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“Già nell’Ignoto”. Dialoghi intorno a Hölderlin
Il testo che apre il ‘Meridiano’ che accoglie Tutte le liriche di Hölderlin, è il punto più alto, riassuntivo, della ‘funzione Hölderlin’ nella poesia italiana. In quel testo – Con Hölderlin, una leggenda –, Andrea Zanzotto dice di una “insistenza”, di un “lasciarmi andare… all’apertura di libro quasi magica”. Quando arriva, Hölderlin – il gran mago, colui che conosce i nomi per dissipazione e sublimazione – spiazza, fa piazza pulita, costringe a partecipare del suo precipitare.  “L’incontro con Hölderlin è stato tanto intenso quanto quello con Rimbaud”, scrive Zanzotto. È vero: entrambi i poeti sembrano dei banditi dal linguaggio, degli irredenti al verbo, ma il loro impeto – troppi anni li separano, quasi millenni – è opposto. Rimbaud non tenta l’armonia, solletica il caos; non cerca gli dèi celesti ma quelli inferi; non alla Grecia mira ma all’ebbrezza esotica; la sua è una fuga verso l’altro mondo, l’Africa, verso una vita che metta a tacere la vita; Hölderlin sprofonda in sé, come chi ritorna dopo aver toccato le vette: che altro dire dell’empito di quel cielo se non il frastiono? Rimbaud strega il linguaggio fino all’Adamo; Hölderlin lo dissoda perché accada, ancora, un qualche rivelazione del ‘secondo Adamo’. Le Illuminazioni vanno lette insieme alle cosiddette “Poesie della torre”.  “Sentiamo che in Hölderlin ci sono delle zone oracolari, piziache, quasi”, scrive Zanzotto. A dire: Hölderlin non sfregia il linguaggio per inorgoglire l’opera di gorgiere, tutto il contrario – sfrega fino all’ultimo brillio, al verbo che precede ogni verbo. Cioè – e Zanzotto lo sapeva bene –: troppi poeti più o meno ‘oracolari’ abbiamo letto in questi decenni, ma dov’è l’oracolo il poeta, semplicemente, non è, scompare. Dunque: Hölderlin non è un’opera, ma una pratica – l’esito, sconvolgente (come dopo l’attraversamento di ogni grande poeta), potrebbe realizzarsi nel balbettio, nel brivido, nel silenzio.  Tornando a noi. Nel secolo della poesia che si esprime per negazioni, che dice ciò che non è (Montale), il poeta dell’essere, della solarità che acceca, “come una gigantesca figura di poeta-profeta, che attinge alla civiltà greca i grandi ideali che egli propone – in metri accesi e pindarici – ad una umanità migliore, che deve ancora venire e di cui egli canta presago” (Vincenzo Errante nel poderoso “Tesoro della lirica universale”, Orfeo, da lui allestito per Sansoni nel 1949).  Si diceva, appunto, di una ‘funzione Hölderlin’ nella poesia italiana. Hölderlin è stato tradotto, tra i tantissimi, da Giosuè Carducci (“Perché tutto co’ morti il mio cuor è”) e da Gianfranco Contini (“Un segno noi siamo, indecifrato,/ non avvertiamo il dolore,/ lontano dalla patria la lingua abbiam quasi scordata”), da Cristina Campo e da Leone Traverso; Zanzotto cita le versioni di Giorgio Vigolo e quelle, in dialetto, di Giacomo Noventa. Ungaretti dichiara Hölderlin – insieme a Blake, Leopardi e Lautréamont – il poeta-totem della propria ricerca lirica. Luigi Reitani, nel ‘Meridiano’ del 2001, pare aver chiuso il discorso sulla filologia hölderliniana: tra l’altro, ormai, di Hölderlin abbiamo setacciato i cunicoli della vita, degli amori e degli ardori; le lettere ci permettono di spiarne i tormenti. Eppure, Hölderlin è un sovrappiù del linguaggio, ha tana nel bianco-banchisa dei suoi frammenti incompiuti: si rinnova – e ci sfida – ad ogni lettura. Così, per alcuni – come all’autrice del libro di cui parliamo – è sempre oro la versione delle Liriche di Hölderlin realizzata da Enzo Mandruzzato – gran traduttore di Pindaro, per altro, poeta-pilastro di Hölderlin – stampata da Adelphi nel 1977:  > “Ma a noi non è dato > riposare in un luogo, > dileguano precipitano > i mortali dolenti, da una > all’altra delle ore, ciecamente, > come acqua di scoglio > in scoglio negli anni > già nell’Ignoto” > > da Canto di Iperione e del destino In sostanza: in Hölderlin la poesia si compie superandosi – che il suo tempo lo abbia rinnegato e il nostro lo fraintenda è naturale, dacché l’opera è il fermento di un altrove. Così, Ladro di stelle – bellissimo titolo che indaga “Hölderlin e il poeta come titano”, stampa Solfanelli, con una partecipe “presentazione” di Giovanni Sessa – non è un’analisi della ‘poetica’ di Hölderlin, ma uno studio sui suoi effetti, sulla sua efficacia. “Intendiamo guardare all’esperienza estetica hölderliniana come a un’esperienza religiosa”, scrive, quasi subito, arrischiando, l’autrice. Chi la conosce, sa che Livia Di Vona – l’autrice – è gentile quanto coriacea; dietro l’apparenza docile nasconde l’accetta e la sfacciataggine. Ha lavorato anni a questo libro – che come ogni vero libro è infinito –, in esatta solitudine, libera dalle asfissianti categorie dell’accademia. Il suo saggio sfiora a tratti il segreto di ogni dire poetico, si inabissa negli indicibili. In alcune pagine, l’autrice lega, in sintonia di vertigini, il dire di Hölderlin a quello di Marina Cvetaeva (Il poeta a giudizio: capitolo pieno di folgorazioni). “Indugio ogni benedetto giorno nel tormento della lingua. Da profana, da non poeta. Con Hölderlin le cose sono drasticamente peggiorate, cioè migliorate perché come conduce lui nel cuore della questione, nessuno”, mi scrive, un giorno, Livia. A dire di un libro che è come un cuore messo a nudo – anzi, un cuore interrato: nascerà la bianca betulla, libellula del bosco, oppure l’albero sacro alla civetta.   Intanto: perché “Ladro di stelle”? Cos’è questo ladrocinio, cosa sono queste stelle? Sono le lettere dell’alfabeto. Il titolo, indirettamente, mi è stato suggerito da un libro di Giuseppe Sermonti sull’origine della scrittura: L’alfabeto scende dalle stelle in cui si ripercorrono le antichissime teorie che volevano le lettere dell’alfabeto greco corrispondenti alle costellazioni boreali. Sicché, detto molto sinteticamente, “dire” significa ripetere i suoni della Creazione. Il poeta, che ha l’altissima responsabilità di partecipare alla Creazione, nel momento in cui titaneggia ruba, letteralmente, le stelle/lettere, che non crea lui.  