, ciecamente,
> come acqua di scoglio
> in scoglio negli anni
> già nell’Ignoto”
>
> da Canto di Iperione e del destino
In sostanza: in Hölderlin la poesia si compie superandosi – che il suo tempo lo
abbia rinnegato e il nostro lo fraintenda è naturale, dacché l’opera è il
fermento di un altrove. Così, Ladro di stelle – bellissimo titolo che indaga
“Hölderlin e il poeta come titano”, stampa Solfanelli, con una partecipe
“presentazione” di Giovanni Sessa – non è un’analisi della ‘poetica’ di
Hölderlin, ma uno studio sui suoi effetti, sulla sua efficacia. “Intendiamo
guardare all’esperienza estetica hölderliniana come a un’esperienza religiosa”,
scrive, quasi subito, arrischiando, l’autrice. Chi la conosce, sa che Livia Di
Vona – l’autrice – è gentile quanto coriacea; dietro l’apparenza docile nasconde
l’accetta e la sfacciataggine. Ha lavorato anni a questo libro – che come ogni
vero libro è infinito –, in esatta solitudine, libera dalle asfissianti
categorie dell’accademia. Il suo saggio sfiora a tratti il segreto di ogni dire
poetico, si inabissa negli indicibili. In alcune pagine, l’autrice lega, in
sintonia di vertigini, il dire di Hölderlin a quello di Marina Cvetaeva (Il
poeta a giudizio: capitolo pieno di folgorazioni). “Indugio ogni benedetto
giorno nel tormento della lingua. Da profana, da non poeta. Con Hölderlin le
cose sono drasticamente peggiorate, cioè migliorate perché come conduce lui nel
cuore della questione, nessuno”, mi scrive, un giorno, Livia. A dire di un libro
che è come un cuore messo a nudo – anzi, un cuore interrato: nascerà la bianca
betulla, libellula del bosco, oppure l’albero sacro alla civetta.
Intanto: perché “Ladro di stelle”? Cos’è questo ladrocinio, cosa sono queste
stelle?
Sono le lettere dell’alfabeto. Il titolo, indirettamente, mi è stato suggerito
da un libro di Giuseppe Sermonti sull’origine della scrittura: L’alfabeto scende
dalle stelle in cui si ripercorrono le antichissime teorie che volevano le
lettere dell’alfabeto greco corrispondenti alle costellazioni boreali. Sicché,
detto molto sinteticamente, “dire” significa ripetere i suoni della Creazione.
Il poeta, che ha l’altissima responsabilità di partecipare alla Creazione, nel
momento in cui titaneggia ruba, letteralmente, le stelle/lettere, che non crea
lui.
Ti faccio la domanda con cui inizi il tuo lavoro: “Perché il linguaggio è il più
pericoloso dei beni?”
Perché il nostro stare nel mondo dipende anche (se non soprattutto) dal modo in
cui abitiamo la parola. È nel linguaggio che per la prima volta sperimentiamo la
vertigine del titanismo. La tentazione fortissima di rinnegare la nostra radice
creaturale per competere con Dio. Per Hölderlin, la parola svolge soprattutto la
funzione di rendere testimonianza alla verità e ciò solo ed esclusivamente alla
condizione che la parola stessa sia un dono, qualcosa che l’uomo non crea
assolutamente da sé. Ma quando il poeta compete con Dio, quando pretende, cioè,
di versare da sé “la fiala della vita” (Inno alla Dea dell’Armonia), rinuncia
alla sua radice creaturale e provoca uno svuotamento della realtà. Realtà, per
Hölderlin, è sempre stare dentro una compagnia “verticale”; con lo svevo
penetriamo nel linguaggio come luogo di una compagnia meravigliosa che consente
al dire del poeta di fiorire in mondo, oppure come luogo di una solitudine
dolorosissima.
…ma poi, mi viene da dire, qual è questo logos che ci coinvolge e ci tortura:
quello di Eraclito o quello di Platone, quello di Gorgia o quello del prologo
del Vangelo di Giovanni? Tra ‘verbo’ e Verbo, tra ‘per verba’ e diverbio, dove
di pone Hölderlin?
Entriamo nel vivo dell’unità simbolica per Hölderlin, cioè l’armonia tra aorgico
(Dèi/natura) e organico (intelletto). Se lo seguiamo nella sua peregrinazione
dall’origine della Tradizione della poesia occidentale nella Grecia del mito
fino alla Germania tra il Settecento e l’Ottocento, tocchiamo lo zenith e il
nadir del linguaggio poetico: dal sorgere dell’armonia degli opposti in senso
eracliteo, fino alla sua disgregazione, passando dal momento fatale del
titanismo, in cui il linguaggio da luogo da abitare, si trasforma in strumento
di dominio sul mondo da parte del poeta. Quindi Hölderlin attraversa tutte le
sfaccettature che hai nominato fino a quando non si arresta dentro un’attesa. Il
suo qui ed ora (ovvero il periodo della torre), è senza il vivente. Scrive
infatti in una versione tarda di Patmos: “Ma è terribile come Dio dissipi
all’infinito, qua e là, ciò che è vivente”. E poco più avanti: “Nulla di
immortale si vedeva nella natura”. Hölderlin si trova in un vuoto di realtà (nel
senso spiegato prima), perché il vivente non c’è. Allora la parola, diversamente
dai tempi gloriosi del mito, non può celebrare “ciò che è”, ma necessariamente e
apofaticamente aggiungo, deve nominare ciò che non è. In questo modo prepara,
per i posteri, il ritorno dei celesti. Stare dentro un’attesa, significa nel
linguaggio che la nominazione si pone all’inseguimento di realtà, di una
pienezza di senso che senza una compagnia altra non si dà mai.
…e dunque: dal prodigioso – titanico – tentativo di sintesi tra ‘grecità’ e
cristianità, tra Dioniso e Cristo, tra Empedocle e Apocalisse, cosa viene fuori,
cosa ci resta in mano?
In Hölderlin, nell’innocenza del suo cuore, resta un’attesa indefinita. Io direi
che siamo sempre dentro una scelta di cui dobbiamo assumerci la responsabilità:
o vogliamo riconoscere una radice creaturale, oppure continuiamo ad espellere il
dio dal destino con una parola autosufficiente, cioè condannarci ad una infinita
solitudine.
Dichiara la poesia-emblema di H., e dimmi perché.
Direi Come quando il giorno di festa (Wie Wenn am Feiertage) in cui la frattura
nella Tradizione della poesia occidentale si consuma definitivamente. Questo
inno comincia descrivendo l’armonia tra aorgico e organico, come se nel qui ed
ora di Hölderlin fosse realtà. Poi però accade qualcosa di inaudito: l’irruzione
di un pianto al termine, che ci dice che non è più possibile, come dicevo prima,
“celebrare ciò che è”. Il poeta è sempre, per lo svevo, sacerdote della verità.
Se il vivente non c’è, non può dire che c’è, altrimenti dice il falso visto che
per lui la verità non è mai un prodotto del linguaggio. Questo è uno degli
indicatori, per quanto mi riguarda, per cui il poeta tedesco rinuncia alla
creazione di un linguaggio. Non si può riempire il vuoto di un’assenza con gli
artifici linguistici. Una delle tante tracce di ciò che accade qui, la si trova
in due poesiole giovanili, entrambe dal titolo indicativo: Il poeta
cieco e Palinodia. Lascio un suggerimento: poiché, per quanto mi riguarda, non
c’è affatto cesura tra fase giovanile e cosiddetta fase “della pazzia”,
potrebbero essere lette insieme proprio a Come quando il giorno di festa, inno
della maturità, in uno dei suoi versi più significativi: “Ciò che vidi, il
sacro, sia la mia parola”. Si potrebbe scoprire una sorprendente continuità tra
prima e dopo la “pazzia”.
Dichiara la poesia che più ami di H. – e perché.
