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“La lingua sami dormiva, bloccata dalla vergogna”. Dialogo con Linnea Axelsson
Nel 1910, a Copenaghen, esce un libro a suo modo decisivo. S’intitola Vita del lappone, lo ha scritto Johan Turi in uno stile, al contempo, crudo e fiabesco, come appena estratto dal fuoco, una specie di nordica Lascuax. Nelle fotografie, Turi ha lo sguardo ad accetta, occhi che contengono boschi. Nato nel 1854, faceva l’allevatore di renne; il suo libro, scritto in lingua sami con la traduzione in danese, fu pubblicato in diverse lingue: in Italia è al 235 della “Biblioteca Adelphi”. Il libro ha una leggiadria adamitica, la prontezza delle cose prime e nude: si parla di bestie, di estati come coltelli, di segni nel suolo e nel cielo e della “pietra del serpente”; le costellazioni si chiamano “Alce”, “Branco di cani” e “Sciatori”; la Via Lattea è la “Scala degli uccelli”.  La data in cui è pubblico il libro è importante: di lì a poco i Sami, etnia indigena del Nord, verranno ripetutamente vessati dalle entità statali, Norvegia, Finlandia, Svezia, a estirpare terre, a sradicare tradizioni. Non a caso, intorno a quella data, nel 1913, attracca Ædnan, il poema epico di Linnea Axelsson, poetessa svedese di origine Sami. Edito nel 2018, Ædnan – che in Sami significa “terra”, “luogo natio” quando non “madre, matria” – racconta, in versi, la saga di una famiglia Sami, tra enormità di panorami, apparizioni di morti, vessazioni, dai primi del Novecento al nostro millennio. Il ritmo imposto dalla Axelsson contrasta con il tambureggiare dell’epica tradizionale: i versi sono brevi, a volte brevissimi; si procede per singulti e apocalissi in palmo di mano; c’è molto bianco intorno, tanto che le parole paiono impronte di renna sulla neve, rivoli di una danza antica e perduta, di uomini-pernice, di uomini-gufo. Un esempio: “Mi addentrai nella palude  dei lamponi gialli – Avanzai finché potei poi mi spogliai sciolsi i nodi dei pantaloni e li riempii di bacche   – Annodai lo scialle con della stoffa e ne feci uno zaino ricolmo di bacche – Una pozza nera si aprì nel muschio l’acqua era fredda meravigliosa per la nuca – Allora spuntò scura nel cielo l’aquila reale l’occhio giallo e nero – Nell’occhio giallo il mondo ebbe un altro riflesso – Dischiuse gli artigli e si gettò su Aslat lasciai le bacche e corsi gridando con le braccia alzate – Vidi l’immenso rapace volare via – Tutto era come sempre ma c’era un’ombra” Tradotto in inglese, da Knopf, nel 2024, Ædnan ha avuto un impatto importante: il libro, tra l’altro, è stato finalista al National Book Award for Translated Literature. Di questo “ambizioso romanzo in versi”, an Arctic epic from Sweden, ha detto il “Guardian”, toccando il punto centrale del testo: “in ogni pagina, distese di spazio bianco, a memoria di una narrazione fatta di assenze, fratture, silenzi, oblio e mutilazione”. Una porzione di Ædnan è stata tradotta da Maria Cristina Lombardi – già traduttrice, tra l’altro, del fenomenale poema epico-cosmico Aniara del Nobel per la letteratura Harry Martinson – nel libro libro collettivo Voci di donne dal Nord, edito da Crocetti (in cui sono sintetizzati, per poesie-totem, i lavori, oltre che di Linnea Axelsson, di Eva Ström e di Ann Jäderlund).  Lei è Linnea Axelsson Ædnan, soprattutto, è il poema di una lingua defunta che risorge rifulgendo (“La lingua sami dormiva/ da tempo nel corpo/ bloccata// dentro/ dalla vergogna…// Come se mai/ noi e i nostri avi/ fossimo esistiti// mai avessimo/ costruito nulla”). Di una lingua dissotterrata, di minime, esigenti tracce nella neve che tornano artigli, il ruggito del profondo Nord. Certo, il poema s’infittisce nella nostalgia: le parole descrivono ma non operano; la danza, non più sciamanica, è sciamannata, dei fasti restano le vestigia, le braci – pigolano gli astri. Su tutto, tuttavia, agisce lo straordinario.  