Ti faccio la domanda con cui inizi il tuo lavoro: “Perché il linguaggio è il più pericoloso dei beni?” Perché il nostro stare nel mondo dipende anche (se non soprattutto) dal modo in cui abitiamo la parola. È nel linguaggio che per la prima volta sperimentiamo la vertigine del titanismo. La tentazione fortissima di rinnegare la nostra radice creaturale per competere con Dio. Per Hölderlin, la parola svolge soprattutto la funzione di rendere testimonianza alla verità e ciò solo ed esclusivamente alla condizione che la parola stessa sia un dono, qualcosa che l’uomo non crea assolutamente da sé. Ma quando il poeta compete con Dio, quando pretende, cioè, di versare da sé “la fiala della vita” (Inno alla Dea dell’Armonia), rinuncia alla sua radice creaturale e provoca uno svuotamento della realtà. Realtà, per Hölderlin, è sempre stare dentro una compagnia “verticale”; con lo svevo penetriamo nel linguaggio come luogo di una compagnia meravigliosa che consente al dire del poeta di fiorire in mondo, oppure come luogo di una solitudine dolorosissima.  …ma poi, mi viene da dire, qual è questo logos che ci coinvolge e ci tortura: quello di Eraclito o quello di Platone, quello di Gorgia o quello del prologo del Vangelo di Giovanni? Tra ‘verbo’ e Verbo, tra ‘per verba’ e diverbio, dove di pone Hölderlin? Entriamo nel vivo dell’unità simbolica per Hölderlin, cioè l’armonia tra aorgico (Dèi/natura) e organico (intelletto). Se lo seguiamo nella sua peregrinazione dall’origine della Tradizione della poesia occidentale nella Grecia del mito fino alla Germania tra il Settecento e l’Ottocento, tocchiamo lo zenith e il nadir del linguaggio poetico: dal sorgere dell’armonia degli opposti in senso eracliteo, fino alla sua disgregazione, passando dal momento fatale del titanismo, in cui il linguaggio da luogo da abitare, si trasforma in strumento di dominio sul mondo da parte del poeta. Quindi Hölderlin attraversa tutte le sfaccettature che hai nominato fino a quando non si arresta dentro un’attesa. Il suo qui ed ora (ovvero il periodo della torre), è senza il vivente. Scrive infatti in una versione tarda di Patmos: “Ma è terribile come Dio dissipi all’infinito, qua e là, ciò che è vivente”. E poco più avanti: “Nulla di immortale si vedeva nella natura”. Hölderlin si trova in un vuoto di realtà (nel senso spiegato prima), perché il vivente non c’è. Allora la parola, diversamente dai tempi gloriosi del mito, non può celebrare “ciò che è”, ma necessariamente e apofaticamente aggiungo, deve nominare ciò che non è. In questo modo prepara, per i posteri, il ritorno dei celesti. Stare dentro un’attesa, significa nel linguaggio che la nominazione si pone all’inseguimento di realtà, di una pienezza di senso che senza una compagnia altra non si dà mai.   …e dunque: dal prodigioso – titanico – tentativo di sintesi tra ‘grecità’ e cristianità, tra Dioniso e Cristo, tra Empedocle e Apocalisse, cosa viene fuori, cosa ci resta in mano? In Hölderlin, nell’innocenza del suo cuore, resta un’attesa indefinita. Io direi che siamo sempre dentro una scelta di cui dobbiamo assumerci la responsabilità: o vogliamo riconoscere una radice creaturale, oppure continuiamo ad espellere il dio dal destino con una parola autosufficiente, cioè condannarci ad una infinita solitudine. Dichiara la poesia-emblema di H., e dimmi perché. Direi Come quando il giorno di festa (Wie Wenn am Feiertage) in cui la frattura nella Tradizione della poesia occidentale si consuma definitivamente. Questo inno comincia descrivendo l’armonia tra aorgico e organico, come se nel qui ed ora di Hölderlin fosse realtà. Poi però accade qualcosa di inaudito: l’irruzione di un pianto al termine, che ci dice che non è più possibile, come dicevo prima, “celebrare ciò che è”. Il poeta è sempre, per lo svevo, sacerdote della verità. Se il vivente non c’è, non può dire che c’è, altrimenti dice il falso visto che per lui la verità non è mai un prodotto del linguaggio. Questo è uno degli indicatori, per quanto mi riguarda, per cui il poeta tedesco rinuncia alla creazione di un linguaggio. Non si può riempire il vuoto di un’assenza con gli artifici linguistici. Una delle tante tracce di ciò che accade qui, la si trova in due poesiole giovanili, entrambe dal titolo indicativo: Il poeta cieco e Palinodia. Lascio un suggerimento: poiché, per quanto mi riguarda, non c’è affatto cesura tra fase giovanile e cosiddetta fase “della pazzia”, potrebbero essere lette insieme proprio a Come quando il giorno di festa, inno della maturità, in uno dei suoi versi più significativi: “Ciò che vidi, il sacro, sia la mia parola”. Si potrebbe scoprire una sorprendente continuità tra prima e dopo la “pazzia”.  Dichiara la poesia che più ami di H. – e perché.  Difficile dirne una sola, ma mi vengono in mente adesso Il viaggiatore, l’elegia Lamento di Menone per Diotima o La veduta. Per quanto mi riguarda, è difficile non fargli compagnia, non stare con lui lungo il sentiero scosceso di una malinconia, mentre il Neckar solitario rinuncia ai suoi abissi misteriosi.  Era davvero folle H.? Meglio: come la sua ‘mania’ irrompe nel ‘logos’? E che senso ha, nell’esistere, la necessità di ‘poetare’? Sempre più spesso gli studiosi, negli ultimi anni, tendono a riconsiderare la pazzia di Hölderlin. Cito come esempio l’importante studio di Giorgio Agamben, La follia di Hölderlin, in cui si ipotizza una simulazione della pazzia per sottrarsi alle conseguenze giudiziarie delle sue antiche simpatie per i valori della Rivoluzione francese, ma personalmente credo che si possa considerare anche la questione del pietismo, sempre – a mio avviso – troppo trascurata quando si parla dello svevo. I pietisti più radicali sceglievano volontariamente di abdicare dalla vita esteriore, ritirandosi preferibilmente in luoghi appartati in campagna, e rinunciando anche alla volontà di esprimere una propria individualità. Per il resto, più che un’irruzione della mania nel logos, in Hölderlin irrompe un necessario balbettio, la constatazione amara di una solitudine nel flutto, nella fiamma e nella parola. Che può dire il poeta “se nulla di immortale si vede”? Insomma: il poeta ha per fine esaudire la poesia incenerendola? Dipende. Il poeta deve sempre scegliere da che parte stare. Il suo dire può partecipare alla Creazione, come in origine, oppure – citando la chiosa di una poesiola di Rilke dedicata a Baudelaire – “E perfino la furia che annienta si fa mondo”, venirsi a trovare, cioè, nel punto esatto in cui la Creazione stessa si disfa, per realizzare quella tiranna tentazione titanica. Dal punto di vista meramente estetico, non c’è momento più alto, poeticamente, del competere con un dio, e in ciò i geni come Baudelaire, come i simbolisti francesi, sono maestri. Ma se platonicamente diciamo che la bellezza è splendore del vero, stando con Hölderlin il poeta deve rinunciare alla signoria dell’ego.  *In copertina: Caspar David Friedrich, Luna che sorge su una spiaggia deserta, 1837/39 L'articolo “Già nell’Ignoto”. Dialoghi intorno a Hölderlin proviene da Pangea.