Difficile dirne una sola, ma mi vengono in mente adesso Il viaggiatore,
l’elegia Lamento di Menone per Diotima o La veduta. Per quanto mi riguarda, è
difficile non fargli compagnia, non stare con lui lungo il sentiero scosceso di
una malinconia, mentre il Neckar solitario rinuncia ai suoi abissi misteriosi.
Era davvero folle H.? Meglio: come la sua ‘mania’ irrompe nel ‘logos’? E che
senso ha, nell’esistere, la necessità di ‘poetare’?
Sempre più spesso gli studiosi, negli ultimi anni, tendono a riconsiderare la
pazzia di Hölderlin. Cito come esempio l’importante studio di Giorgio
Agamben, La follia di Hölderlin, in cui si ipotizza una simulazione della pazzia
per sottrarsi alle conseguenze giudiziarie delle sue antiche simpatie per i
valori della Rivoluzione francese, ma personalmente credo che si possa
considerare anche la questione del pietismo, sempre – a mio avviso – troppo
trascurata quando si parla dello svevo. I pietisti più radicali sceglievano
volontariamente di abdicare dalla vita esteriore, ritirandosi preferibilmente in
luoghi appartati in campagna, e rinunciando anche alla volontà di esprimere una
propria individualità. Per il resto, più che un’irruzione della mania nel logos,
in Hölderlin irrompe un necessario balbettio, la constatazione amara di una
solitudine nel flutto, nella fiamma e nella parola. Che può dire il poeta “se
nulla di immortale si vede”?
Insomma: il poeta ha per fine esaudire la poesia incenerendola?
Dipende. Il poeta deve sempre scegliere da che parte stare. Il suo dire può
partecipare alla Creazione, come in origine, oppure – citando la chiosa di una
poesiola di Rilke dedicata a Baudelaire – “E perfino la furia che annienta si fa
mondo”, venirsi a trovare, cioè, nel punto esatto in cui la Creazione stessa si
disfa, per realizzare quella tiranna tentazione titanica. Dal punto di vista
meramente estetico, non c’è momento più alto, poeticamente, del competere con un
dio, e in ciò i geni come Baudelaire, come i simbolisti francesi, sono maestri.
Ma se platonicamente diciamo che la bellezza è splendore del vero, stando con
Hölderlin il poeta deve rinunciare alla signoria dell’ego.
*In copertina: Caspar David Friedrich, Luna che sorge su una spiaggia deserta,
1837/39
L'articolo “Già nell’Ignoto”. Dialoghi intorno a Hölderlin proviene da Pangea.
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Nel 1910, a Copenaghen, esce un libro a suo modo decisivo. S’intitola Vita del
lappone, lo ha scritto Johan Turi in uno stile, al contempo, crudo e fiabesco,
come appena estratto dal fuoco, una specie di nordica Lascuax. Nelle fotografie,
Turi ha lo sguardo ad accetta, occhi che contengono boschi. Nato nel 1854,
faceva l’allevatore di renne; il suo libro, scritto in lingua sami con la
traduzione in danese, fu pubblicato in diverse lingue: in Italia è al 235 della
“Biblioteca Adelphi”. Il libro ha una leggiadria adamitica, la prontezza delle
cose prime e nude: si parla di bestie, di estati come coltelli, di segni nel
suolo e nel cielo e della “pietra del serpente”; le costellazioni si chiamano
“Alce”, “Branco di cani” e “Sciatori”; la Via Lattea è la “Scala degli
uccelli”.
La data in cui è pubblico il libro è importante: di lì a poco i Sami, etnia
indigena del Nord, verranno ripetutamente vessati dalle entità statali,
Norvegia, Finlandia, Svezia, a estirpare terre, a sradicare tradizioni. Non a
caso, intorno a quella data, nel 1913, attracca Ædnan, il poema epico di Linnea
Axelsson, poetessa svedese di origine Sami. Edito nel 2018, Ædnan – che in Sami
significa “terra”, “luogo natio” quando non “madre, matria” – racconta, in
versi, la saga di una famiglia Sami, tra enormità di panorami, apparizioni di
morti, vessazioni, dai primi del Novecento al nostro millennio. Il ritmo imposto
dalla Axelsson contrasta con il tambureggiare dell’epica tradizionale: i versi
sono brevi, a volte brevissimi; si procede per singulti e apocalissi in palmo di
mano; c’è molto bianco intorno, tanto che le parole paiono impronte di renna
sulla neve, rivoli di una danza antica e perduta, di uomini-pernice, di
uomini-gufo. Un esempio:
“Mi addentrai nella palude
dei lamponi gialli
–
Avanzai
finché potei
poi mi spogliai
sciolsi i nodi dei pantaloni
e li riempii di bacche
–
Annodai lo scialle con
della stoffa e ne feci
uno zaino
ricolmo di bacche
–
Una pozza nera
si aprì nel muschio
l’acqua era fredda
meravigliosa per la nuca
–
Allora spuntò
scura nel cielo
l’aquila reale
l’occhio giallo
e nero
–
Nell’occhio giallo
il mondo ebbe
un altro riflesso
–
Dischiuse gli artigli
e si gettò su Aslat
lasciai le bacche
e corsi gridando
con le braccia alzate
–
Vidi l’immenso
rapace volare via
–
Tutto era come sempre
ma c’era un’ombra”
Tradotto in inglese, da Knopf, nel 2024, Ædnan ha avuto un impatto importante:
il libro, tra l’altro, è stato finalista al National Book Award for Translated
Literature. Di questo “ambizioso romanzo in versi”, an Arctic epic from Sweden,
ha detto il “Guardian”, toccando il punto centrale del testo: “in ogni pagina,
distese di spazio bianco, a memoria di una narrazione fatta di assenze,
fratture, silenzi, oblio e mutilazione”. Una porzione di Ædnan è stata tradotta
da Maria Cristina Lombardi – già traduttrice, tra l’altro, del fenomenale poema
epico-cosmico Aniara del Nobel per la letteratura Harry Martinson – nel libro
libro collettivo Voci di donne dal Nord, edito da Crocetti (in cui sono
sintetizzati, per poesie-totem, i lavori, oltre che di Linnea Axelsson, di Eva
Ström e di Ann Jäderlund).
Lei è Linnea Axelsson
Ædnan, soprattutto, è il poema di una lingua defunta che risorge rifulgendo (“La
lingua sami dormiva/ da tempo nel corpo/ bloccata// dentro/ dalla vergogna…//
Come se mai/ noi e i nostri avi/ fossimo esistiti// mai avessimo/ costruito
nulla”). Di una lingua dissotterrata, di minime, esigenti tracce nella neve che
tornano artigli, il ruggito del profondo Nord. Certo, il poema s’infittisce
nella nostalgia: le parole descrivono ma non operano; la danza, non più
sciamanica, è sciamannata, dei fasti restano le vestigia, le braci – pigolano
gli astri. Su tutto, tuttavia, agisce lo straordinario.
Con l’aiuto della Lombardi, abbiamo contattato Linnea Axelsson, a dare ligneo
lignaggio a questa lingua.
Come è nata l’idea di scrivere un poema epico sui Sami? Come ha scelto di
strutturare il libro?
Più che un’idea iniziale, sono stati il lavoro e il materiale ad ispirarmi la
scrittura di un poema epico sui Sami: la poesia epica è stata una scoperta che
poi ho messo in pratica. Credo che un’opera si sviluppi da un’immagine interiore
che funge da orientamento verso un certo linguaggio, una data struttura, un
mondo che il lettore è chiamato ad immaginarsi. Nel caso di Ædnan, l’immagine,
almeno come come la ricordo, era un volto di donna, o meglio, il silenzio nel
suo volto. Fu lei che durante la stesura del testo haportato con sé lo spazio
(Sápmi, la terra dei Sami), gli eventi e gli altri personaggi. Pian piano
l’ampiezza e la natura del materiale – ad esempio, le relazioni interpersonali e
lo svolgimento della narrazione nel tempo – iniziarono a suggerirmi che forse il
racconto sarebbe stato più adatto alla prosa che alla poesia. Prosa e poesia
sono costituite dagli stessi elementi, ma si utilizzano in modi diversi e con
enfasi diversa. Non mi pareva giusto scrivere un romanzo, sarebbe stato come
assolvere a un compito inesatto. Così, a un certo punto, mi è venuta in mente la
tradizione epica, e allora mi sono presa una pausa necessaria. Non nel senso che
ho cominciato a leggere i poemi epici antichi; piuttosto, ho iniziato a
impostare alcuni principi formali di riferimento. Ho riflettuto a lungo intorno
alla tradizione degli joikar sami che sono contemporaneamente canto, tradizione
poetica più o meno narrativa, e strumento per ricordare e conservare le memorie.