Con l’aiuto della Lombardi, abbiamo contattato Linnea Axelsson, a dare ligneo lignaggio a questa lingua.  Come è nata l’idea di scrivere un poema epico sui Sami? Come ha scelto di strutturare il libro?  Più che un’idea iniziale, sono stati il lavoro e il materiale ad ispirarmi la scrittura di un poema epico sui Sami: la poesia epica è stata una scoperta che poi ho messo in pratica. Credo che un’opera si sviluppi da un’immagine interiore che funge da orientamento verso un certo linguaggio, una data struttura, un mondo che il lettore è chiamato ad immaginarsi. Nel caso di Ædnan, l’immagine, almeno come come la ricordo, era un volto di donna, o meglio, il silenzio nel suo volto. Fu lei che durante la stesura del testo haportato con sé lo spazio (Sápmi, la terra dei Sami), gli eventi e gli altri personaggi. Pian piano l’ampiezza e la natura del materiale – ad esempio, le relazioni interpersonali e lo svolgimento della narrazione nel tempo – iniziarono a suggerirmi che forse il racconto sarebbe stato più adatto alla prosa che alla poesia. Prosa e poesia sono costituite dagli stessi elementi, ma si utilizzano in modi diversi e con enfasi diversa. Non mi pareva giusto scrivere un romanzo, sarebbe stato come assolvere a un compito inesatto. Così, a un certo punto, mi è venuta in mente la tradizione epica, e allora mi sono presa una pausa necessaria. Non nel senso che ho cominciato a leggere i poemi epici antichi; piuttosto, ho iniziato a impostare alcuni principi formali di riferimento. Ho riflettuto a lungo intorno alla tradizione degli joikar sami che sono contemporaneamente canto, tradizione poetica più o meno narrativa, e strumento per ricordare e conservare le memorie. Come è riuscita a trovare il ‘ritmo’ adatto al poema? Intendo dire: nel poema si coagula una lingua arcana, arcaica, ma anche un tono proprio della poesia contemporanea. Mi spieghi il suo processo linguistico.  Trovare il ritmo è stato decisivo ed è parte della forma stessa del poema: versi brevi, scarsità di parole, silenzio. Questo mi ha ispirato un sensazione di ampiezza e di movimento, nello spazio e nel tempo, che tenesse insieme e caratterizzasse la narrazione. Ci è voluto molto a trovare il giusto ritmo: in qualche modo, è scaturito durante la scrittura. Altre volte mi è accaduto di sentire un ritmo senza nessuna parola, che solo dopo è divenuto poesia, ma non è il caso di quest’opera.    Il ritmo è anche legato alla respirazione e allo svolgimento, nel senso che nasce quando una poesia si muove tra qualcosa di quotidiano, che senti sulla pelle, e qualcosa di cosmico, di esistenziale. Produce suono e realismo. Lo stesso svolgimento si rispecchia nella parola: un termine della sfera quotidiana o comunque della contemporaneità si incontra con una parola più solenne, più carica di connotazioni o più antica, riuscendo nella poesia a essere avvertito come semplice e naturale al pari della parola quotidiana. Per molto tempo – oggi non è più così – sono stata attratta dall’arcaismo facile, sia perché amo le profondità e le diverse fasi della lingua, sia perché quello che devo costruire non è documentato, ma vive nella narrazione orale, nelle fiabe, nel mito. In Ædnan ho cercato anche di cogliere un certo suono che credo fosse tra i Sami nell’ambiente in cui sono cresciuta quando si parlava di cose come lo stato e gli svedesi, o come quando si raccontavano aneddoti. Quali sono