July 31, 2025 / Pangea
“La lingua sami dormiva, bloccata dalla vergogna”. Dialogo con Linnea Axelsson
Nel 1910, a Copenaghen, esce un libro a suo modo decisivo. S’intitola Vita del lappone, lo ha scritto Johan Turi in uno stile, al contempo, crudo e fiabesco, come appena estratto dal fuoco, una specie di nordica Lascuax. Nelle fotografie, Turi ha lo sguardo ad accetta, occhi che contengono boschi. Nato nel 1854, faceva l’allevatore di renne; il suo libro, scritto in lingua sami con la traduzione in danese, fu pubblicato in diverse lingue: in Italia è al 235 della “Biblioteca Adelphi”. Il libro ha una leggiadria adamitica, la prontezza delle cose prime e nude: si parla di bestie, di estati come coltelli, di segni nel suolo e nel cielo e della “pietra del serpente”; le costellazioni si chiamano “Alce”, “Branco di cani” e “Sciatori”; la Via Lattea è la “Scala degli uccelli”.  La data in cui è pubblico il libro è importante: di lì a poco i Sami, etnia indigena del Nord, verranno ripetutamente vessati dalle entità statali, Norvegia, Finlandia, Svezia, a estirpare terre, a sradicare tradizioni. Non a caso, intorno a quella data, nel 1913, attracca Ædnan, il poema epico di Linnea Axelsson, poetessa svedese di origine Sami. Edito nel 2018, Ædnan – che in Sami significa “terra”, “luogo natio” quando non “madre, matria” – racconta, in versi, la saga di una famiglia Sami, tra enormità di panorami, apparizioni di morti, vessazioni, dai primi del Novecento al nostro millennio. Il ritmo imposto dalla Axelsson contrasta con il tambureggiare dell’epica tradizionale: i versi sono brevi, a volte brevissimi; si procede per singulti e apocalissi in palmo di mano; c’è molto bianco intorno, tanto che le parole paiono impronte di renna sulla neve, rivoli di una danza antica e perduta, di uomini-pernice, di uomini-gufo. Un esempio: “Mi addentrai nella palude  dei lamponi gialli – Avanzai finché potei poi mi spogliai sciolsi i nodi dei pantaloni e li riempii di bacche   – Annodai lo scialle con della stoffa e ne feci uno zaino ricolmo di bacche – Una pozza nera si aprì nel muschio l’acqua era fredda meravigliosa per la nuca – Allora spuntò scura nel cielo l’aquila reale l’occhio giallo e nero – Nell’occhio giallo il mondo ebbe un altro riflesso – Dischiuse gli artigli e si gettò su Aslat lasciai le bacche e corsi gridando con le braccia alzate – Vidi l’immenso rapace volare via – Tutto era come sempre ma c’era un’ombra” Tradotto in inglese, da Knopf, nel 2024, Ædnan ha avuto un impatto importante: il libro, tra l’altro, è stato finalista al National Book Award for Translated Literature. Di questo “ambizioso romanzo in versi”, an Arctic epic from Sweden, ha detto il “Guardian”, toccando il punto centrale del testo: “in ogni pagina, distese di spazio bianco, a memoria di una narrazione fatta di assenze, fratture, silenzi, oblio e mutilazione”. Una porzione di Ædnan è stata tradotta da Maria Cristina Lombardi – già traduttrice, tra l’altro, del fenomenale poema epico-cosmico Aniara del Nobel per la letteratura Harry Martinson – nel libro libro collettivo Voci di donne dal Nord, edito da Crocetti (in cui sono sintetizzati, per poesie-totem, i lavori, oltre che di Linnea Axelsson, di Eva Ström e di Ann Jäderlund).  Lei è Linnea Axelsson Ædnan, soprattutto, è il poema di una lingua defunta che risorge rifulgendo (“La lingua sami dormiva/ da tempo nel corpo/ bloccata// dentro/ dalla vergogna…// Come se mai/ noi e i nostri avi/ fossimo esistiti// mai avessimo/ costruito nulla”). Di una lingua dissotterrata, di minime, esigenti tracce nella neve che tornano artigli, il ruggito del profondo Nord. Certo, il poema s’infittisce nella nostalgia: le parole descrivono ma non operano; la danza, non più sciamanica, è sciamannata, dei fasti restano le vestigia, le braci – pigolano gli astri. Su tutto, tuttavia, agisce lo straordinario.  Con l’aiuto della Lombardi, abbiamo contattato Linnea Axelsson, a dare ligneo lignaggio a questa lingua.  Come è nata l’idea di scrivere un poema epico sui Sami? Come ha scelto di strutturare il libro?  Più che un’idea iniziale, sono stati il lavoro e il materiale ad ispirarmi la scrittura di un poema epico sui Sami: la poesia epica è stata una scoperta che poi ho messo in pratica. Credo che un’opera si sviluppi da un’immagine interiore che funge da orientamento verso un certo linguaggio, una data struttura, un mondo che il lettore è chiamato ad immaginarsi. Nel caso di Ædnan, l’immagine, almeno come come la ricordo, era un volto di donna, o meglio, il silenzio nel suo volto. Fu lei che durante la stesura del testo haportato con sé lo spazio (Sápmi, la terra dei Sami), gli eventi e gli altri personaggi. Pian piano l’ampiezza e la natura del materiale – ad esempio, le relazioni interpersonali e lo svolgimento della narrazione nel tempo – iniziarono a suggerirmi che forse il racconto sarebbe stato più adatto alla prosa che alla poesia. Prosa e poesia sono costituite dagli stessi elementi, ma si utilizzano in modi diversi e con enfasi diversa. Non mi pareva giusto scrivere un romanzo, sarebbe stato come assolvere a un compito inesatto. Così, a un certo punto, mi è venuta in mente la tradizione epica, e allora mi sono presa una pausa necessaria. Non nel senso che ho cominciato a leggere i poemi epici antichi; piuttosto, ho iniziato a impostare alcuni principi formali di riferimento. Ho riflettuto a lungo intorno alla tradizione degli joikar sami che sono contemporaneamente canto, tradizione poetica più o meno narrativa, e strumento per ricordare e conservare le memorie. Come è riuscita a trovare il ‘ritmo’ adatto al poema? Intendo dire: nel poema si coagula una lingua arcana, arcaica, ma anche un tono proprio della poesia contemporanea. Mi spieghi il suo processo linguistico.  Trovare il ritmo è stato decisivo ed è parte della forma stessa del poema: versi brevi, scarsità di parole, silenzio. Questo mi ha ispirato un sensazione di ampiezza e di movimento, nello spazio e nel tempo, che tenesse insieme e caratterizzasse la narrazione. Ci è voluto molto a trovare il giusto ritmo: in qualche modo, è scaturito durante la scrittura. Altre volte mi è accaduto di sentire un ritmo senza nessuna parola, che solo dopo è divenuto poesia, ma non è il caso di quest’opera.    Il ritmo è anche legato alla respirazione e allo svolgimento, nel senso che nasce quando una poesia si muove tra qualcosa di quotidiano, che senti sulla pelle, e qualcosa di cosmico, di esistenziale. Produce suono e realismo. Lo stesso svolgimento si rispecchia nella parola: un termine della sfera quotidiana o comunque della contemporaneità si incontra con una parola più solenne, più carica di connotazioni o più antica, riuscendo nella poesia a essere avvertito come semplice e naturale al pari della parola quotidiana. Per molto tempo – oggi non è più così – sono stata attratta dall’arcaismo facile, sia perché amo le profondità e le diverse fasi della lingua, sia perché quello che devo costruire non è documentato, ma vive nella narrazione orale, nelle fiabe, nel mito. In Ædnan ho cercato anche di cogliere un certo suono che credo fosse tra i Sami nell’ambiente in cui sono cresciuta quando si parlava di cose come lo stato e gli svedesi, o come quando si raccontavano aneddoti. Quali sono le fonti di cui si è nutrita? In Italia è abbastanza noto il resoconto di Johan Turi, ma per il resto il popolo dei Sami appare tra le brume della leggenda. Quali sono i miti miliari, decisivi dei Sami? Uso tutto quello che posso: ricordi, cose che ho sentito e ho visto, che ho letto. Più importante di tutto è l’immaginazione, lo spazio per la capacità di rappresentazione che dobbiamo conservare in noi stessi. Non faccio ricerca nel senso giornalistico ma, al contrario, evito di leggere proprio di ciò su cui scrivo. Detto questo, sono sempre stata interessata e ho letto tanto sulla storia e sulla mitologia dei Sami, ma la grande fonte, quando si tratta di questa storia, è fatta di esperienza, cultura e narrazione orale, dunque, dalle conoscenze che si tramandano in famiglia, tra parenti e amici. Molte culture, come quella sami, si scontrano con due fattori essenziali: la propria storia scritta, quando non sia stata resa del tutto invisibile e assimilata, è stata comunque a lungo formulata da qualcun altro, e che ciò che si conserva ci si aspetta sia autentico. Nella mitologia sami ci sono divinità e miti della creazione. In realtà, non so quanto delle fonti scritte sia influenzato e concepito dai colonizzatori che per primi l’hanno scritta e tramandata. Ho riflettuto a lungo e non so se i termini dèi e dèe funzionino veramente. Ad esempio, Sáráhkka[1], non è piuttosto una forza che non una dèa nel senso occidentale del termine? Forza generatrice e maternità sono presenti anche nelle acque di un lago.  Mi sembra che il suo poema epico abbia altresì un ruolo ‘politico’. Quali reazioni ha risvegliato il libro dopo la pubblicazione? Quando Ædnan è uscito in Svezia, credo abbia contribuito ad aprire gli occhi ai lettori svedesi sulla loro storia e sulla situazione coloniale del paese: che la Svezia non è mai stata un paese con un solo popolo. Tra i lettori Sami, se parliamo da un punto di vista storico e politico-sociale, le reazioni sono state ovviamente di altro tipo: riguardando soprattutto aspetti come rappresentazione, riconoscimento, ecc. Io sono un po’ indecisa se considerare il poema politico oppure no. Credo che tutto quel che scrivo abbia in sé un piano politico. Ma sono assolutamente convinta che le eventuali verità sulla nostra vita si possano scoprire solo attraverso l’immaginazione, liberandosi da ogni dovere e impegno, e che qualsiasi riflessione su temi e aspetti politici emerga molto tardi nella stesura di un’opera, se non addirittura mai. Quali sono le letture che la hanno formata, i poeti che può appellare a maestri? Sono molti e diversissimi tra loro. Nils Aslak Valkeapää, Birgitta Trotzig, Robert Musil, Elizabeth Bishop, Ingeborg Bachmann. Mi piace moltissimo leggere testi teatrali: Harold Pinter, Lars Norén, Brian Friel. Qualche volta leggere è quasi come andare dal medico: è qualcosa di molto preciso quello che mi prescrivo.  Oggi, nell’era dell’algocrazia, delle guerre continue e dell’intelligenza artificiale, che senso ha la poesia? Che senso ha l’epica? Mi viene voglia di rispondere che il senso della poesia oggi è lo stesso che è sempre stato. La poesia sembra essere qualcosa cui si ricorre in situazioni terribili. Lo vediamo oggi a Gaza: sia i palestinesi a Gaza che uomini e donne in tutto il resto del mondo scrivono poesia che, in modi diversi, nasce dall’attuale genocidio. Lo abbiamo visto nei campi di concentramento del Terzo Reich, dove gli ebrei scrivevano poesie nonostante rischiassero la vita. È un segno del significato della poesia, ma ilsignificato è difficile da determinare. Per me, come lettrice e poeta, ha a che fare con il lavoro linguistico, con la lingua come essere vivente, con l’immaginazione, l’attenzione e la concentrazione. Ha a che fare con il piacere e la realtà. Cioè, con un aspetto della realtà. È come se poesia, letteratura e arte fossero un fiume che scorre accanto alla vita, dalla stessa sorgente. Sono legate e si rispecchiano a vicenda, ma la letteratura non può essere solo uno specchio, una rielaborazione o un’esplorazione. È costruzione di se stessa. La poesia dovrebbe essere un vortice ben definito, e i vortici portano ossigeno al fiume. Per me, poesia epica non significa che il testo presenti una certa lunghezza, o si espanda in un certo arco temporale o che sia narrativo allo stesso modo di un romanzo. Per me la poesia epica è legata alla memoria e alle storie. Storie che possono conservare il nostro contatto e la conoscenza delle nostre origini, e testimoniare la qualità del nostro rapporto con tutto ciò che vive. (Traduzione di Maria Cristina Lombardi) -------------------------------------------------------------------------------- [1] Dèa dello sciamanesimo, protettrice del parto, venerata nelle regioni abitate dai Sami in Svezia e Novegia. L'articolo “La lingua sami dormiva, bloccata dalla vergogna”. Dialogo con Linnea Axelsson proviene da Pangea.
