Nel 1910, a Copenaghen, esce un libro a suo modo decisivo. S’intitola Vita del
lappone, lo ha scritto Johan Turi in uno stile, al contempo, crudo e fiabesco,
come appena estratto dal fuoco, una specie di nordica Lascuax. Nelle fotografie,
Turi ha lo sguardo ad accetta, occhi che contengono boschi. Nato nel 1854,
faceva l’allevatore di renne; il suo libro, scritto in lingua sami con la
traduzione in danese, fu pubblicato in diverse lingue: in Italia è al 235 della
“Biblioteca Adelphi”. Il libro ha una leggiadria adamitica, la prontezza delle
cose prime e nude: si parla di bestie, di estati come coltelli, di segni nel
suolo e nel cielo e della “pietra del serpente”; le costellazioni si chiamano
“Alce”, “Branco di cani” e “Sciatori”; la Via Lattea è la “Scala degli
uccelli”.
La data in cui è pubblico il libro è importante: di lì a poco i Sami, etnia
indigena del Nord, verranno ripetutamente vessati dalle entità statali,
Norvegia, Finlandia, Svezia, a estirpare terre, a sradicare tradizioni. Non a
caso, intorno a quella data, nel 1913, attracca Ædnan, il poema epico di Linnea
Axelsson, poetessa svedese di origine Sami. Edito nel 2018, Ædnan – che in Sami
significa “terra”, “luogo natio” quando non “madre, matria” – racconta, in
versi, la saga di una famiglia Sami, tra enormità di panorami, apparizioni di
morti, vessazioni, dai primi del Novecento al nostro millennio. Il ritmo imposto
dalla Axelsson contrasta con il tambureggiare dell’epica tradizionale: i versi
sono brevi, a volte brevissimi; si procede per singulti e apocalissi in palmo di
mano; c’è molto bianco intorno, tanto che le parole paiono impronte di renna
sulla neve, rivoli di una danza antica e perduta, di uomini-pernice, di
uomini-gufo. Un esempio:
“Mi addentrai nella palude
dei lamponi gialli
–
Avanzai
finché potei
poi mi spogliai
sciolsi i nodi dei pantaloni
e li riempii di bacche
–
Annodai lo scialle con
della stoffa e ne feci
uno zaino
ricolmo di bacche
–
Una pozza nera
si aprì nel muschio
l’acqua era fredda
meravigliosa per la nuca
–
Allora spuntò
scura nel cielo
l’aquila reale
l’occhio giallo
e nero
–
Nell’occhio giallo
il mondo ebbe
un altro riflesso
–
Dischiuse gli artigli
e si gettò su Aslat
lasciai le bacche
e corsi gridando
con le braccia alzate
–
Vidi l’immenso
rapace volare via
–
Tutto era come sempre
ma c’era un’ombra”
Tradotto in inglese, da Knopf, nel 2024, Ædnan ha avuto un impatto importante:
il libro, tra l’altro, è stato finalista al National Book Award for Translated
Literature. Di questo “ambizioso romanzo in versi”, an Arctic epic from Sweden,
ha detto il “Guardian”, toccando il punto centrale del testo: “in ogni pagina,
distese di spazio bianco, a memoria di una narrazione fatta di assenze,
fratture, silenzi, oblio e mutilazione”. Una porzione di Ædnan è stata tradotta
da Maria Cristina Lombardi – già traduttrice, tra l’altro, del fenomenale poema
epico-cosmico Aniara del Nobel per la letteratura Harry Martinson – nel libro
libro collettivo Voci di donne dal Nord, edito da Crocetti (in cui sono
sintetizzati, per poesie-totem, i lavori, oltre che di Linnea Axelsson, di Eva
Ström e di Ann Jäderlund).
Lei è Linnea Axelsson
Ædnan, soprattutto, è il poema di una lingua defunta che risorge rifulgendo (“La
lingua sami dormiva/ da tempo nel corpo/ bloccata// dentro/ dalla vergogna…//
Come se mai/ noi e i nostri avi/ fossimo esistiti// mai avessimo/ costruito
nulla”). Di una lingua dissotterrata, di minime, esigenti tracce nella neve che
tornano artigli, il ruggito del profondo Nord. Certo, il poema s’infittisce
nella nostalgia: le parole descrivono ma non operano; la danza, non più
sciamanica, è sciamannata, dei fasti restano le vestigia, le braci – pigolano
gli astri. Su tutto, tuttavia, agisce lo straordinario.