le fonti di cui si è nutrita? In Italia è abbastanza noto il resoconto di Johan Turi, ma per il resto il popolo dei Sami appare tra le brume della leggenda. Quali sono i miti miliari, decisivi dei Sami? Uso tutto quello che posso: ricordi, cose che ho sentito e ho visto, che ho letto. Più importante di tutto è l’immaginazione, lo spazio per la capacità di rappresentazione che dobbiamo conservare in noi stessi. Non faccio ricerca nel senso giornalistico ma, al contrario, evito di leggere proprio di ciò su cui scrivo. Detto questo, sono sempre stata interessata e ho letto tanto sulla storia e sulla mitologia dei Sami, ma la grande fonte, quando si tratta di questa storia, è fatta di esperienza, cultura e narrazione orale, dunque, dalle conoscenze che si tramandano in famiglia, tra parenti e amici. Molte culture, come quella sami, si scontrano con due fattori essenziali: la propria storia scritta, quando non sia stata resa del tutto invisibile e assimilata, è stata comunque a lungo formulata da qualcun altro, e che ciò che si conserva ci si aspetta sia autentico. Nella mitologia sami ci sono divinità e miti della creazione. In realtà, non so quanto delle fonti scritte sia influenzato e concepito dai colonizzatori che per primi l’hanno scritta e tramandata. Ho riflettuto a lungo e non so se i termini dèi e dèe funzionino veramente. Ad esempio, Sáráhkka[1], non è piuttosto una forza che non una dèa nel senso occidentale del termine? Forza generatrice e maternità sono presenti anche nelle acque di un lago.  Mi sembra che il suo poema epico abbia altresì un ruolo ‘politico’. Quali reazioni ha risvegliato il libro dopo la pubblicazione? Quando Ædnan è uscito in Svezia, credo abbia contribuito ad aprire gli occhi ai lettori svedesi sulla loro storia e sulla situazione coloniale del paese: che la Svezia non è mai stata un paese con un solo popolo. Tra i lettori Sami, se parliamo da un punto di vista storico e politico-sociale, le reazioni sono state ovviamente di altro tipo: riguardando soprattutto aspetti come rappresentazione, riconoscimento, ecc. Io sono un po’ indecisa se considerare il poema politico oppure no. Credo che tutto quel che scrivo abbia in sé un piano politico. Ma sono assolutamente convinta che le eventuali verità sulla nostra vita si possano scoprire solo attraverso l’immaginazione, liberandosi da ogni dovere e impegno, e che qualsiasi riflessione su temi e aspetti politici emerga molto tardi nella stesura di un’opera, se non addirittura mai. Quali sono le letture che la hanno formata, i poeti che può appellare a maestri? Sono molti e diversissimi tra loro. Nils Aslak Valkeapää, Birgitta Trotzig, Robert Musil, Elizabeth Bishop, Ingeborg Bachmann. Mi piace moltissimo leggere testi teatrali: Harold Pinter, Lars Norén, Brian Friel. Qualche volta leggere è quasi come andare dal medico: è qualcosa di molto preciso quello che mi prescrivo.  Oggi, nell’era dell’algocrazia, delle guerre continue e dell’intelligenza artificiale, che senso ha la poesia? Che senso ha l’epica? Mi viene voglia di rispondere che il senso della poesia oggi è lo stesso che è sempre stato. La poesia sembra essere qualcosa cui si ricorre in situazioni terribili. Lo vediamo oggi a Gaza: sia i palestinesi a Gaza che uomini e donne in tutto il resto del mondo scrivono poesia che, in modi diversi, nasce dall’attuale genocidio. Lo abbiamo visto nei campi di concentramento del Terzo Reich, dove gli ebrei scrivevano poesie nonostante rischiassero la vita. È un segno del significato della poesia, ma ilsignificato è difficile da determinare. Per me, come lettrice e poeta, ha a che fare con il lavoro linguistico, con