Come è riuscita a trovare il ‘ritmo’ adatto al poema? Intendo dire: nel poema si
coagula una lingua arcana, arcaica, ma anche un tono proprio della poesia
contemporanea. Mi spieghi il suo processo linguistico.
Trovare il ritmo è stato decisivo ed è parte della forma stessa del poema: versi
brevi, scarsità di parole, silenzio. Questo mi ha ispirato un sensazione di
ampiezza e di movimento, nello spazio e nel tempo, che tenesse insieme e
caratterizzasse la narrazione. Ci è voluto molto a trovare il giusto ritmo: in
qualche modo, è scaturito durante la scrittura. Altre volte mi è accaduto di
sentire un ritmo senza nessuna parola, che solo dopo è divenuto poesia, ma non è
il caso di quest’opera.
Il ritmo è anche legato alla respirazione e allo svolgimento, nel senso che
nasce quando una poesia si muove tra qualcosa di quotidiano, che senti sulla
pelle, e qualcosa di cosmico, di esistenziale. Produce suono e realismo. Lo
stesso svolgimento si rispecchia nella parola: un termine della sfera quotidiana
o comunque della contemporaneità si incontra con una parola più solenne, più
carica di connotazioni o più antica, riuscendo nella poesia a essere avvertito
come semplice e naturale al pari della parola quotidiana.
Per molto tempo – oggi non è più così – sono stata attratta dall’arcaismo
facile, sia perché amo le profondità e le diverse fasi della lingua, sia perché
quello che devo costruire non è documentato, ma vive nella narrazione orale,
nelle fiabe, nel mito. In Ædnan ho cercato anche di cogliere un certo suono che
credo fosse tra i Sami nell’ambiente in cui sono cresciuta quando si parlava di
cose come lo stato e gli svedesi, o come quando si raccontavano aneddoti.
Quali sono le fonti di cui si è nutrita? In Italia è abbastanza noto il
resoconto di Johan Turi, ma per il resto il popolo dei Sami appare tra le brume
della leggenda. Quali sono i miti miliari, decisivi dei Sami?
Uso tutto quello che posso: ricordi, cose che ho sentito e ho visto, che ho
letto. Più importante di tutto è l’immaginazione, lo spazio per la capacità di
rappresentazione che dobbiamo conservare in noi stessi. Non faccio ricerca nel
senso giornalistico ma, al contrario, evito di leggere proprio di ciò su cui
scrivo.
Detto questo, sono sempre stata interessata e ho letto tanto sulla storia e
sulla mitologia dei Sami, ma la grande fonte, quando si tratta di questa storia,
è fatta di esperienza, cultura e narrazione orale, dunque, dalle conoscenze che
si tramandano in famiglia, tra parenti e amici. Molte culture, come quella sami,
si scontrano con due fattori essenziali: la propria storia scritta, quando non
sia stata resa del tutto invisibile e assimilata, è stata comunque a lungo
formulata da qualcun altro, e che ciò che si conserva ci si aspetta sia
autentico.
Nella mitologia sami ci sono divinità e miti della creazione. In realtà, non so
quanto delle fonti scritte sia influenzato e concepito dai colonizzatori che per
primi l’hanno scritta e tramandata. Ho riflettuto a lungo e non so se i
termini dèi e dèe funzionino veramente. Ad esempio, Sáráhkka[1], non è piuttosto
una forza che non una dèa nel senso occidentale del termine? Forza generatrice e
maternità sono presenti anche nelle acque di un lago.
Mi sembra che il suo poema epico abbia altresì un ruolo ‘politico’. Quali
reazioni ha risvegliato il libro dopo la pubblicazione?
Quando Ædnan è uscito in Svezia, credo abbia contribuito ad aprire gli occhi ai
lettori svedesi sulla loro storia e sulla situazione coloniale del paese: che la
Svezia non è mai stata un paese con un solo popolo. Tra i lettori Sami, se
parliamo da un punto di vista storico e politico-sociale, le reazioni sono state
ovviamente di altro tipo: riguardando soprattutto aspetti come rappresentazione,
riconoscimento, ecc. Io sono un po’ indecisa se considerare il
poema politico oppure no. Credo che tutto quel che scrivo abbia in sé un piano
politico. Ma sono assolutamente convinta che le eventuali verità sulla nostra
vita si possano scoprire solo attraverso l’immaginazione, liberandosi da ogni
dovere e impegno, e che qualsiasi riflessione su temi e aspetti politici emerga
molto tardi nella stesura di un’opera, se non addirittura mai.
Quali sono le letture che la hanno formata, i poeti che può appellare a maestri?
Sono molti e diversissimi tra loro. Nils Aslak Valkeapää, Birgitta Trotzig,
Robert Musil, Elizabeth Bishop, Ingeborg Bachmann. Mi piace moltissimo leggere
testi teatrali: Harold Pinter, Lars Norén, Brian Friel. Qualche volta leggere è
quasi come andare dal medico: è qualcosa di molto preciso quello che mi
prescrivo.
Oggi, nell’era dell’algocrazia, delle guerre continue e dell’intelligenza
artificiale, che senso ha la poesia? Che senso ha l’epica?
Mi viene voglia di rispondere che il senso della poesia oggi è lo stesso che è
sempre stato. La poesia sembra essere qualcosa cui si ricorre in situazioni
terribili. Lo vediamo oggi a Gaza: sia i palestinesi a Gaza che uomini e donne
in tutto il resto del mondo scrivono poesia che, in modi diversi, nasce
dall’attuale genocidio. Lo abbiamo visto nei campi di concentramento del Terzo
Reich, dove gli ebrei scrivevano poesie nonostante rischiassero la
vita. È un segno del significato della poesia, ma ilsignificato è difficile da
determinare. Per me, come lettrice e poeta, ha a che fare con il lavoro
linguistico, con la lingua come essere vivente, con l’immaginazione,
l’attenzione e la concentrazione. Ha a che fare con il piacere e la realtà.
Cioè, con un aspetto della realtà.
È come se poesia, letteratura e arte fossero un fiume che scorre accanto alla
vita, dalla stessa sorgente. Sono legate e si rispecchiano a vicenda, ma la
letteratura non può essere solo uno specchio, una rielaborazione o
un’esplorazione. È costruzione di se stessa. La poesia dovrebbe essere un
vortice ben definito, e i vortici portano ossigeno al fiume. Per me, poesia
epica non significa che il testo presenti una certa lunghezza, o si espanda in
un certo arco temporale o che sia narrativo allo stesso modo di un romanzo. Per
me la poesia epica è legata alla memoria e alle storie. Storie che possono
conservare il nostro contatto e la conoscenza delle nostre origini, e
testimoniare la qualità del nostro rapporto con tutto ciò che vive.
(Traduzione di Maria Cristina Lombardi)
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[1] Dèa dello sciamanesimo, protettrice del parto, venerata nelle regioni
abitate dai Sami in Svezia e Novegia.
L'articolo “La lingua sami dormiva, bloccata dalla vergogna”. Dialogo con Linnea
Axelsson proviene da Pangea.
Nella Seconda lettera ai Corinzi, capitolo 12, Paolo dice di essere stato
“rapito fino al terzo cielo”, nel luogo detto “Paradiso” e lì di aver “udito
parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare”. Ne dice parlando in
terza persona – “so che un uomo, in Cristo…” – dicendo di non sapere se questa
razzia di sé, accaduta quattordici anni prima, sia stata compiuta “con il corpo
o senza corpo”. L’insenziente corpo, l’insaziato corpo, è posseduto da Cristo.