July 23, 2025 / Pangea
Il tormento e l’estasi. Tra apostoli sciamani e stregonerie del linguaggio: il poeta dica soltanto “parole indicibili”
Nella Seconda lettera ai Corinzi, capitolo 12, Paolo dice di essere stato “rapito fino al terzo cielo”, nel luogo detto “Paradiso” e lì di aver “udito parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare”. Ne dice parlando in terza persona – “so che un uomo, in Cristo…” – dicendo di non sapere se questa razzia di sé, accaduta quattordici anni prima, sia stata compiuta “con il corpo o senza corpo”. L’insenziente corpo, l’insaziato corpo, è posseduto da Cristo.  Nella Prima lettera ai Corinzi, Paolo – capitoli 12-14 – distingue tra “profezia”, linguaggio a edificazione della neonata ecclesia, e “glossolalia” – le “lingue degli angeli” – l’incomprensibile idioletto che congiunge il fedele, l’ispirato, a Dio, frutto di singolare esperienza, che non si può comunicare.  Paolo scrive agli abitanti di Corinto, la città legata a Poseidone, dove si svolgevano i giochi Istmici; la città di Sisifo, dove Medea ordisce la sua vendetta contro Giasone. In cima all’Acrocorinto, ricorda Pausania, spiccava il tempio di Venere, “nel quale sono la statua della Dea armata, quella del Sole, quella dell’Amore con l’arco”. Non è un caso che Paolo operi il suo trattato sul linguaggio nella terra del logos; che parli della “straordinaria grandezza delle rivelazioni” nella terra dei misteri, dell’enigma, della trance. Scrivendo in greco – lingua accessoria, d’uso, non connaturata, che è poi la subdola lingua dei Vangeli, redatti nella lingua che Gesù non parlava – Paolo risignifica ogni parola. È come se mutasse su zattera il senso di ogni sintagma. Nella terra del logos egli si fa portavoce del Logos, il Verbo che sconfigge ogni verbo. * Nel dodicesimo libro della Genesi alla lettera, Agostino sviscera il brano di Paolo. Come esistono tre cieli, così esistono tre specie di visioni, quella “corporale”, quella “spirituale” e quella “intellettiva”. Delle visioni, occorre discernere quelle che sono ispirate dagli “angeli buoni” da quelle che sono insinuante opera del demonio. In sostanza – sulla stessa scia di Paolo – Agostino disciplina la facondia estatica dei fedeli. Il tempo in cui gli dèi parlavano nei fiumi, nel vento e negli alberi, in cui tutto era opera, è al tramonto: improvvisamente, non c’è più strepito, ma silenzio, le cose mutevoli sono ormai mute, alla selva fa specchio la basilica, al mito il rito.  A un certo punto, per assecondare “alcuni dei più stimati commentatori delle Sacre Scritture in conformità con la fede cattolica”, Agostino scrive che “l’Apostolo inoltre sarebbe stato rapito per contemplare in una visione di straordinaria evidenza il regno delle realtà incorporee che le persone spirituali anche in questa vita amano e desiderano godere al di sopra di ogni altra cosa”.  In realtà, Paolo non dice di aver visto, ma di aver udito qualcosa. Visione per verba, preverbale. * I pionieri del cristianesimo, gli apostoli, parlavano in lingue, possedevano parole efficaci, in grado di sanare e di far risorgere i morti. Così dice Gesù ai Dodici: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni”; atto che si compie “dicendo che il regno dei cieli è vicino” (Mt 10, 7-8). Annuncio che guarisce, linguaggio che vince la morte. Non unguento né formulario offre il Nazareno, ma un “potere” che lavora tramite corpo e lingua – linguaggio incarnato, lingua amuleto, Verbo che dilaga. Di ciò non resta che qualche vestigia – l’esorcismo –; quanto al resto, è compilazione di atti ruderi che segnalano una sequela. Mirabile danza – nei sacerdoti che non optano per un ‘fai-da-te’ liturgico – la cui forza si misura, semmai, in eoni. Quasi che all’entusiasmo delle origini sia sostituita la sfinente attesa, il dispiegarsi di una spettrale speranza. All’efficacia seguì l’ufficio.  * Alle origini, i cristiani ‘sciamanizzavano’ – guarivano i malati, avevano visioni, elevavano a nuova vita i morti, parlavano in lingue – e andavano in estasi. La parola ekstasis – nel senso proprio della trance, dell’uscire fuori di sé – ricorre due volte nel Nuovo Testamento. La prima (At 10, 9 ss.) riguarda Pietro: la guida degli apostoli è a Giaffa, è mezzogiorno, è sulla terrazza di una casa a pregare, quando, “Gli venne fame e voleva prendere cibo. Mentre glielo preparavano, fu rapito in estasi”. Pietro vede una tovaglia, imbandita di quadrupedi, rettili, uccelli. Il senso della visione è legato alla storia del centurione Cornelio, “uomo giusto e timorato di Dio”, un “impuro” – come i cibi visti in estasi – che si avvia alla conversione. All’estasi di Pietro sono legati i criteri dell’estasi arcaica: la preghiera solitaria, il digiuno preparatorio, la visione che rovescia il canone costituito.  Gli Atti degli Apostoli dicono anche del rapimento di Paolo (22, 17). È lui a farne testimonianza, davanti ai Giudei: al racconto della “voce” udita mentre andava verso Damasco, della luce che lo acceca, segue quello dell’estasi. “Dopo il mio ritorno a Gerusalemme, mentre pregavo nel tempio, fui rapito in estasi”. Durante l’estasi, Paolo vede Cristo che gli rivela “ti manderò lontano, alle nazioni”. Pur diversa da quella di Pietro – qui si calca un compito – l’estasi è simile nel codice: convertire i pagani.  * Che s’intende dire? Che il cristianesimo originario non è statico, non istituisce norme, ma è insicuro, instabile – è nella giovinezza della danza. La parola estasi, nel mondo greco, è centrale (si legga: Negli abissi luminosi. Sciamanesimo, trance ed estasi nella Gracia antica, a cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, 2021) nell’affronto col numinoso, nell’addestrarsi al suo contatto. Nei Vangeli, Gesù obbliga a una continua uscita da sé, a un linciaggio del sé, al brigantaggio dell’io – e lo fa nel Verbo. Dopo la sua morte, l’accesso a Lui è tramite memoria e estasi.  Così scrive Tonelli, per capirci sulla tempesta estatica greca: > “La capacità profetica nasce dalla mania, ovvero da una condizione > di trance che consente di trascendere i limiti dell’ego e della coscienza > ordinaria, strutturata spaziotemporalmente, aprire un varco ed entrare in > contatto con l’Assoluto invisibile”.  