la lingua come essere vivente, con l’immaginazione, l’attenzione e la concentrazione. Ha a che fare con il piacere e la realtà. Cioè, con un aspetto della realtà. È come se poesia, letteratura e arte fossero un fiume che scorre accanto alla vita, dalla stessa sorgente. Sono legate e si rispecchiano a vicenda, ma la letteratura non può essere solo uno specchio, una rielaborazione o un’esplorazione. È costruzione di se stessa. La poesia dovrebbe essere un vortice ben definito, e i vortici portano ossigeno al fiume. Per me, poesia epica non significa che il testo presenti una certa lunghezza, o si espanda in un certo arco temporale o che sia narrativo allo stesso modo di un romanzo. Per me la poesia epica è legata alla memoria e alle storie. Storie che possono conservare il nostro contatto e la conoscenza delle nostre origini, e testimoniare la qualità del nostro rapporto con tutto ciò che vive. (Traduzione di Maria Cristina Lombardi) -------------------------------------------------------------------------------- [1] Dèa dello sciamanesimo, protettrice del parto, venerata nelle regioni abitate dai Sami in Svezia e Novegia. L'articolo “La lingua sami dormiva, bloccata dalla vergogna”. Dialogo con Linnea Axelsson proviene da Pangea.
July 23, 2025 / Pangea
“Non siamo altro che la nostra segreta follia”. Karin Boye, la poetessa angelica
Dunque, è dal termine che bisogna partire: dalla gemma partorita con dolore, dalla goccia che prima di cadere e di mutarsi in folgore, trema, si aggrappa, icona di spina, sventata vampa, al ramo. Così scrive lei, Karin Boye, in una delle poesie più note: ciò che sboccia succede al dolore, ciò che nasce ferisce, il nuovo accade per ventura di inverno in grammatura d’oro. Sembra di auscultare la Decima elegia di Rilke, quella della “felicità ascendente”, della commozione che lascia sgomenti (bestürzt) “quando cade una cosa felice”. In Karin è epidermica la violenza, la screziata grazia della cosa che si spezza – la fiamma prima della felicità, la forza che discende.  Fu pure lei, Karin, goccia che cade, il frutto che, risolto a maturità – cioè: in parentela con il sole, un sole che si può dire Bicorne e Bucefalo –, si apre, nella polpa da leccare, nella pappa leccornia, nel seme da piantare. Purissima gemma, Karin scelse Alingsås, una cittadina di laghi; scelse i sonniferi – cadde. Aveva 41 anni; l’anno, il 1941, è lo stesso – stimmate di santa, mesi in costato, segni di cui fare sudario – in cui muoiono, volontariamente, anche Virginia Woolf e Marina Cvetaeva. Karin optò per aprile, the cruellest month, il mese che “genera/ lillà da terra morta, confondendo/ memoria e desiderio”. Aveva tradotto La terra desolata di Eliot dieci anni prima – anni di esperienze spaesanti, quelle. Il matrimonio con Leif Björk, nel ’29, l’attività totale nel movimento socialista “Clarté”, il viaggio – per certi versi agghiacciante – in Unione Sovietica e quello in Jugoslavia. Nata a Göteborg nell’ottobre del 1900, in famiglia di alti studi – padre ingegnere, madre impegnata nel ‘sociale’ e nello spirituale –, fu segnata da feroce precocità: a nove anni scriveva i primi testi; a diciotto compose per il compleanno del padre un libro di poesie e di leggiadre leggende, illustrandolo; nel 1922 pubblica Moln(“Nuvole”), una raccolta di versi che sanno di fiaba e di petroglifo, un esordio in stile Lascaux – aveva già inciso, a suo modo, la nuova via della lirica svedese. Non difforme dalla poetica di Nelly Sachs, dalla voce di Karin Boye (tradotta in Italia da Daniela Marcheschi; le Poesie di Karin sono in catalogo Le Lettere dal 2018) proviene – ad esempio – la poesia di empia bellezza, la poesia d’empito di Birgitta Trotzig. Fu amica Harry Martinson, che la trasfigurò in Isagel, ‘carattere’ indimenticabile del poema epico-cosmico Aniara.  