Nella Prima lettera ai Corinzi, Paolo – capitoli 12-14 – distingue tra
“profezia”, linguaggio a edificazione della neonata ecclesia, e “glossolalia” –
le “lingue degli angeli” – l’incomprensibile idioletto che congiunge il fedele,
l’ispirato, a Dio, frutto di singolare esperienza, che non si può comunicare.
Paolo scrive agli abitanti di Corinto, la città legata a Poseidone, dove si
svolgevano i giochi Istmici; la città di Sisifo, dove Medea ordisce la sua
vendetta contro Giasone. In cima all’Acrocorinto, ricorda Pausania, spiccava il
tempio di Venere, “nel quale sono la statua della Dea armata, quella del Sole,
quella dell’Amore con l’arco”. Non è un caso che Paolo operi il suo trattato sul
linguaggio nella terra del logos; che parli della “straordinaria grandezza delle
rivelazioni” nella terra dei misteri, dell’enigma, della trance. Scrivendo in
greco – lingua accessoria, d’uso, non connaturata, che è poi la subdola lingua
dei Vangeli, redatti nella lingua che Gesù non parlava – Paolo risignifica ogni
parola. È come se mutasse su zattera il senso di ogni sintagma. Nella terra
del logos egli si fa portavoce del Logos, il Verbo che sconfigge ogni verbo.
*
Nel dodicesimo libro della Genesi alla lettera, Agostino sviscera il brano di
Paolo. Come esistono tre cieli, così esistono tre specie di visioni, quella
“corporale”, quella “spirituale” e quella “intellettiva”. Delle visioni, occorre
discernere quelle che sono ispirate dagli “angeli buoni” da quelle che sono
insinuante opera del demonio. In sostanza – sulla stessa scia di Paolo –
Agostino disciplina la facondia estatica dei fedeli. Il tempo in cui gli dèi
parlavano nei fiumi, nel vento e negli alberi, in cui tutto era opera, è al
tramonto: improvvisamente, non c’è più strepito, ma silenzio, le cose mutevoli
sono ormai mute, alla selva fa specchio la basilica, al mito il rito.
A un certo punto, per assecondare “alcuni dei più stimati commentatori delle
Sacre Scritture in conformità con la fede cattolica”, Agostino scrive che
“l’Apostolo inoltre sarebbe stato rapito per contemplare in una visione di
straordinaria evidenza il regno delle realtà incorporee che le persone
spirituali anche in questa vita amano e desiderano godere al di sopra di ogni
altra cosa”.
In realtà, Paolo non dice di aver visto, ma di aver udito qualcosa. Visione per
verba, preverbale.
*
I pionieri del cristianesimo, gli apostoli, parlavano in lingue, possedevano
parole efficaci, in grado di sanare e di far risorgere i morti. Così dice Gesù
ai Dodici: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi,
scacciate i demoni”; atto che si compie “dicendo che il regno dei cieli è
vicino” (Mt 10, 7-8). Annuncio che guarisce, linguaggio che vince la morte. Non
unguento né formulario offre il Nazareno, ma un “potere” che lavora tramite
corpo e lingua – linguaggio incarnato, lingua amuleto, Verbo che dilaga. Di ciò
non resta che qualche vestigia – l’esorcismo –; quanto al resto, è compilazione
di atti ruderi che segnalano una sequela. Mirabile danza – nei sacerdoti che non
optano per un ‘fai-da-te’ liturgico – la cui forza si misura, semmai, in eoni.
Quasi che all’entusiasmo delle origini sia sostituita la sfinente attesa, il
dispiegarsi di una spettrale speranza. All’efficacia seguì l’ufficio.
*
Alle origini, i cristiani ‘sciamanizzavano’ – guarivano i malati, avevano
visioni, elevavano a nuova vita i morti, parlavano in lingue – e andavano in
estasi. La parola ekstasis – nel senso proprio della trance, dell’uscire fuori
di sé – ricorre due volte nel Nuovo Testamento. La prima (At 10, 9 ss.) riguarda
Pietro: la guida degli apostoli è a Giaffa, è mezzogiorno, è sulla terrazza di
una casa a pregare, quando, “Gli venne fame e voleva prendere cibo. Mentre
glielo preparavano, fu rapito in estasi”. Pietro vede una tovaglia, imbandita di
quadrupedi, rettili, uccelli. Il senso della visione è legato alla storia del
centurione Cornelio, “uomo giusto e timorato di Dio”, un “impuro” – come i cibi
visti in estasi – che si avvia alla conversione. All’estasi di Pietro sono
legati i criteri dell’estasi arcaica: la preghiera solitaria, il digiuno
preparatorio, la visione che rovescia il canone costituito.
Gli Atti degli Apostoli dicono anche del rapimento di Paolo (22, 17). È lui a
farne testimonianza, davanti ai Giudei: al racconto della “voce” udita mentre
andava verso Damasco, della luce che lo acceca, segue quello dell’estasi. “Dopo
il mio ritorno a Gerusalemme, mentre pregavo nel tempio, fui rapito in estasi”.
Durante l’estasi, Paolo vede Cristo che gli rivela “ti manderò lontano, alle
nazioni”. Pur diversa da quella di Pietro – qui si calca un compito – l’estasi è
simile nel codice: convertire i pagani.
*
Che s’intende dire? Che il cristianesimo originario non è statico, non
istituisce norme, ma è insicuro, instabile – è nella giovinezza della danza. La
parola estasi, nel mondo greco, è centrale (si legga: Negli abissi luminosi.
Sciamanesimo, trance ed estasi nella Gracia antica, a cura di Angelo Tonelli,
Feltrinelli, 2021) nell’affronto col numinoso, nell’addestrarsi al suo contatto.
Nei Vangeli, Gesù obbliga a una continua uscita da sé, a un linciaggio del sé,
al brigantaggio dell’io – e lo fa nel Verbo. Dopo la sua morte, l’accesso a Lui
è tramite memoria e estasi.
Così scrive Tonelli, per capirci sulla tempesta estatica greca:
> “La capacità profetica nasce dalla mania, ovvero da una condizione
> di trance che consente di trascendere i limiti dell’ego e della coscienza
> ordinaria, strutturata spaziotemporalmente, aprire un varco ed entrare in
> contatto con l’Assoluto invisibile”.
Emozione sonnambula nell’assistere al mutamento radicale di alcune parole-dolmen
– profezia, estasi, mania, logos – da un tempio (Atene) a un altro
(Gerusalemme). Paolo sa di aprire un nuovo mondo: scrive come dal sepolcro
vuoto; scrive rovesciando le pietre.
Ai primordi del cristianesimo tutti i paramenti – le vesti animalesche, il
tamburo, i cembali, le maschere, il fuoco e le erbe – sono inutili: in quella
fanciullezza, Gesù accadeva così, d’improvviso, senza preparazione, era dietro
la porta, origliava, preparava la tavola.
*
Unico compito della poesia, svestita delle corazze letterarie: dire le “parole
indicibili [ekousen arreta] che non è lecito ad alcuno pronunciare”. Il resto:
didattica del verbo, bieco conforto, confusione.
*
Vado a Mercatello sul Metauro: il luogo di Veronica Giuliani. Nella violenta
sequela del linguaggio non arretra di fronte alle ekousen arreta, non indottrina
le indicibili parole.
Vedo il sentiero che da Mercatello va a Città di Castello, dove Veronica si
infossa tra le cappuccine. Trenta chilometri. Li faceva a piedi. Tra forre,
campi, terre glabre, lunari scollinamenti: era questo il deserto di Veronica. Il
sole è filisteo – è tutto un furore di lucertole.