Emozione sonnambula nell’assistere al mutamento radicale di alcune parole-dolmen – profezia, estasi, mania, logos – da un tempio (Atene) a un altro (Gerusalemme). Paolo sa di aprire un nuovo mondo: scrive come dal sepolcro vuoto; scrive rovesciando le pietre.  Ai primordi del cristianesimo tutti i paramenti – le vesti animalesche, il tamburo, i cembali, le maschere, il fuoco e le erbe – sono inutili: in quella fanciullezza, Gesù accadeva così, d’improvviso, senza preparazione, era dietro la porta, origliava, preparava la tavola.  * Unico compito della poesia, svestita delle corazze letterarie: dire le “parole indicibili [ekousen arreta] che non è lecito ad alcuno pronunciare”. Il resto: didattica del verbo, bieco conforto, confusione.  * Vado a Mercatello sul Metauro: il luogo di Veronica Giuliani. Nella violenta sequela del linguaggio non arretra di fronte alle ekousen arreta, non indottrina le indicibili parole.  Vedo il sentiero che da Mercatello va a Città di Castello, dove Veronica si infossa tra le cappuccine. Trenta chilometri. Li faceva a piedi. Tra forre, campi, terre glabre, lunari scollinamenti: era questo il deserto di Veronica. Il sole è filisteo – è tutto un furore di lucertole.  Nella casa natale di Veronica – nata qui il 27 dicembre del 1660 – elargiscono lieti depliant. Uno di questi, Spes contra Spem, raduna uno spettro di pensieri che non ammette decoro. Questo è il primo:  > “Mi sento con una oscurità ed aridità così grande, che non ho neppure un > pensiero buono. Non mi posso aiutare con atti di fede, perché non mi pare > d’aver fede in niente; né con atti di speranza, perché non trovo ove fermarmi; > né con atti di carità perché non so cosa sia. Mi sento la mente così offuscata > e come una nebbia densa che mi copre qualsiasi bene”.  Diremmo, il coraggio della disperazione – sfigurare il niente. Un niente che è nient’altro che niente – nessun premio corona la corsa del fedele in tale notte oscura. La Giuliani non è Giovanni della Croce – è al di là.  Il pio cronachista stempera a inconsistenza il martirio di Veronica e scrive che “Tante esperienze mistiche destano l’attenzione del Sant’Ufficio che esamina e controlla severamente il suo operato, provocandole una grande sofferenza; viene però scagionata da ogni accusa di falsità e mistificazione”. Nello specifico, le cose, riguardo alla grande sofferenza, sono andate così: “Denunciata al Sant’Uffizio nel 1697, viene esaminata con insistenza impietosa, ispezionata corporalmente in modi umilianti, segregata, privata d’ogni carica, interdetta dal comunicare con l’esterno. Il rigore si attenua, ma riprende presto in forme più dure, toccando l’apice nel 1714, con le sconsideratezze d’un giovane confessore che la tratta da strega (in un’età in cui le streghe andavano al togo), da indemoniata e le impone di leccare sterco, inghiottire insetti” (così in: Scrittrici mistiche italiane, a cura di G. Pozzi e C. Leonardi, Marietti,1988). Veronica muore nel luglio del 1727. Da bambina fu falciata dalle estasi: vedeva Gesù; da ragazza, a Piacenza, al seguito del padre, fu desiderata da molti, era bellissima. Sconveniente il suo essere: tirava di scherma, preferiva gli abiti maschili, non dominava l’ira. Dai pretendenti – nobili, tanti – si schermò con l’immagine del Crocefisso.  * Della Giuliani, l’agone nel linguaggio, l’agonia. Analfabeta, “imparò a scrivere scrivendo”, sotto obbligo del confessore, dal 1693: da quella tortura proviene il diario, abnorme – oltre ventiduemila pagine –, in cui, con rozza violenza, descrive le sue rivelazioni. È tra i grandi scrittori italiani di ogni tempo – purissimo cannibalismo si avverte qui, e avvince. Temprato, il suo scrivere, dalla scomodità e dallo scandalo: Veronica “scriveva solo di notte, in positure estremamente disagiate… una scrittura, la sua, nata nel coniugio del buio esteriore con le tenebre dell’anima”.  Per dire l’indicibile, inventa parole. La sua speleologia nel niente è insuperata: > “…perché Idio più si fa sentire e intendere, meno si sente e si cape. È > incomprensibile, non v’è modo di capire niente, è immenso, non c’è capacità a > comprenderlo, né creatura alcuna pò mai arivare a questo, e se esso dà qualche > sagio al’anima di questo suoi divini atributi è in modo che non si trova modo > a racontarlo. Più si cape meno si cape, più s’intende men s’intende; ci fa > scordare di tutto; resta l’anima tutta asorbita in Dio, non capisce più niente > di sé né di nulla di questa vita”.  L’enorme inermità della parola – “Dico e ridico e non dico niente” – la rende rondine a penetrare l’eterno. Mistero dei misteri, il Dio che non va pronunciato invano è, invece, detto e contraddetto – detto fino a esaurire ogni umano verbo – detto fino a spaccargli il volto.  Il diario della Giuliani: una straordinaria cancellatura, una sparizione nella torba linguaggio. Una diario-petroglifo: lapidazione di frasi lapidarie. “Io non dico altro. Non so cosa abbia detto”; “Non dico altro, perché tanto non dico niente”. Eppure, continua a dire, a ridire, ossessionando l’alfabeto fino al bestiario, alle fiere e ai mostri, Veronica, a fecondare il divino niente (“Te ne stai nel profondo del tuo annientamento”): che fiorisca – lei sguainerà falce e denti in legione.  * Mettere a repentaglio il linguaggio, rapinarlo da ogni senso, insediarsi in esso per insidiarlo.  Più tardi scendo verso il Metauro. Le acque sono straordinariamente limpide – limpide come di capelli chiari. Non c’è difetto di distanza tra il corpo di Veronica Giuliani e il corpus dei suoi scritti: si scrive, si intaglia. A quel punto di concisione, basta che qualcuno ti dica davvero e sparirai – puf! Comunque, a Mercatello, cornacchie ovunque, in ogni infisso di casa. Sono una decina, sul ponte. Hanno preso dominio di una piccola cappella. Sopruso di becchi nei ruderi. Forse gli abitanti, qui, rinascono cornacchie. Forse Veronica ha previsto l’immacolato tormento di Kafka. Al cielo bufalo hanno tagliato le corna.  *In copertina e nell’articolo alcuni “Studj di pittura” di Giambattista Piazzetta (1682-1754) L'articolo Il tormento e l’estasi. Tra apostoli sciamani e stregonerie del linguaggio: il poeta dica soltanto “parole indicibili” proviene da Pangea.