Con l’aiuto della Lombardi, abbiamo contattato Linnea Axelsson, a dare ligneo
lignaggio a questa lingua.
Come è nata l’idea di scrivere un poema epico sui Sami? Come ha scelto di
strutturare il libro?
Più che un’idea iniziale, sono stati il lavoro e il materiale ad ispirarmi la
scrittura di un poema epico sui Sami: la poesia epica è stata una scoperta che
poi ho messo in pratica. Credo che un’opera si sviluppi da un’immagine interiore
che funge da orientamento verso un certo linguaggio, una data struttura, un
mondo che il lettore è chiamato ad immaginarsi. Nel caso di Ædnan, l’immagine,
almeno come come la ricordo, era un volto di donna, o meglio, il silenzio nel
suo volto. Fu lei che durante la stesura del testo haportato con sé lo spazio
(Sápmi, la terra dei Sami), gli eventi e gli altri personaggi. Pian piano
l’ampiezza e la natura del materiale – ad esempio, le relazioni interpersonali e
lo svolgimento della narrazione nel tempo – iniziarono a suggerirmi che forse il
racconto sarebbe stato più adatto alla prosa che alla poesia. Prosa e poesia
sono costituite dagli stessi elementi, ma si utilizzano in modi diversi e con
enfasi diversa. Non mi pareva giusto scrivere un romanzo, sarebbe stato come
assolvere a un compito inesatto. Così, a un certo punto, mi è venuta in mente la
tradizione epica, e allora mi sono presa una pausa necessaria. Non nel senso che
ho cominciato a leggere i poemi epici antichi; piuttosto, ho iniziato a
impostare alcuni principi formali di riferimento. Ho riflettuto a lungo intorno
alla tradizione degli joikar sami che sono contemporaneamente canto, tradizione
poetica più o meno narrativa, e strumento per ricordare e conservare le memorie.
Come è riuscita a trovare il ‘ritmo’ adatto al poema? Intendo dire: nel poema si
coagula una lingua arcana, arcaica, ma anche un tono proprio della poesia
contemporanea. Mi spieghi il suo processo linguistico.
Trovare il ritmo è stato decisivo ed è parte della forma stessa del poema: versi
brevi, scarsità di parole, silenzio. Questo mi ha ispirato un sensazione di
ampiezza e di movimento, nello spazio e nel tempo, che tenesse insieme e
caratterizzasse la narrazione. Ci è voluto molto a trovare il giusto ritmo: in
qualche modo, è scaturito durante la scrittura. Altre volte mi è accaduto di
sentire un ritmo senza nessuna parola, che solo dopo è divenuto poesia, ma non è
il caso di quest’opera.
Il ritmo è anche legato alla respirazione e allo svolgimento, nel senso che
nasce quando una poesia si muove tra qualcosa di quotidiano, che senti sulla
pelle, e qualcosa di cosmico, di esistenziale. Produce suono e realismo. Lo
stesso svolgimento si rispecchia nella parola: un termine della sfera quotidiana
o comunque della contemporaneità si incontra con una parola più solenne, più
carica di connotazioni o più antica, riuscendo nella poesia a essere avvertito
come semplice e naturale al pari della parola quotidiana.
Per molto tempo – oggi non è più così – sono stata attratta dall’arcaismo
facile, sia perché amo le profondità e le diverse fasi della lingua, sia perché
quello che devo costruire non è documentato, ma vive nella narrazione orale,
nelle fiabe, nel mito. In Ædnan ho cercato anche di cogliere un certo suono che
credo fosse tra i Sami nell’ambiente in cui sono cresciuta quando si parlava di
cose come lo stato e gli svedesi, o come quando si raccontavano aneddoti.
Quali sono le fonti di cui si è nutrita? In Italia è abbastanza noto il
resoconto di Johan Turi, ma per il resto il popolo dei Sami appare tra le brume
della leggenda. Quali sono i miti miliari, decisivi dei Sami?
Uso tutto quello che posso: ricordi, cose che ho sentito e ho visto, che ho
letto. Più importante di tutto è l’immaginazione, lo spazio per la capacità di
rappresentazione che dobbiamo conservare in noi stessi. Non faccio ricerca nel
senso giornalistico ma, al contrario, evito di leggere proprio di ciò su cui
scrivo.