Nella casa natale di Veronica – nata qui il 27 dicembre del 1660 – elargiscono
lieti depliant. Uno di questi, Spes contra Spem, raduna uno spettro di pensieri
che non ammette decoro. Questo è il primo:
> “Mi sento con una oscurità ed aridità così grande, che non ho neppure un
> pensiero buono. Non mi posso aiutare con atti di fede, perché non mi pare
> d’aver fede in niente; né con atti di speranza, perché non trovo ove fermarmi;
> né con atti di carità perché non so cosa sia. Mi sento la mente così offuscata
> e come una nebbia densa che mi copre qualsiasi bene”.
Diremmo, il coraggio della disperazione – sfigurare il niente. Un niente che è
nient’altro che niente – nessun premio corona la corsa del fedele in tale notte
oscura. La Giuliani non è Giovanni della Croce – è al di là.
Il pio cronachista stempera a inconsistenza il martirio di Veronica e scrive che
“Tante esperienze mistiche destano l’attenzione del Sant’Ufficio che esamina e
controlla severamente il suo operato, provocandole una grande sofferenza; viene
però scagionata da ogni accusa di falsità e mistificazione”. Nello specifico, le
cose, riguardo alla grande sofferenza, sono andate così: “Denunciata al
Sant’Uffizio nel 1697, viene esaminata con insistenza impietosa, ispezionata
corporalmente in modi umilianti, segregata, privata d’ogni carica, interdetta
dal comunicare con l’esterno. Il rigore si attenua, ma riprende presto in forme
più dure, toccando l’apice nel 1714, con le sconsideratezze d’un giovane
confessore che la tratta da strega (in un’età in cui le streghe andavano al
togo), da indemoniata e le impone di leccare sterco, inghiottire insetti” (così
in: Scrittrici mistiche italiane, a cura di G. Pozzi e C. Leonardi,
Marietti,1988). Veronica muore nel luglio del 1727. Da bambina fu falciata dalle
estasi: vedeva Gesù; da ragazza, a Piacenza, al seguito del padre, fu desiderata
da molti, era bellissima. Sconveniente il suo essere: tirava di scherma,
preferiva gli abiti maschili, non dominava l’ira. Dai pretendenti – nobili,
tanti – si schermò con l’immagine del Crocefisso.
*
Della Giuliani, l’agone nel linguaggio, l’agonia. Analfabeta, “imparò a scrivere
scrivendo”, sotto obbligo del confessore, dal 1693: da quella tortura proviene
il diario, abnorme – oltre ventiduemila pagine –, in cui, con rozza violenza,
descrive le sue rivelazioni. È tra i grandi scrittori italiani di ogni tempo –
purissimo cannibalismo si avverte qui, e avvince. Temprato, il suo scrivere,
dalla scomodità e dallo scandalo: Veronica “scriveva solo di notte, in positure
estremamente disagiate… una scrittura, la sua, nata nel coniugio del buio
esteriore con le tenebre dell’anima”.
Per dire l’indicibile, inventa parole. La sua speleologia nel niente è
insuperata:
> “…perché Idio più si fa sentire e intendere, meno si sente e si cape. È
> incomprensibile, non v’è modo di capire niente, è immenso, non c’è capacità a
> comprenderlo, né creatura alcuna pò mai arivare a questo, e se esso dà qualche
> sagio al’anima di questo suoi divini atributi è in modo che non si trova modo
> a racontarlo. Più si cape meno si cape, più s’intende men s’intende; ci fa
> scordare di tutto; resta l’anima tutta asorbita in Dio, non capisce più niente
> di sé né di nulla di questa vita”.
L’enorme inermità della parola – “Dico e ridico e non dico niente” – la rende
rondine a penetrare l’eterno. Mistero dei misteri, il Dio che non va pronunciato
invano è, invece, detto e contraddetto – detto fino a esaurire ogni umano verbo
– detto fino a spaccargli il volto.
Il diario della Giuliani: una straordinaria cancellatura, una sparizione nella
torba linguaggio. Una diario-petroglifo: lapidazione di frasi lapidarie. “Io non
dico altro. Non so cosa abbia detto”; “Non dico altro, perché tanto non dico
niente”. Eppure, continua a dire, a ridire, ossessionando l’alfabeto fino al
bestiario, alle fiere e ai mostri, Veronica, a fecondare il divino niente (“Te
ne stai nel profondo del tuo annientamento”): che fiorisca – lei sguainerà falce
e denti in legione.
*
Mettere a repentaglio il linguaggio, rapinarlo da ogni senso, insediarsi in esso
per insidiarlo.
Più tardi scendo verso il Metauro. Le acque sono straordinariamente limpide –
limpide come di capelli chiari. Non c’è difetto di distanza tra il corpo di
Veronica Giuliani e il corpus dei suoi scritti: si scrive, si intaglia. A quel
punto di concisione, basta che qualcuno ti dica davvero e sparirai – puf!
Comunque, a Mercatello, cornacchie ovunque, in ogni infisso di casa. Sono una
decina, sul ponte. Hanno preso dominio di una piccola cappella. Sopruso di
becchi nei ruderi. Forse gli abitanti, qui, rinascono cornacchie. Forse Veronica
ha previsto l’immacolato tormento di Kafka. Al cielo bufalo hanno tagliato le
corna.
*In copertina e nell’articolo alcuni “Studj di pittura” di Giambattista
Piazzetta (1682-1754)
L'articolo Il tormento e l’estasi. Tra apostoli sciamani e stregonerie del
linguaggio: il poeta dica soltanto “parole indicibili” proviene da Pangea.
Entro in una libreria, siccome è per bambini è come se gli adulti s’inventassero
per sé un cartello all’ingresso che li esclude. Scelgo Il segreto delle cose di
Maria José Ferrada e mettendo giù Il borsellino della sirena e altre poesie di
Ted Hughes prendo a leggere le prime pagine di Dizionario segreto d’infanzia di
Arianna Giorgia Bonazzi. Alla frase “ma adesso, capisco che durante tutta
l’infanzia ho coltivato quel che potremmo chiamare un verbario o meglio
un sonario” capisco che il libro vuole essere letto tutto, che io, presunto
lettore di letteratura-adulta, sto facendo esperienza della nuova frontiera di
quello che in un volume della Carrocci Emy Beseghi e Giorgia Grilli
chiamano letteratura-invisibile. Il Dizionario è una storia d’amore per il
linguaggio. Un cripto-romanzo di grande consapevolezza linguistica. Un’avventura
carrolliana dove ogni parola è uno specchio e l’infanzia è il Bianconiglio di sé
stessa. Per dirlo con Antonio Moresco, è il canto delle parole. Quanto grandi
bisogna essere diventati grandi per poter accogliere dentro di sé il proprio
essere stati piccoli, senza alterare il racconto dell’infanzia per puntellare la
nostra vita adulta? Ho chiesto ad Arianna Giorgia Bonazzi di parlare di questo e
altro, e lei ha risposto. (a.c.)
Da Dizionario segreto d’infanzia: “In principio era il verbo, e il verbo era
presso Dio, e il verbo ero io.”
La bambina protagonista del libro si fa l’idea di essere lei a creare il mondo,
battezzandolo. Il libro, di per sé, vuole segnare il confine tra il linguaggio
come strumento espressivo e il linguaggio come imbrigliatura in automatismi di
pensiero. Nei primi anni di vita siamo noi a inventare il linguaggio, liberi di
associare alle parole travisate, storpiate o sentite male i significanti che
secondo noi più si addicono ai loro suoni. Poi cresciamo, socializziamo, c’è la
scuola, il lavoro, la televisione, i social, ed è il linguaggio del cervello di
massa a parlarci, a irrigidirci nei codici che ci avvicinano alla comunicazione
standard e ci portano lontani da noi stessi.
Sulla soglia di Dizionario segreto d’infanzia troviamo Natalia Ginzburg a
pronunciare la parola poesia.
L’epigrafe tratta da Vita immaginaria è stata aggiunta alla fine. Mi sono
imbattuta nel libro della Ginzburg a Dizionario già scritto:
“Molte sono le parole che sentiamo di dover pensare nel loro vero significato,
scrostandone ogni volta le vernici di falsità che le hanno coperte; e una di
queste è la parola poesia.”