July 7, 2025 / Pangea
“Nell’incandescenza delle cose sentite fino in fondo”. La letteratura per l’infanzia apre voragini. Dialogo con Arianna Giorgia Bonazzi
Entro in una libreria, siccome è per bambini è come se gli adulti s’inventassero per sé un cartello all’ingresso che li esclude. Scelgo Il segreto delle cose di Maria José Ferrada e mettendo giù Il borsellino della sirena e altre poesie di Ted Hughes prendo a leggere le prime pagine di Dizionario segreto d’infanzia di Arianna Giorgia Bonazzi. Alla frase “ma adesso, capisco che durante tutta l’infanzia ho coltivato quel che potremmo chiamare un verbario o meglio un sonario” capisco che il libro vuole essere letto tutto, che io, presunto lettore di letteratura-adulta, sto facendo esperienza della nuova frontiera di quello che in un volume della Carrocci Emy Beseghi e Giorgia Grilli chiamano letteratura-invisibile. Il Dizionario è una storia d’amore per il linguaggio. Un cripto-romanzo di grande consapevolezza linguistica. Un’avventura carrolliana dove ogni parola è uno specchio e l’infanzia è il Bianconiglio di sé stessa. Per dirlo con Antonio Moresco, è il canto delle parole. Quanto grandi bisogna essere diventati grandi per poter accogliere dentro di sé il proprio essere stati piccoli, senza alterare il racconto dell’infanzia per puntellare la nostra vita adulta? Ho chiesto ad Arianna Giorgia Bonazzi di parlare di questo e altro, e lei ha risposto. (a.c.) Da Dizionario segreto d’infanzia: “In principio era il verbo, e il verbo era presso Dio, e il verbo ero io.” La bambina protagonista del libro si fa l’idea di essere lei a creare il mondo, battezzandolo. Il libro, di per sé, vuole segnare il confine tra il linguaggio come strumento espressivo e il linguaggio come imbrigliatura in automatismi di pensiero. Nei primi anni di vita siamo noi a inventare il linguaggio, liberi di associare alle parole travisate, storpiate o sentite male i significanti che secondo noi più si addicono ai loro suoni. Poi cresciamo, socializziamo, c’è la scuola, il lavoro, la televisione, i social, ed è il linguaggio del cervello di massa a parlarci, a irrigidirci nei codici che ci avvicinano alla comunicazione standard e ci portano lontani da noi stessi.  Sulla soglia di Dizionario segreto d’infanzia troviamo Natalia Ginzburg a pronunciare la parola poesia.  L’epigrafe tratta da Vita immaginaria è stata aggiunta alla fine. Mi sono imbattuta nel libro della Ginzburg a Dizionario già scritto:  “Molte sono le parole che sentiamo di dover pensare nel loro vero significato, scrostandone ogni volta le vernici di falsità che le hanno coperte; e una di queste è la parola poesia.”  Sono stata in dubbio se riportare o meno l’ultima parte della citazione. Troppo esplicita. L’accesso alla letteratura, deve avvenire per vie traverse. Nel libro la parola poesia non ricorre, mentre abbondano parole quasi sgradevoli: dialettali, ispide, ruvide. Alla poesia si arriva per dei budelli segreti.  Astrakan, sgrisoli, sencillo, ternoriposo tra tomba e tombola, torsolo tra orso e toro. Come collani le parole di cui fai dizionario? Dal verbo collanare: “la collana era una macchina da scrivere.” L’idea del libro nasce dall’incontro con Giovanna Zoboli editrice di Topipittori. Zoboli, conoscendo Les adieux, il mio esordio pubblicato da Fandango libri nel 2007, mi propose di entrare a far parte della loro collana sulla nascita degli immaginari artistici nei primi anni d’infanzia. La mia prima risposta fu: io non ho un immaginario! Ho sempre fantasticato tramite le parole, i loro suoni. Così ho accettato senza sapere come avrei fatto. Zoboli mi ha poi fatto notare che il libro in realtà è zeppo di immagini perché ogni parola fa sorgere una serie di visioni. Ci aveva visto bene prima di me. Una volta deciso il formato del dizionario, le parole sono venute da sé, per associazioni istintive. Volendo, si possono suddividere i lemmi per aree tematiche: ci sono le parole delle filastrocche, le toponomastiche, le capite-male, le onomatopee. A scavo avviato il processo è diventato sorgivo, e tutt’oggi continuano a venirmi in mente altre parole che chiedono un loro spazio nel Dizionario. I dizionari si sa non stanno mai fermi. Il libro indica due rischi del linguaggio: deve esserci consapevolezza della distinzione tra tTempo vero/lingua vera e tempo falso/lingua standard , ma ci si deve pure guardare dal non “ricadere nelle lusinghe di un individualismo di maniera.” Esiste un punto d’equilibrio? È la letteratura il luogo dell’armistizio tra il linguaggio intersoggettivo necessario a una vita comunitaria e il linguaggio personale necessario a una vita onesta con sé stessi. Rachel Cusk in un saggio contenuto in Coventry spiega che il motivo della diffusione dell’insegnamento della scrittura creativa è da ricercarsi nel bisogno di un linguaggio più onesto: scrivere è il recupero di un “sé” più vero all’interno di un mondo dove ci si sente alienati.  Tra il favoleggiato e il biografico nel Dizionario traspare la storia di un idillio con le parole che è stato consentito dall’essere stati risparmiati a una “una precoce socializzazione”. È un lieto fine o una fine dovuta quello della protagonista che dice “finalmente a scuola dopo anni di isolamento, la mia gorgogliante parlantina cominciò a irrigidirsi nelle statue ghiacciate dei cioè e dei praticamente”? Sembra un finale alla Collodi, dove non si sa se essere felici o no per Pinocchio, o alla Carroll. Per dirlo dalla prefazione di Busi a Alice nel paese delle meraviglie: “la disgrazia più irrimediabile della vita: non essere mai adulti e poi, improvvisamente, non essere più bambini”. Non idealizzo l’infanzia come tempo mitico dove tutti siamo felici e buoni. C’è anche tanta crudeltà nell’infanzia e la protagonista del Dizionario la lascia trasparire attraverso i suoi pensieri più oscuri. È una bambina un po’ folle ma anche molto matura, con uno sguardo severo sulle ombre della vita familiare. Allo stesso tempo, la voce adulta che rievoca quella bambina non ha smarrito la propria identità infantile. La salvezza, se ce n’è una, è essere stati bambini un po’ spietati; e diventare adulti con uno sguardo pietoso per l’infanzia.  Allargando il campo. I libri sull’infanzia rientrano in quella che Emy Berseghi e Giorgia Grilli, in un bel saggio Carrocci, definiscono ‘letteratura invisibile”, la letteratura che dà voce a chi non parla, per stare all’etimologia di infanzia, lungo la faglia: “bambini come creature da formare e bambini come creature non ancora deformate”. Ti senti una scrittrice-invisibile? Katherine Rundell in Perché dovresti leggere libri per ragazzi anche se sei vecchio e saggio cita un’intervista a Martin Amis. Gli avevano chiesto se avesse mai pensato di scrivere per bambini e lui aveva risposto: “Forse se avessi un grave danno celebrale lo farei.” Il saggio di Rundell è la replica perfetta allo sguardo altezzoso che esiste verso la letteratura per ragazzi. C’è un pregiudizio simile perfino tra chi i libri per bambini li scrive. Alla domanda: “Hai scritto qualcosa ultimamente?” capita di rispondere “Ah, niente, solo un libro per bambini.” Credo comunque che ci sia sempre stata una grande osmosi tra i miei lavori per bambini e i miei lavori per adulti, al punto che scrivendo mi capita di domandarmi a quale pubblico mi sto rivolgendo davvero. Stabilirlo in modo netto è una questione editoriale e commerciale: i librai devono sapere in quale settore catalogare ogni libro. Se mi sento una scrittrice invisibile? Diciamo che mi piace ibridare, e che le dinamiche editoriali non sempre sorridono a chi non rientra in facili classificazioni. Secondo i saggi contenuti in La letteratura invisibile la domanda delle domande è: “essere stati bambini che cosa significa”? Aver vissuto senza pelle nell’incandescenza delle cose sentite fino in fondo e conservarne intatto il ricordo nelle proprie identità future. Provando magari a guardare sempre tutto come chi è appena arrivato sul pianeta Terra e cerca di capire come vanno le cose. Il Dizionario segreto d’infanzia contiene una bibliografia suggerita. Ginzburg, Batuman, João Guimarães Rosa, Virginia Woolf, Dino Buzzati, Calvino, Magris, Meneghello e altri. Perché Dizionario è anche un’esplicita riflessione sullo scrivere. C’è la Le Guin de I sogni di spiegano da soli, che parla delle disinsegnanti. La letteratura ci può ancora disinsegnare qualcosa? La letteratura non fornisce risposte o consapevolezze ma apre a dubbi e voragini, e la letteratura per l’infanzia deve fare altrettanto, senza rinunciare alla sua ambiguità, non riducendosi a manualetto d’istruzione per le prime volte, a promozione di messaggi educativi di base. I bambini sentono l’impostura dei libri con la missione incorporata. Le storie devono dare la possibilità a ciascun lettore di fare le sue scelte, morali e no. Da Les Adieux: “Crescere è fare le cose dei libri dei proverbi, un vocabolario che li mette in fila.”  Proverbi in Dizionario credo di non averne trovati. Tra il primo libro e questo com’è cambiato, se è cambiato, il tuo essere scrittrice? È una domanda che mi sono posta mettendo mano dopo circa venti anni a questa sorta di Les Adieux “remastered”: non mi ero allontanata più di tanto da quell’inizio o stavo compiendo la chiusura di un cerchio? I temi ritornano ma la consapevolezza è un’altra. Durante questi vent’anni sono diventata altre persone, ho attraversato altre identità. Non avrei potuto proseguire con lo stile sregolato di Les Adieux, così legato alla ventenne universitaria e sperimentale che ero allora. In Dizionario tornano le mie ossessioni espresse però dalla me che sono diventata dopo la conquista dell’età adulta. Continuando a volermi incompleta, plasmabile, reinventabile. Concludiamo con un ultimo tocco di teologia beffarda. Dal Dizionario: “Adulterio – Era sicuramente il peccato di essere adulti.” Come ce lo si perdona? È il passaggio del libro che meglio racchiude tutta la rabbia che il bambino nutre verso il tradimento degli adulti quando non si sente visto, riconosciuto, rispettato in quanto bambino, cittadino di un mondo misterioso e delicato. Non ce lo si perdona. antonio coda *In copertina: illustrazione di John Tenniel ad “Alice’s Adventures Under Ground”, 1886 L'articolo “Nell’incandescenza delle cose sentite fino in fondo”. La letteratura per l’infanzia apre voragini. Dialogo con Arianna Giorgia Bonazzi proviene da Pangea.