Detto questo, sono sempre stata interessata e ho letto tanto sulla storia e
sulla mitologia dei Sami, ma la grande fonte, quando si tratta di questa storia,
è fatta di esperienza, cultura e narrazione orale, dunque, dalle conoscenze che
si tramandano in famiglia, tra parenti e amici. Molte culture, come quella sami,
si scontrano con due fattori essenziali: la propria storia scritta, quando non
sia stata resa del tutto invisibile e assimilata, è stata comunque a lungo
formulata da qualcun altro, e che ciò che si conserva ci si aspetta sia
autentico.
Nella mitologia sami ci sono divinità e miti della creazione. In realtà, non so
quanto delle fonti scritte sia influenzato e concepito dai colonizzatori che per
primi l’hanno scritta e tramandata. Ho riflettuto a lungo e non so se i
termini dèi e dèe funzionino veramente. Ad esempio, Sáráhkka[1], non è piuttosto
una forza che non una dèa nel senso occidentale del termine? Forza generatrice e
maternità sono presenti anche nelle acque di un lago.
Mi sembra che il suo poema epico abbia altresì un ruolo ‘politico’. Quali
reazioni ha risvegliato il libro dopo la pubblicazione?
Quando Ædnan è uscito in Svezia, credo abbia contribuito ad aprire gli occhi ai
lettori svedesi sulla loro storia e sulla situazione coloniale del paese: che la
Svezia non è mai stata un paese con un solo popolo. Tra i lettori Sami, se
parliamo da un punto di vista storico e politico-sociale, le reazioni sono state
ovviamente di altro tipo: riguardando soprattutto aspetti come rappresentazione,
riconoscimento, ecc. Io sono un po’ indecisa se considerare il
poema politico oppure no. Credo che tutto quel che scrivo abbia in sé un piano
politico. Ma sono assolutamente convinta che le eventuali verità sulla nostra
vita si possano scoprire solo attraverso l’immaginazione, liberandosi da ogni
dovere e impegno, e che qualsiasi riflessione su temi e aspetti politici emerga
molto tardi nella stesura di un’opera, se non addirittura mai.
Quali sono le letture che la hanno formata, i poeti che può appellare a maestri?
Sono molti e diversissimi tra loro. Nils Aslak Valkeapää, Birgitta Trotzig,
Robert Musil, Elizabeth Bishop, Ingeborg Bachmann. Mi piace moltissimo leggere
testi teatrali: Harold Pinter, Lars Norén, Brian Friel. Qualche volta leggere è
quasi come andare dal medico: è qualcosa di molto preciso quello che mi
prescrivo.
Oggi, nell’era dell’algocrazia, delle guerre continue e dell’intelligenza
artificiale, che senso ha la poesia? Che senso ha l’epica?
Mi viene voglia di rispondere che il senso della poesia oggi è lo stesso che è
sempre stato. La poesia sembra essere qualcosa cui si ricorre in situazioni
terribili. Lo vediamo oggi a Gaza: sia i palestinesi a Gaza che uomini e donne
in tutto il resto del mondo scrivono poesia che, in modi diversi, nasce
dall’attuale genocidio. Lo abbiamo visto nei campi di concentramento del Terzo
Reich, dove gli ebrei scrivevano poesie nonostante rischiassero la
vita. È un segno del significato della poesia, ma ilsignificato è difficile da
determinare. Per me, come lettrice e poeta, ha a che fare con il lavoro
linguistico, con la lingua come essere vivente, con l’immaginazione,
l’attenzione e la concentrazione. Ha a che fare con il piacere e la realtà.
Cioè, con un aspetto della realtà.
È come se poesia, letteratura e arte fossero un fiume che scorre accanto alla
vita, dalla stessa sorgente. Sono legate e si rispecchiano a vicenda, ma la
letteratura non può essere solo uno specchio, una rielaborazione o
un’esplorazione. È costruzione di se stessa. La poesia dovrebbe essere un
vortice ben definito, e i vortici portano ossigeno al fiume. Per me, poesia
epica non significa che il testo presenti una certa lunghezza, o si espanda in
un certo arco temporale o che sia narrativo allo stesso modo di un romanzo. Per
me la poesia epica è legata alla memoria e alle storie. Storie che possono
conservare il nostro contatto e la conoscenza delle nostre origini, e
testimoniare la qualità del nostro rapporto con tutto ciò che vive.
(Traduzione di Maria Cristina Lombardi)
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[1] Dèa dello sciamanesimo, protettrice del parto, venerata nelle regioni
abitate dai Sami in Svezia e Novegia.
L'articolo “La lingua sami dormiva, bloccata dalla vergogna”. Dialogo con Linnea
Axelsson proviene da Pangea.