Sono stata in dubbio se riportare o meno l’ultima parte della citazione. Troppo
esplicita. L’accesso alla letteratura, deve avvenire per vie traverse. Nel libro
la parola poesia non ricorre, mentre abbondano parole quasi sgradevoli:
dialettali, ispide, ruvide. Alla poesia si arriva per dei budelli segreti.
Astrakan, sgrisoli, sencillo, ternoriposo tra tomba e tombola, torsolo tra orso
e toro. Come collani le parole di cui fai dizionario? Dal verbo collanare: “la
collana era una macchina da scrivere.”
L’idea del libro nasce dall’incontro con Giovanna Zoboli editrice di
Topipittori. Zoboli, conoscendo Les adieux, il mio esordio pubblicato da
Fandango libri nel 2007, mi propose di entrare a far parte della loro collana
sulla nascita degli immaginari artistici nei primi anni d’infanzia. La mia prima
risposta fu: io non ho un immaginario! Ho sempre fantasticato tramite le parole,
i loro suoni. Così ho accettato senza sapere come avrei fatto. Zoboli mi ha poi
fatto notare che il libro in realtà è zeppo di immagini perché ogni parola fa
sorgere una serie di visioni. Ci aveva visto bene prima di me. Una volta deciso
il formato del dizionario, le parole sono venute da sé, per associazioni
istintive. Volendo, si possono suddividere i lemmi per aree tematiche: ci sono
le parole delle filastrocche, le toponomastiche, le capite-male, le onomatopee.
A scavo avviato il processo è diventato sorgivo, e tutt’oggi continuano a
venirmi in mente altre parole che chiedono un loro spazio nel Dizionario. I
dizionari si sa non stanno mai fermi.
Il libro indica due rischi del linguaggio: deve esserci consapevolezza della
distinzione tra tTempo vero/lingua vera e tempo falso/lingua standard , ma ci si
deve pure guardare dal non “ricadere nelle lusinghe di un individualismo di
maniera.” Esiste un punto d’equilibrio?
È la letteratura il luogo dell’armistizio tra il linguaggio intersoggettivo
necessario a una vita comunitaria e il linguaggio personale necessario a una
vita onesta con sé stessi. Rachel Cusk in un saggio contenuto in Coventry spiega
che il motivo della diffusione dell’insegnamento della scrittura creativa è da
ricercarsi nel bisogno di un linguaggio più onesto: scrivere è il recupero di un
“sé” più vero all’interno di un mondo dove ci si sente alienati.
Tra il favoleggiato e il biografico nel Dizionario traspare la storia di un
idillio con le parole che è stato consentito dall’essere stati risparmiati a una
“una precoce socializzazione”. È un lieto fine o una fine dovuta quello della
protagonista che dice “finalmente a scuola dopo anni di isolamento, la mia
gorgogliante parlantina cominciò a irrigidirsi nelle statue ghiacciate
dei cioè e dei praticamente”? Sembra un finale alla Collodi, dove non si sa se
essere felici o no per Pinocchio, o alla Carroll. Per dirlo dalla prefazione di
Busi a Alice nel paese delle meraviglie: “la disgrazia più irrimediabile della
vita: non essere mai adulti e poi, improvvisamente, non essere più bambini”.
Non idealizzo l’infanzia come tempo mitico dove tutti siamo felici e buoni. C’è
anche tanta crudeltà nell’infanzia e la protagonista del Dizionario la lascia
trasparire attraverso i suoi pensieri più oscuri. È una bambina un po’ folle ma
anche molto matura, con uno sguardo severo sulle ombre della vita familiare.
Allo stesso tempo, la voce adulta che rievoca quella bambina non ha smarrito la
propria identità infantile. La salvezza, se ce n’è una, è essere stati bambini
un po’ spietati; e diventare adulti con uno sguardo pietoso per l’infanzia.
Allargando il campo. I libri sull’infanzia rientrano in quella che Emy Berseghi
e Giorgia Grilli, in un bel saggio Carrocci, definiscono ‘letteratura
invisibile”, la letteratura che dà voce a chi non parla, per stare
all’etimologia di infanzia, lungo la faglia: “bambini come creature da formare e
bambini come creature non ancora deformate”. Ti senti una scrittrice-invisibile?
Katherine Rundell in Perché dovresti leggere libri per ragazzi anche se sei
vecchio e saggio cita un’intervista a Martin Amis. Gli avevano chiesto se avesse
mai pensato di scrivere per bambini e lui aveva risposto: “Forse se avessi un
grave danno celebrale lo farei.” Il saggio di Rundell è la replica perfetta allo
sguardo altezzoso che esiste verso la letteratura per ragazzi. C’è un
pregiudizio simile perfino tra chi i libri per bambini li scrive. Alla domanda:
“Hai scritto qualcosa ultimamente?” capita di rispondere “Ah, niente, solo un
libro per bambini.” Credo comunque che ci sia sempre stata una grande osmosi tra
i miei lavori per bambini e i miei lavori per adulti, al punto che scrivendo mi
capita di domandarmi a quale pubblico mi sto rivolgendo davvero. Stabilirlo in
modo netto è una questione editoriale e commerciale: i librai devono sapere in
quale settore catalogare ogni libro. Se mi sento una scrittrice invisibile?
Diciamo che mi piace ibridare, e che le dinamiche editoriali non sempre
sorridono a chi non rientra in facili classificazioni.
Secondo i saggi contenuti in La letteratura invisibile la domanda delle domande
è: “essere stati bambini che cosa significa”?
Aver vissuto senza pelle nell’incandescenza delle cose sentite fino in fondo e
conservarne intatto il ricordo nelle proprie identità future. Provando magari a
guardare sempre tutto come chi è appena arrivato sul pianeta Terra e cerca di
capire come vanno le cose.
Il Dizionario segreto d’infanzia contiene una bibliografia suggerita. Ginzburg,
Batuman, João Guimarães Rosa, Virginia Woolf, Dino Buzzati, Calvino, Magris,
Meneghello e altri. Perché Dizionario è anche un’esplicita riflessione sullo
scrivere. C’è la Le Guin de I sogni di spiegano da soli, che parla
delle disinsegnanti. La letteratura ci può ancora disinsegnare qualcosa?
La letteratura non fornisce risposte o consapevolezze ma apre a dubbi e
voragini, e la letteratura per l’infanzia deve fare altrettanto, senza
rinunciare alla sua ambiguità, non riducendosi a manualetto d’istruzione per le
prime volte, a promozione di messaggi educativi di base. I bambini sentono
l’impostura dei libri con la missione incorporata. Le storie devono dare la
possibilità a ciascun lettore di fare le sue scelte, morali e no.
Da Les Adieux: “Crescere è fare le cose dei libri dei proverbi, un vocabolario
che li mette in fila.” Proverbi in Dizionario credo di non averne trovati. Tra
il primo libro e questo com’è cambiato, se è cambiato, il tuo essere scrittrice?
È una domanda che mi sono posta mettendo mano dopo circa venti anni a questa
sorta di Les Adieux “remastered”: non mi ero allontanata più di tanto da
quell’inizio o stavo compiendo la chiusura di un cerchio? I temi ritornano ma la
consapevolezza è un’altra. Durante questi vent’anni sono diventata altre
persone, ho attraversato altre identità. Non avrei potuto proseguire con lo
stile sregolato di Les Adieux, così legato alla ventenne universitaria e
sperimentale che ero allora. In Dizionario tornano le mie ossessioni espresse
però dalla me che sono diventata dopo la conquista dell’età adulta. Continuando
a volermi incompleta, plasmabile, reinventabile.
Concludiamo con un ultimo tocco di teologia beffarda. Dal Dizionario: “Adulterio
– Era sicuramente il peccato di essere adulti.” Come ce lo si perdona?