July 1, 2025 / Pangea
Breve lettera a un’anima sorella sulla condizione del poeta e questioni affini
Mi rivolgo a te con parole come carezze di cardo, facendo delle mie spine un lambire delicato, senza bardature morali, infine, e armamentari retorici. Hai veduto, credo, quanta poca virtù alligni nella forza di chi mostra sicumera, e quanta sapienza virtuosa in quella più dimessa di chi sorregge grandi pesi senza farne mostra o parola. Trovo sempre più vasto lo sguardo di chi guarda al mondo con cuore semplice, e di semplici, buone cose si nutre con la gioia manifesta di un bimbo che riceve qualcosa in dono. Sia il mondo di coloro i cui sogni non poggiano solo su di un guanciale. La mia parola, vedi, è ben umile cosa: artigianato e non arte – sebbene le due cose non fossero così distanti tra loro nell’epoca fiorente delle botteghe. Non sono solito far tuonare la parola contro coloro che peccano, e so bene che se esiste un Dio non si volge all’umana fallacia come se dovesse compilare un libro mastro delle qualità e dei difetti. Faccio tuonare la parola, piuttosto, contro coloro che non solo pianificano scientemente il male ma sono per soprammercato incapaci di concepire il bene. Dio, però, e preferisco perseverare nell’idea che esista oltre o prima di ogni iconografia, non è un notaio dell’anima e nemmeno un cecchino dei cuori. Ho visto persone fare il male con una innocenza bestiale ed essere ugualmente capaci di volere il bene senza niente in cambio. Credo piuttosto che la malvagità sia insita nel progettare il male, come suggerivo, nel renderlo numero organizzato, nel farlo divenire una cosa seriale e un’abitudine. In questo i potenti sono maestri e capaci di ideare falsi valori, idoli osceni, inclinazioni coatte, dispositivi senz’anima di azioni simili ad automatismi. In tutto questo vorrei sempre che la poesia che concepisco potesse essere trasversale, laterale a ogni acquisito, e ficcante abbastanza da insinuare dubbi e domande, piuttosto che proclamare certezze.  D’altra parte, se il poeta fosse solo fingitore, la poesia sarebbe ben misera cosa, il fatto è che il poeta finge, sì, ma sempre guarnendo la finzione di un po’ di verità; o forse è proprio un certo tipo di finzione che è realmente depositaria del dono di saper suscitare emozioni e pensieri veritieri. Ma non è ancora questo il nodo. Fingere non significa necessariamente mentire, esattamente come dissimulare non è sempre nascondere.  Forse il vero poeta finge un ruolo, una postura, uno stratagemma e una disposizione, solo per aggirare l’ovvio e mettere in luce ciò che è nascosto, recondito ma vero sebbene esule dall’attenzione dei più. Creare ha in questo senso la pienezza, l’abbondanza di sé, e la veritativa sostanza, di ciò che eccede le misure note e trabocca, promana ancora prima dell’intenzione di farne dono o materia di scambio. Io, personalmente, creo come un invasato perché sento l’impellenza di non volgermi all’indirizzo di questo o quel tipo di lettore, ma nella speranza, sempre ferma e genuina, di traslare ciò che ho dentro fino al punto di non appartenermi più, fino al punto di sorprendermi io stesso che le sue caratteristiche siano più evidenti se adulterate dalla fantasia, che non messe brutalmente in pedissequo elenco.  L’artista crea mondi ma non ne è padre, in qualche modo egli è solo un tramite, prende in prestito qualcosa di comune e lo volge allo straordinario, prende in prestito storie e paesaggi dell’esistere non comuni e restituisce la familiarità di ciò che è vita senza apparenti eccezioni. Il suo è uno sguardo trasmigratore. Egli conosce bene gli artifici e usa mille trucchi, esattamente com’è capace di denudare la parola, renderla essenziale e parca, ma tutto questo avendo ben presente che le due cose coincidono e si equivalgono, laddove si testimonia non tanto di sé quanto di un sé che ridonda di altri ed altro, di un sé libero di essere ovunque e in ogni tempo, ma mai in ritardo o fuori luogo.  Vorrei che tu sapessi che nella vita io ho molto sbagliato e perseverato nell’errore e nell’ingiustizia; proprio per questo quando scrivo cerco di colmare ciò che è in difetto, ricucire ferite, rimettere debiti, raccogliere la voce di chi soffre in silenzio, soprattutto di sé, e renderla scudiscio e carezza, ruggito e silenzio, un dono infine, che non ha l’intenzione del dono, e soprattutto è tale verso me nel momento stesso che è raccolto da un’anima – forse lontana fino allo stemperare della propria traccia, ma pur sempre sorella in questo umano cammino. Penso che questo possa essere l’inizio di un gesto di avvicinamento, ispettivo e cauto, ma tale, di dialogo tra noi. Massimo Triolo *In copertina e nel testo: Johan Christian Dahl (1788-1857), Studi di nuvole L'articolo Breve lettera a un’anima sorella sulla condizione del poeta e questioni affini proviene da Pangea.