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Dunque, è dal termine che bisogna partire: dalla gemma partorita con dolore,
dalla goccia che prima di cadere e di mutarsi in folgore, trema, si aggrappa,
icona di spina, sventata vampa, al ramo. Così scrive lei, Karin Boye, in una
delle poesie più note: ciò che sboccia succede al dolore, ciò che nasce ferisce,
il nuovo accade per ventura di inverno in grammatura d’oro. Sembra di auscultare
la Decima elegia di Rilke, quella della “felicità ascendente”, della commozione
che lascia sgomenti (bestürzt) “quando cade una cosa felice”. In Karin è
epidermica la violenza, la screziata grazia della cosa che si spezza – la fiamma
prima della felicità, la forza che discende.
Fu pure lei, Karin, goccia che cade, il frutto che, risolto a maturità – cioè:
in parentela con il sole, un sole che si può dire Bicorne e Bucefalo –, si apre,
nella polpa da leccare, nella pappa leccornia, nel seme da piantare. Purissima
gemma, Karin scelse Alingsås, una cittadina di laghi; scelse i sonniferi –
cadde. Aveva 41 anni; l’anno, il 1941, è lo stesso – stimmate di santa, mesi in
costato, segni di cui fare sudario – in cui muoiono, volontariamente, anche
Virginia Woolf e Marina Cvetaeva. Karin optò per aprile, the cruellest month, il
mese che “genera/ lillà da terra morta, confondendo/ memoria e desiderio”. Aveva
tradotto La terra desolata di Eliot dieci anni prima – anni di esperienze
spaesanti, quelle. Il matrimonio con Leif Björk, nel ’29, l’attività totale nel
movimento socialista “Clarté”, il viaggio – per certi versi agghiacciante – in
Unione Sovietica e quello in Jugoslavia.
Nata a Göteborg nell’ottobre del 1900, in famiglia di alti studi – padre
ingegnere, madre impegnata nel ‘sociale’ e nello spirituale –, fu segnata da
feroce precocità: a nove anni scriveva i primi testi; a diciotto compose per il
compleanno del padre un libro di poesie e di leggiadre leggende, illustrandolo;
nel 1922 pubblica Moln(“Nuvole”), una raccolta di versi che sanno di fiaba e di
petroglifo, un esordio in stile Lascaux – aveva già inciso, a suo modo, la nuova
via della lirica svedese. Non difforme dalla poetica di Nelly Sachs, dalla voce
di Karin Boye (tradotta in Italia da Daniela Marcheschi; le Poesie di Karin sono
in catalogo Le Lettere dal 2018) proviene – ad esempio – la poesia di empia
bellezza, la poesia d’empito di Birgitta Trotzig. Fu amica Harry Martinson, che
la trasfigurò in Isagel, ‘carattere’ indimenticabile del poema
epico-cosmico Aniara.
Leggeva Kipling e Tagore, si interessò al buddismo, studiò il sanscrito, preferì
il cristianesimo – maneggiava l’Edda e i miti norreni. A dire di una poetica che
assembla la profezia, a dire dello scoperchiare gli altri cosmi, del tenere sul
palmo la foglia e la galassia, l’erba e la materia oscura, dell’adesione all’Ade
dei poeti ctoni, che confabulano con gli spettri, capaci di estrarre fibule di
luce, sfreccianti agnizioni. Certo, è da aggiungere: le depressioni ricorrenti,
l’omosessualità celata, il matrimonio fallito, i viaggi in Germania, a Berlino,
per frequenti, infeconde sedute psicoanalitiche. Lentamente, Karin Boye si slegò
da tutto – da tutti si sentiva annodata. Poetessa tra le più ardite, aderente al
linguaggio sabbatico, al linguaggio come sabba, cioè a stanare le forze, Karin
deve il successo, per paradosso, a un romanzo, Kallocaina, uscito nel 1940, in
cui, dietro al delirio statalista e alla fatidica “droga della verità” sono
adombrati i regimi sovietico e nazista. In Italia, il romanzo distopico è
tradotto da Iperborea: “Scritto nel 1940, quando era difficile nutrire grandi
speranze nell’avvenire, Kallocaina ha in comune con Noi di Zamjatin, Il mondo
nuovo di Huxley, 1984 di Orwell l’allucinata visione di una società
spersonalizzata, dominata da uno Stato poliziesco che arriva a invadere anche la
sfera privata dei cittadini sopprimendo ogni libertà”.