È il passaggio del libro che meglio racchiude tutta la rabbia che il bambino
nutre verso il tradimento degli adulti quando non si sente visto, riconosciuto,
rispettato in quanto bambino, cittadino di un mondo misterioso e delicato. Non
ce lo si perdona.
antonio coda
*In copertina: illustrazione di John Tenniel ad “Alice’s Adventures Under
Ground”, 1886
L'articolo “Nell’incandescenza delle cose sentite fino in fondo”. La letteratura
per l’infanzia apre voragini. Dialogo con Arianna Giorgia Bonazzi proviene da
Pangea.
Mi rivolgo a te con parole come carezze di cardo, facendo delle mie spine un
lambire delicato, senza bardature morali, infine, e armamentari retorici.
Hai veduto, credo, quanta poca virtù alligni nella forza di chi mostra sicumera,
e quanta sapienza virtuosa in quella più dimessa di chi sorregge grandi pesi
senza farne mostra o parola.
Trovo sempre più vasto lo sguardo di chi guarda al mondo con cuore semplice, e
di semplici, buone cose si nutre con la gioia manifesta di un bimbo che riceve
qualcosa in dono. Sia il mondo di coloro i cui sogni non poggiano solo su di un
guanciale. La mia parola, vedi, è ben umile cosa: artigianato e non arte –
sebbene le due cose non fossero così distanti tra loro nell’epoca fiorente delle
botteghe.
Non sono solito far tuonare la parola contro coloro che peccano, e so bene che
se esiste un Dio non si volge all’umana fallacia come se dovesse compilare un
libro mastro delle qualità e dei difetti. Faccio tuonare la parola, piuttosto,
contro coloro che non solo pianificano scientemente il male ma sono per
soprammercato incapaci di concepire il bene. Dio, però, e preferisco perseverare
nell’idea che esista oltre o prima di ogni iconografia, non è un notaio
dell’anima e nemmeno un cecchino dei cuori. Ho visto persone fare il male con
una innocenza bestiale ed essere ugualmente capaci di volere il bene senza
niente in cambio. Credo piuttosto che la malvagità sia insita nel progettare il
male, come suggerivo, nel renderlo numero organizzato, nel farlo divenire una
cosa seriale e un’abitudine. In questo i potenti sono maestri e capaci di ideare
falsi valori, idoli osceni, inclinazioni coatte, dispositivi senz’anima di
azioni simili ad automatismi. In tutto questo vorrei sempre che la poesia che
concepisco potesse essere trasversale, laterale a ogni acquisito, e ficcante
abbastanza da insinuare dubbi e domande, piuttosto che proclamare certezze.
D’altra parte, se il poeta fosse solo fingitore, la poesia sarebbe ben misera
cosa, il fatto è che il poeta finge, sì, ma sempre guarnendo la finzione di un
po’ di verità; o forse è proprio un certo tipo di finzione che è realmente
depositaria del dono di saper suscitare emozioni e pensieri veritieri. Ma non è
ancora questo il nodo. Fingere non significa necessariamente mentire,
esattamente come dissimulare non è sempre nascondere.
Forse il vero poeta finge un ruolo, una postura, uno stratagemma e una
disposizione, solo per aggirare l’ovvio e mettere in luce ciò che è nascosto,
recondito ma vero sebbene esule dall’attenzione dei più. Creare ha in questo
senso la pienezza, l’abbondanza di sé, e la veritativa sostanza, di ciò che
eccede le misure note e trabocca, promana ancora prima dell’intenzione di farne
dono o materia di scambio. Io, personalmente, creo come un invasato perché sento
l’impellenza di non volgermi all’indirizzo di questo o quel tipo di lettore, ma
nella speranza, sempre ferma e genuina, di traslare ciò che ho dentro fino al
punto di non appartenermi più, fino al punto di sorprendermi io stesso che le
sue caratteristiche siano più evidenti se adulterate dalla fantasia, che non
messe brutalmente in pedissequo elenco.
L’artista crea mondi ma non ne è padre, in qualche modo egli è solo un tramite,
prende in prestito qualcosa di comune e lo volge allo straordinario, prende in
prestito storie e paesaggi dell’esistere non comuni e restituisce la familiarità
di ciò che è vita senza apparenti eccezioni. Il suo è uno sguardo trasmigratore.
Egli conosce bene gli artifici e usa mille trucchi, esattamente com’è capace di
denudare la parola, renderla essenziale e parca, ma tutto questo avendo ben
presente che le due cose coincidono e si equivalgono, laddove si testimonia non
tanto di sé quanto di un sé che ridonda di altri ed altro, di un sé libero di
essere ovunque e in ogni tempo, ma mai in ritardo o fuori luogo.
Vorrei che tu sapessi che nella vita io ho molto sbagliato e perseverato
nell’errore e nell’ingiustizia; proprio per questo quando scrivo cerco di
colmare ciò che è in difetto, ricucire ferite, rimettere debiti, raccogliere la
voce di chi soffre in silenzio, soprattutto di sé, e renderla scudiscio e
carezza, ruggito e silenzio, un dono infine, che non ha l’intenzione del dono, e
soprattutto è tale verso me nel momento stesso che è raccolto da un’anima –
forse lontana fino allo stemperare della propria traccia, ma pur sempre sorella
in questo umano cammino.
Penso che questo possa essere l’inizio di un gesto di avvicinamento, ispettivo e
cauto, ma tale, di dialogo tra noi.
Massimo Triolo
*In copertina e nel testo: Johan Christian Dahl (1788-1857), Studi di nuvole
L'articolo Breve lettera a un’anima sorella sulla condizione del poeta e
questioni affini proviene da Pangea.
Aggiornamenti di attualità sul caso Paragon: le analisi smentiscono la difesa
del Copasir; letture sul tema del linguaggio che evoca lo schiavismo
nell'elettronica e informatica; Google usa le sue piattaforme per ostacolare le
alternative aperte.
Il 5 Giugno, il Copasir ha pubblicato la sua relazione sul Caso Paragon: tra le
altre cose, ci dice che Citizen Lab potrebbe averla sparata un po' grossa, e che
Francesco Cancellato potrebbe non esser mai stato intercettato. Peccato che una
settimana dopo esca un nuovo report di Citizen Lab, che indica che altri due
giornalistə europei sono stati attaccati con malware Paragon, e che uno di
questi lavora proprio a Fanpage, la testata diretta proprio da Cancellato.
Abbiamo già parlato di linguaggio escludente nell'informatica, continuiamo a
farlo ripercorrendo uno studio sull'origine dell'espressione master-slave
(padrone-schiavo). Un'espressione più recente di quanto potrebbe sembrare, e
abbastanza specifica di elettronica e informatica. Attraverso vari esempi,
vediamo che anche se è difficile dare una ricostruzione certa della sua genesi,
questa espressione non deriva dall'essere una metafora espressiva - per quanto
problematica - di un meccanismo tecnico, ma da una specifica concezione della
divisione del lavoro che prevede sempre l'esistenza di un dualismo tra
volontà/intelletto e forza bruta.
Nextcloud denuncia che Google, attraverso il Play Store, ha artificialmente
limitato le possibilità della sua applicazione per Android, rendendo più
difficile (ma non impossibile) l'utilizzo di alternative libere.
Chiudiamo con il ruolo italiano nei bombardamenti statunitensi contro l'Iran.
Ascolta sul sito di Radio Onda Rossa
Potremmo dire: didattica della sobillazione. Svergognare il linguaggio, potremmo
dire. Riverginarlo. Resurrexi.
Senza che ciò diventi prassi, però – lui, il poeta, Prassitele del caos. Gli
altri – i poetastri-poetini-impotenti – i parassiti del verbo, i cannibali del
vocabolario.
Al posto del vocabolario: esigere l’arca. E rompere tutte le alleanze.
Esigere, cioè, il diluvio. Le tante bestie. Le acque sigillate. Nessuna colomba
a imbottirci di false speranze.
Di Matthieu Messagier, per così dire, resta l’ombra, la figura corrotta e
miracolata – il poeta, a dirla tutta, ha delirato e disertato: è già – e sempre
– altrove.