July 1, 2025 / Pangea
Le Dita Nella Presa, Tecnologie oppressive di ogni tempo
Aggiornamenti di attualità sul caso Paragon: le analisi smentiscono la difesa del Copasir; letture sul tema del linguaggio che evoca lo schiavismo nell'elettronica e informatica; Google usa le sue piattaforme per ostacolare le alternative aperte. Il 5 Giugno, il Copasir ha pubblicato la sua relazione sul Caso Paragon: tra le altre cose, ci dice che Citizen Lab potrebbe averla sparata un po' grossa, e che Francesco Cancellato potrebbe non esser mai stato intercettato. Peccato che una settimana dopo esca un nuovo report di Citizen Lab, che indica che altri due giornalistə europei sono stati attaccati con malware Paragon, e che uno di questi lavora proprio a Fanpage, la testata diretta proprio da Cancellato. Abbiamo già parlato di linguaggio escludente nell'informatica, continuiamo a farlo ripercorrendo uno studio sull'origine dell'espressione master-slave (padrone-schiavo). Un'espressione più recente di quanto potrebbe sembrare, e abbastanza specifica di elettronica e informatica. Attraverso vari esempi, vediamo che anche se è difficile dare una ricostruzione certa della sua genesi, questa espressione non deriva dall'essere una metafora espressiva - per quanto problematica - di un meccanismo tecnico, ma da una specifica concezione della divisione del lavoro che prevede sempre l'esistenza di un dualismo tra volontà/intelletto e forza bruta. Nextcloud denuncia che Google, attraverso il Play Store, ha artificialmente limitato le possibilità della sua applicazione per Android, rendendo più difficile (ma non impossibile) l'utilizzo di alternative libere. Chiudiamo con il ruolo italiano nei bombardamenti statunitensi contro l'Iran. Ascolta sul sito di Radio Onda Rossa
June 23, 2025 / Pillole di Graffio
“Pratico alfabeti impropri”. Matthieu Messagier o della poesia come ribellione
Potremmo dire: didattica della sobillazione. Svergognare il linguaggio, potremmo dire. Riverginarlo. Resurrexi.  Senza che ciò diventi prassi, però – lui, il poeta, Prassitele del caos. Gli altri – i poetastri-poetini-impotenti – i parassiti del verbo, i cannibali del vocabolario.  Al posto del vocabolario: esigere l’arca. E rompere tutte le alleanze.  Esigere, cioè, il diluvio. Le tante bestie. Le acque sigillate. Nessuna colomba a imbottirci di false speranze.  Di Matthieu Messagier, per così dire, resta l’ombra, la figura corrotta e miracolata – il poeta, a dirla tutta, ha delirato e disertato: è già – e sempre – altrove.  Una fotografia, forse, lo centra: il ragazzo – viso da inquieto putto: capelli a tiara, inesorabili baffi, paffuto – siede su un triciclo, una mano regge il volto, in crollo; davanti, un cane. Il tutto, reso all’oscuro, tra vampe bianche, diacce. “Le Figaro” scrisse di una lumière obscure; era il 2020, Messagier sarebbe morto l’anno dopo, a ridosso dell’estate, doveva compiere 72 anni. Flammarion aveva pubblicato come Dernières poésies immédiates una raccolta di “Sérénades”. È un libro tra le strettoie del rischio, quello, scritto nel luglio del 2006, in ospedale: il poeta, “ricoverato per una grave ipercalcemia… dopo ventiquattro ore chiede un quaderno e una matita, a redigere, dice, un ‘Ticino di parole’”. Un insetto campeggia in copertina; la quarta è felicemente destabilizzante: > “Il foyer della Poesia gode dei tentativi > delle parole di trovare per lei > una ragion d’essere > (la poesia autorizza il conoscere > non certo l’inverso) > > Riverso il capo tra le mani > non rendo scaltre le poesie di agonie  > passate all’autopsia della notte: > pratico alfabeti impropri > estranei alla cappa del pensiero > necessario a ordire le loro > cronache contemporanee” Figlio di artisti – il padre, Jean, praticò, tra l’altro, come discepolo di Picasso – Messagier è stato messo nelle condizioni di esigere il meglio dal proprio genio. Girò qualche corto con Michel Bulteau, girò per Parigi giocando al flâneur flamboyant, scrisse disegnando. Praticò la parola fin da bimbo, con lo scopo, più che di auscultarsi, di sgretolarsi, di farsi lo scalpo, di scappare. L’esordio nel 1969, per Pauvert, con un ciclo di versi di implacabile precocità. Scrisse disinteressandosi di un ‘pubblico’, disperso tra i rivoli di pubblicazioni d’occasione, occipitali al tempo, presto introvabili. In Le Dernier des immobiles (1989), uno dei tanti fascicoli stampati con Fata Morgana, il poeta stila in distillato la propria poetica: > “Si scrive perché nessuna parola è in grado di condurci al senso: lasciala lì, > allora, prima dei bei sentieri dell’opera, incisi sul filo dell’evidenza. È > l’elegante unicità piromane a renderti pari alla natura originaria”.  Sviluppando la teoria delle ‘corrispondenze’ abbozzata da Baudelaire, Messagier scrive di voler “pervenire alla somiglianza/ per averne perso il senso”.  Schifò il Sessantotto; nel 1971 scrisse – insieme a un gruppo di accoliti – un improbabile Manifeste Électrique aux paupières de jupes, edito da Le Soleil Noir. Quando capì che il gruppo percorreva la via di William S. Burroughs e dei surrealismi, mollò tutti, facendo capo a se stesso. Anche Messagier – secondo il crisma rimbaudiano – aveva bisogno di significare la propria poesia disintegrandola. Dal ’72, per sette anni, non scrive; viaggia per l’Europa come un vagabondo, un senzatetto di sé, un pellegrino in sempiterna erranza. Dell’esperienza parigina serba l’amicizia con Dominique de Roux. Il grande editore anticonformista de “l’Herne”, gli aveva commissionato un improbabile “libro a venire”; gli aveva chiesto di dirigere insieme a lui la rivista “Exil”. Il primo numero, uscito nell’autunno del 1973, reca testi di Ezra Pound, Raymond Abellio, Henry James e J.-J. Langendorf. Messagier è già altrove, permette che sia pubblicato il suo Bestiaire.  Tornato in Francia, piagato da una malattia neuromuscolare, Messagier si installa nel Doubs, nascosto ai più. Lì scrive l’immane poema in prosa Orant (1990), per lo più un oratorio di quaderni, spunti, appunti, una pestilenza linguistica di ottocento pagine, “un affronto alla ragione, un gesto borderline, fitto di pura confusione emotiva ed epifanica vastità che non è improprio paragonare al Finnegans Wake di Joyce” (Renaud Ego).  Nei suoi scritti – che chiedono a chi li attraversa una sorta di ermeneutica all’arma bianca, il disarmo del sé – qualcuno riconosce la “teomania” di Henry Michaux. Renaud Ego ha rintracciato un lignaggio che lega Messagier a Gerard Manley Hopkins (“per l’audacia sintattica”), Giacomo Leopardi (“poesia come trasposizione della natura in piena esuberanza”) e Velimir Chlebnikov (“gusto per i neologismi e ricerca di una ‘cosmoglossa’, un linguaggio comune per dire l’universo”). Secondo il poeta > “Il significato originario delle parole è in totale contraddizione con l’uso > che ne ha fatto il nostro tempo: attonito rapimento, dolore, erba tra le > mani”. Di questa sregolatezza – improponibile a latitudini italiche, dove il dire incontrollato (chessò: Calogero, Fermini, Ceni) è messo ai margini, incompreso per incompiutezza di chi lo soppesa – resta l’impeto, il talamo, il sepolcro vuoto. Titanomachia. Semmai: venefico antidoto contro gli artifici dei bot, contro gli artificiosi versi dei poeti al botulino.  Spesso è opera che resta nei quaderni, quella di Messagier, che non si può restituire in trascrizione. Pena la perdita del corpo del reato, del corpo mistico del verso.  Dunque, sì: documento-nocumento.  *** Crepita il crepuscolo e crolla la camera sempre in quello stesso crollo nell’atto della creatura randagia finché Locarno non si serra in una crisalide epica e crepa l’idea Volto fisso e freme la circolazione nel particolare, oh, sì, l’unico preso dal panorama, il convulso, il rovinoso soprassalto della carne la maestà che diviene sudore e il più vile dei tratti: il tutto rampogna la propria apoteosi e vivacità dell’ossessa pazienza annaspa nel flusso perché lo stupore è un nodulo * Lugano, la forma lappa la sostanza del faticare  l’oscurità appena lambita dalla speranza angolare in aria si dispiega il rifugio dello stesso volume o quasi perché di rado l’arborescente visione compie dell’asse degli anni la nota astratta, la sorpresa al calendario delle sentinelle solo l’esasperazione di un paradiso in sussiego e il broncio corrugato come una goccia preso da una divinità larva che lavora al vertice di un’immaginazione esperita con tanto di balsamo addosso con tanta redenzione priva di pareti.  * Amadriadi arroganti al sole di maggio C’era una lunga seta poetica che nuotava con serica dolcezza. “Intanto della resina degli occhi della sentinella che sfianca il giorno la miscela è chiara e il bruto atomo la sua fragranza vinto al concerto dalla prima”. Amadriadi arroganti al sole di maggio e perfino la grammatica dell’assenzio le nuvole dei primati aggiunte a quelle trasparenze su sopiti prati… …su stupiti prati si slanciano classifiche di ore al miele e noi passiamo tra i punti e le virgole per perderci (quando il medico mi ha auscultato il cuore, ho detto: “non si facciano prigionieri!”) * L’autunno non sa redimersi dall’estate quando esplodono le lacrime perché è troppo – è difficile il vano appello all’oggetto e al fine Ed è rosa, è opaco porge la sua tristezza di rari alcolici Da qui puoi vedere tutto lo stato del risveglio appena importato Un torrente di carta & matita i sorrisi della mano sinistra frantumi di regni sconfitti al culmine di una illogica velocità Ma la vita è altro, è altrove  Matthieu Messagier L'articolo “Pratico alfabeti impropri”. Matthieu Messagier o della poesia come ribellione proviene da Pangea.
April 28, 2025 / Pangea