Tuttavia, per così dire, Karin aveva “uno Stato poliziesco” dentro di sé. Le
fotografie di famiglia sembrano tratte da un film di Ingmar Bergman: sorrisi
senza fiordi, orche sotto le bianche vesti e le belle trecce. Fece un viaggio in
Grecia che la empì di una luce cerbiatto, di una luce Cerbero. Tutto diventò
troppo – troppo tardi, soprattutto. La ragazza non riuscì a spezzarsi, si volse
alla morte nel sonno.
Ma va detto del seme, ora. De sju dödssynderna (“I sette peccati capitali”), la
raccolta postuma, alterna le visioni di Emanuel Swedenborg alle tenerezze di un
cronachista di mondi perduti, desunti da un acquazzone. Letale il poemetto
accusatorio che dà titolo al libro:
> “Di generazione in generazione non siamo stati altro che la nostra segreta
> follia
> il nostro mai-nato.
> Oh Dio, quanto sei prossimo a ciò che non esiste.
> Occupati di noi. Non possiamo più durare.
> Distruggi il male che non ha cura di distruggersi.
> Distruggi il sogno della nostra follia incapace di farsi reale.
> Distruggici”.
Qualcuno disse di fenomenali epifanie, di apatie d’acqua, qualcuno credeva
bastassero i fiori a imbonirla, imbottita di buoni odori. Ma lei, Karin, sapeva
che l’angelo è oscuro, che l’angelo è maculato, che l’angelo può chinarsi nella
foga della iena. Chissà – Rilke si sarebbe innamorato di lei.
**
Gli dèi
I carri degli dèi
non scuotono le nubi
scivolano silenti
come raggi.
I passi degli dèi
sono difficili da udire
come un mormorio
nell’erba.
Con cautela
segui le loro tracce:
profumano di una
vicinanza tremenda.
Voleranno, lasciandoti
pieno di parole
in un mondo vuoto.
*
Non nominare
Molte cose fanno male e non hanno nome.
Taci e accettale.
Il molto è segreto, oscuro il pericolo.
Sopporta e porta rispetto.
Meglio confinarsi nel segreto
e non solleticare i semi che crescono.
“Dove il pensiero non si avventura
Madre di Tutto, guidami, esortami!”
È bene ascoltare la voce della Madre –
non ha parole la cura, non ha nomi il cuore.
*
Il conforto delle stelle
Ho parlato con una stella, la scorsa notte
luce lontana, in inabitati spazi –
“Cosa illumini, strana stella?
Ti muovi così grande e luminosa”.
La mia pietà l’ha ammutolita
poi, con il suo stellato sguardo:
“L’eterna notte illumino
illumino lo spazio senza vita.
La mia luce è fiore che appassisce
nello spinato autunno del cielo.
Questa luce è tutto ciò
che ho, è il mio solo conforto”.
*
Alcuni cuori sono
inesauribili tesori.
I loro proprietari gettano
con generosità, ovunque, i rivoli di quel sole.
Con mani tenaci accogliamo
il dono, grati. Felicità
e salute a te, benedetto,
che maneggi l’oro come fosse sabbia!
Alcuni cuori sono
inabissati fuochi.
Nella più fredda notte
un riflesso sulla neve.
In quell’incanto, nessuno
sopporta il desiderio
tranne chi scorge una luce
nella notte e ne vuole la fiamma.
*
Certo, è ovvio, fa male quando il germoglio sboccia.
Altrimenti, che senso avrebbe la primavera?
Altrimenti, perché sedare nella gelida brina
quell’ardente desiderio?
Il germoglio è stato crisalide lo scorso
inverno: una novità che ora si spezza, scoppia.
È ovvio, è certo, ferisce il germoglio che sboccia
perché fa male ciò che cresce
e ciò che serba.
Certo, è ovvio, fa male la goccia che cade.
Trema di paura, pende grave
al ramo si avvinghia e si gonfia, scivola –
il peso la assilla, più forte si aggrappa.
Fa male essere smarriti, fa male la paura
e la separazione; fa male sentire che il profondo
ti attira e chiama – eppure
siedi e trema
è duro resistere
e resistere al desiderio di cadere.
Poi, all’acme dell’agonia, quando ogni aiuto è inutile
le gemme dell’albero sbocciano in gloria
poi, quando la paura svanisce
le gocce cadono e diventano luce
si dimenticano che il nuovo le atterriva
si dimenticano che la caduta è un rischio
per un attimo abitano la certezza
riposano nella fede
che ha creato il mondo.