Una fotografia, forse, lo centra: il ragazzo – viso da inquieto putto: capelli a
tiara, inesorabili baffi, paffuto – siede su un triciclo, una mano regge il
volto, in crollo; davanti, un cane. Il tutto, reso all’oscuro, tra vampe
bianche, diacce. “Le Figaro” scrisse di una lumière obscure; era il 2020,
Messagier sarebbe morto l’anno dopo, a ridosso dell’estate, doveva compiere 72
anni. Flammarion aveva pubblicato come Dernières poésies immédiates una raccolta
di “Sérénades”. È un libro tra le strettoie del rischio, quello, scritto nel
luglio del 2006, in ospedale: il poeta, “ricoverato per una grave ipercalcemia…
dopo ventiquattro ore chiede un quaderno e una matita, a redigere, dice, un
‘Ticino di parole’”. Un insetto campeggia in copertina; la quarta è felicemente
destabilizzante:
> “Il foyer della Poesia gode dei tentativi
> delle parole di trovare per lei
> una ragion d’essere
> (la poesia autorizza il conoscere
> non certo l’inverso)
>
> Riverso il capo tra le mani
> non rendo scaltre le poesie di agonie
> passate all’autopsia della notte:
> pratico alfabeti impropri
> estranei alla cappa del pensiero
> necessario a ordire le loro
> cronache contemporanee”
Figlio di artisti – il padre, Jean, praticò, tra l’altro, come discepolo di
Picasso – Messagier è stato messo nelle condizioni di esigere il meglio dal
proprio genio. Girò qualche corto con Michel Bulteau, girò per Parigi giocando
al flâneur flamboyant, scrisse disegnando. Praticò la parola fin da bimbo, con
lo scopo, più che di auscultarsi, di sgretolarsi, di farsi lo scalpo, di
scappare. L’esordio nel 1969, per Pauvert, con un ciclo di versi di implacabile
precocità. Scrisse disinteressandosi di un ‘pubblico’, disperso tra i rivoli di
pubblicazioni d’occasione, occipitali al tempo, presto introvabili.
In Le Dernier des immobiles (1989), uno dei tanti fascicoli stampati con Fata
Morgana, il poeta stila in distillato la propria poetica:
> “Si scrive perché nessuna parola è in grado di condurci al senso: lasciala lì,
> allora, prima dei bei sentieri dell’opera, incisi sul filo dell’evidenza. È
> l’elegante unicità piromane a renderti pari alla natura originaria”.
Sviluppando la teoria delle ‘corrispondenze’ abbozzata da Baudelaire, Messagier
scrive di voler “pervenire alla somiglianza/ per averne perso il senso”.
Schifò il Sessantotto; nel 1971 scrisse – insieme a un gruppo di accoliti – un
improbabile Manifeste Électrique aux paupières de jupes, edito da Le Soleil
Noir. Quando capì che il gruppo percorreva la via di William S. Burroughs e dei
surrealismi, mollò tutti, facendo capo a se stesso. Anche Messagier – secondo il
crisma rimbaudiano – aveva bisogno di significare la propria poesia
disintegrandola. Dal ’72, per sette anni, non scrive; viaggia per l’Europa come
un vagabondo, un senzatetto di sé, un pellegrino in sempiterna erranza.
Dell’esperienza parigina serba l’amicizia con Dominique de Roux. Il grande
editore anticonformista de “l’Herne”, gli aveva commissionato un improbabile
“libro a venire”; gli aveva chiesto di dirigere insieme a lui la rivista “Exil”.
Il primo numero, uscito nell’autunno del 1973, reca testi di Ezra Pound, Raymond
Abellio, Henry James e J.-J. Langendorf. Messagier è già altrove, permette che
sia pubblicato il suo Bestiaire.
Tornato in Francia, piagato da una malattia neuromuscolare, Messagier si
installa nel Doubs, nascosto ai più. Lì scrive l’immane poema in
prosa Orant (1990), per lo più un oratorio di quaderni, spunti, appunti, una
pestilenza linguistica di ottocento pagine, “un affronto alla ragione, un gesto
borderline, fitto di pura confusione emotiva ed epifanica vastità che non è
improprio paragonare al Finnegans Wake di Joyce” (Renaud Ego).
Nei suoi scritti – che chiedono a chi li attraversa una sorta di ermeneutica
all’arma bianca, il disarmo del sé – qualcuno riconosce la “teomania” di Henry
Michaux. Renaud Ego ha rintracciato un lignaggio che lega Messagier a Gerard
Manley Hopkins (“per l’audacia sintattica”), Giacomo Leopardi (“poesia come
trasposizione della natura in piena esuberanza”) e Velimir Chlebnikov (“gusto
per i neologismi e ricerca di una ‘cosmoglossa’, un linguaggio comune per dire
l’universo”). Secondo il poeta
> “Il significato originario delle parole è in totale contraddizione con l’uso
> che ne ha fatto il nostro tempo: attonito rapimento, dolore, erba tra le
> mani”.
Di questa sregolatezza – improponibile a latitudini italiche, dove il dire
incontrollato (chessò: Calogero, Fermini, Ceni) è messo ai margini, incompreso
per incompiutezza di chi lo soppesa – resta l’impeto, il talamo, il sepolcro
vuoto. Titanomachia. Semmai: venefico antidoto contro gli artifici dei bot,
contro gli artificiosi versi dei poeti al botulino.
Spesso è opera che resta nei quaderni, quella di Messagier, che non si può
restituire in trascrizione. Pena la perdita del corpo del reato, del corpo
mistico del verso.
Dunque, sì: documento-nocumento.
***
Crepita il crepuscolo e crolla la camera
sempre in quello stesso crollo
nell’atto della creatura randagia
finché Locarno non si serra
in una crisalide epica e crepa l’idea
Volto fisso
e freme la circolazione
nel particolare, oh, sì, l’unico
preso dal panorama, il convulso, il rovinoso
soprassalto della carne
la maestà che diviene sudore
e il più vile dei tratti:
il tutto rampogna la propria apoteosi
e
vivacità dell’ossessa pazienza
annaspa nel flusso perché lo stupore è un nodulo
*
Lugano, la forma lappa
la sostanza del faticare
l’oscurità appena lambita
dalla speranza angolare
in aria si dispiega il rifugio
dello stesso volume o quasi
perché di rado l’arborescente visione
compie dell’asse degli anni
la nota astratta, la sorpresa
al calendario delle sentinelle
solo l’esasperazione
di un paradiso in sussiego
e il broncio corrugato come una goccia
preso da una divinità larva
che lavora al vertice
di un’immaginazione esperita
con tanto di balsamo addosso
con tanta redenzione priva di pareti.
*
Amadriadi arroganti al sole di maggio
C’era una lunga seta poetica
che nuotava con serica dolcezza.
“Intanto
della resina degli occhi
della sentinella che sfianca il giorno
la miscela è chiara
e il bruto atomo la sua fragranza
vinto al concerto
dalla prima”.
Amadriadi arroganti al sole di maggio
e perfino la grammatica dell’assenzio
le nuvole dei primati aggiunte
a quelle trasparenze su sopiti prati…
…su stupiti prati si slanciano
classifiche di ore al miele
e noi passiamo tra i punti e le virgole
per perderci (quando il medico mi ha auscultato
il cuore, ho detto: “non si facciano prigionieri!”)
*
L’autunno non sa redimersi dall’estate
quando esplodono le lacrime
perché è troppo – è difficile
il vano appello all’oggetto e al fine
Ed è rosa, è opaco
porge la sua tristezza
di rari alcolici
Da qui puoi vedere tutto
lo stato del risveglio
appena importato
Un torrente di carta & matita
i sorrisi della mano sinistra
frantumi di regni sconfitti
al culmine di una illogica velocità
Ma la vita è altro, è altrove
Matthieu Messagier
L'articolo “Pratico alfabeti impropri”. Matthieu Messagier o della poesia come
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