*
È così grande questa quiete, la quiete
di un’assolata foresta in inverno.
Come ha fatto la mia volontà a diventare
così perfetta, così obbediente la mia vita?
Portavo in mano una ciotola di vetro – risuonava.
Il mio piede è diventato cauto – non inciampa più.
La mia mano è precisa – non trema più.
Sono stata travolta dalla violenza delle cose fragili.
*
Preghiera al sole
Non hai pietà perché i tuoi occhi non
conoscono il buio.
Salvami.
Come linee, gli steli dei fiori sono
risucchiati dalle altezze:
tremano, prossimi a te, i loro calici.
Gli alberi si scagliano come pilastri verso la gloria:
stendono le braccia piumate di foglie
assetate di luce, devote.
Hai tratto l’uomo
da una pietra, con ciechi sguardi
l’hai trafitto alla pianta sagomata dai venti.
Tuo è il gambo, tuo lo stelo. Tua la spina dorsale.
Salvami.
Non la vita. Non la pelle.
Un dio non ha potere sulle cose estreme.
Con occhi estinti e arti spezzati
è tuo colui che visse eretto
con colui che eretto muore
tu sei, oscurità che inghiotte oscurità.
Il ruggito si impenna. La notte è nel parto.
La vita brilla, preziosa.
Salva, salva, dio che vede,
ciò che hai donato.
*
Il vagabondo dei deserti
Voi pesate su bilance sbilenche
con pesi penosi misurate
non davanti al qadi che smista
le colpe dei criminali
ma davanti ad Allah, benedetto
il suo nome, il creatore della vita.
Per una piccola perla date mille datteri
ma io che ho sofferto la fame nel deserto
so quanto è inutile una cintura di perle
che non dà nutrimento,
ma io, corroso dalla sabbia,
so quanto è inutile l’elsa di un pugnale
istoriata di gemme
che non sa dissetarmi.
In questa città di minareti, distante dal deserto,
non mi inchinerò davanti ai severi mausolei
e alle porte dorate
ma presso gli umili pozzi, nascosti
dal viavai, dove il pastore porta la mandria
a sera, e semina il latte agli allettati.
*
E io voglio ringraziare, ora, per l’ora della grande umiliazione
per l’ora in cui ci si rivela nudi
senza trama d’orgoglio
e ci si abbandona
come un grano di polvere nel magnanimo bagliore dei mondi –
e scopri che tutto è meraviglia, che la vita è meraviglia
una meraviglia questo mero rifugio e il pane e l’acqua
e più di ogni altra cosa è meravigliosa l’immeritata grazia
la fiducia eternamente riposta in un essere umano.
*
La forma che io sono
La forma che io sono
ma la materia è primordiale fiamma.
Fuoco negli occhi
fiamme le mani.
Nell’ebbrezza creatrice
si annodano lingue di fuoco
fameliche attorno al profilo
del tuo essere.
Diventa mera forma
forma ben temprata
eterea
che galleggia su infuocati mari
miracolo e miraggio
increata e in crescita
– perché questo è un dio –
che ribolle sopra il caos.
Di tutte le cose
il dio è il più transitorio
di tutte le cose
l’adorazione permane.
Ribolli, ribolli
illusione, elisione
tra le fiamme
trovi l’eterno.
*
Bevo il sacrificio
Sul vino grezzo si gettano musi pesanti.
Non è il vino a deformarli tanto.
Il vino libera i pensieri
ma incardina la lingua al palato.
Come segreto bagliore, la pira sacrificale
è grezzo vino rosso.
Soltanto io so per quali
poteri si snoda il fumo.
Soltanto io so quali
mondi mondano la mia ebbrezza.
Ciascuno è fisso altrove
altrove qualcuno respira.
Ciascuno alza i calici verso
cose invisibili agli altri, verso
oscure terre dove gioia e dolore
non hanno alcun senso.
Così, in segreto, alzo il vino
mia fiamma sacrificale
presso un dolore che è soltanto mio
e che paragono all’eterna burrasca in mare.
*
Quegli oscuri angeli maculati di blu
con fiori di fuoco tra i neri capelli
conoscono le risposte a strane domande blasfeme –
forse sanno dove porta il ponte
dalle cave della notte alla luce del giorno –
forse sanno dove si rifugia l’uno
forse nella casa del Padre esiste
un luminoso rifugio che porta il loro nome.
Karin Boye
L'articolo “Non siamo altro che la nostra segreta follia”. Karin Boye, la
poetessa angelica proviene da Pangea.