Leggeva Kipling e Tagore, si interessò al buddismo, studiò il sanscrito, preferì il cristianesimo – maneggiava l’Edda e i miti norreni. A dire di una poetica che assembla la profezia, a dire dello scoperchiare gli altri cosmi, del tenere sul palmo la foglia e la galassia, l’erba e la materia oscura, dell’adesione all’Ade dei poeti ctoni, che confabulano con gli spettri, capaci di estrarre fibule di luce, sfreccianti agnizioni. Certo, è da aggiungere: le depressioni ricorrenti, l’omosessualità celata, il matrimonio fallito, i viaggi in Germania, a Berlino, per frequenti, infeconde sedute psicoanalitiche. Lentamente, Karin Boye si slegò da tutto – da tutti si sentiva annodata. Poetessa tra le più ardite, aderente al linguaggio sabbatico, al linguaggio come sabba, cioè a stanare le forze, Karin deve il successo, per paradosso, a un romanzo, Kallocaina, uscito nel 1940, in cui, dietro al delirio statalista e alla fatidica “droga della verità” sono adombrati i regimi sovietico e nazista. In Italia, il romanzo distopico è tradotto da Iperborea: “Scritto nel 1940, quando era difficile nutrire grandi speranze nell’avvenire, Kallocaina ha in comune con Noi di Zamjatin, Il mondo nuovo di Huxley, 1984 di Orwell l’allucinata visione di una società spersonalizzata, dominata da uno Stato poliziesco che arriva a invadere anche la sfera privata dei cittadini sopprimendo ogni libertà”. Tuttavia, per così dire, Karin aveva “uno Stato poliziesco” dentro di sé. Le fotografie di famiglia sembrano tratte da un film di Ingmar Bergman: sorrisi senza fiordi, orche sotto le bianche vesti e le belle trecce. Fece un viaggio in Grecia che la empì di una luce cerbiatto, di una luce Cerbero. Tutto diventò troppo – troppo tardi, soprattutto. La ragazza non riuscì a spezzarsi, si volse alla morte nel sonno.  Ma va detto del seme, ora. De sju dödssynderna (“I sette peccati capitali”), la raccolta postuma, alterna le visioni di Emanuel Swedenborg alle tenerezze di un cronachista di mondi perduti, desunti da un acquazzone. Letale il poemetto accusatorio che dà titolo al libro:  > “Di generazione in generazione non siamo stati altro che la nostra segreta > follia > il nostro mai-nato. > Oh Dio, quanto sei prossimo a ciò che non esiste. > Occupati di noi. Non possiamo più durare. > Distruggi il male che non ha cura di distruggersi.  > Distruggi il sogno della nostra follia incapace di farsi reale. > Distruggici”.  Qualcuno disse di fenomenali epifanie, di apatie d’acqua, qualcuno credeva bastassero i fiori a imbonirla, imbottita di buoni odori. Ma lei, Karin, sapeva che l’angelo è oscuro, che l’angelo è maculato, che l’angelo può chinarsi nella foga della iena. Chissà – Rilke si sarebbe innamorato di lei. ** Gli dèi I carri degli dèi non scuotono le nubi scivolano silenti come raggi. I passi degli dèi sono difficili da udire come un mormorio nell’erba.  Con cautela segui le loro tracce: profumano di una vicinanza tremenda.  Voleranno, lasciandoti pieno di parole in un mondo vuoto.  * Non nominare Molte cose fanno male e non hanno nome. Taci e accettale. Il molto è segreto, oscuro il pericolo. Sopporta e porta rispetto. Meglio confinarsi nel segreto e non solleticare i semi che crescono. “Dove il pensiero non si avventura Madre di Tutto, guidami, esortami!” È bene ascoltare la voce della Madre –  non ha parole la cura, non ha nomi il cuore.  * Il conforto delle stelle Ho parlato con una stella, la scorsa notte  luce lontana, in inabitati spazi –  “Cosa illumini, strana stella? Ti muovi così grande e luminosa”. La mia pietà l’ha ammutolita poi, con il suo stellato sguardo: “L’eterna notte illumino illumino lo spazio senza vita. La mia luce è fiore che appassisce nello spinato autunno del cielo. Questa luce è tutto ciò  che ho, è il mio solo conforto”.  * Alcuni cuori sono inesauribili tesori. I loro proprietari gettano con generosità, ovunque, i rivoli di quel sole. Con mani tenaci accogliamo il dono, grati. Felicità e salute a te, benedetto, che maneggi l’oro come fosse sabbia! Alcuni cuori sono inabissati fuochi.  Nella più fredda notte un riflesso sulla neve. In quell’incanto, nessuno sopporta il desiderio tranne chi scorge una luce  nella notte e ne vuole la fiamma.  * Certo, è ovvio, fa male quando il germoglio sboccia. Altrimenti, che senso avrebbe la primavera? Altrimenti, perché sedare nella gelida brina quell’ardente desiderio? Il germoglio è stato crisalide lo scorso inverno: una novità che ora si spezza, scoppia.  È ovvio, è certo, ferisce il germoglio che sboccia perché fa male ciò che cresce                   e ciò che serba.  Certo, è ovvio, fa male la goccia che cade. Trema di paura, pende grave al ramo si avvinghia e si gonfia, scivola –  il peso la assilla, più forte si aggrappa. Fa male essere smarriti, fa male la paura e la separazione; fa male sentire che il profondo ti attira e chiama – eppure  siedi e trema è duro resistere          e resistere al desiderio di cadere.  Poi, all’acme dell’agonia, quando ogni aiuto è inutile le gemme dell’albero sbocciano in gloria poi, quando la paura svanisce le gocce cadono e diventano luce si dimenticano che il nuovo le atterriva si dimenticano che la caduta è un rischio per un attimo abitano la certezza riposano nella fede                  che ha creato il mondo.  * È così grande questa quiete, la quiete di un’assolata foresta in inverno. Come ha fatto la mia volontà a diventare così perfetta, così obbediente la mia vita? Portavo in mano una ciotola di vetro – risuonava.  Il mio piede è diventato cauto – non inciampa più.  La mia mano è precisa – non trema più.  Sono stata travolta dalla violenza delle cose fragili. * Preghiera al sole Non hai pietà perché i tuoi occhi non  conoscono il buio.                                   Salvami. Come linee, gli steli dei fiori sono  risucchiati dalle altezze: tremano, prossimi a te, i loro calici. Gli alberi si scagliano come pilastri verso la gloria: stendono le braccia piumate di foglie assetate di luce, devote.  Hai tratto l’uomo da una pietra, con ciechi sguardi l’hai trafitto alla pianta sagomata dai venti. Tuo è il gambo, tuo lo stelo. Tua la spina dorsale.  Salvami.  Non la vita. Non la pelle. Un dio non ha potere sulle cose estreme.  Con occhi estinti e arti spezzati è tuo colui che visse eretto con colui che eretto muore tu sei, oscurità che inghiotte oscurità. Il ruggito si impenna. La notte è nel parto. La vita brilla, preziosa. Salva, salva, dio che vede, ciò che hai donato.  * Il vagabondo dei deserti Voi pesate su bilance sbilenche con pesi penosi misurate non davanti al qadi che smista le colpe dei criminali  ma davanti ad Allah, benedetto il suo nome, il creatore della vita.  Per una piccola perla date mille datteri ma io che ho sofferto la fame nel deserto so quanto è inutile una cintura di perle che non dà nutrimento, ma io, corroso dalla sabbia,  so quanto è inutile l’elsa di un pugnale istoriata di gemme che non sa dissetarmi.  In questa città di minareti, distante dal deserto, non mi inchinerò davanti ai severi mausolei e alle porte dorate ma presso gli umili pozzi, nascosti dal viavai, dove il pastore porta la mandria a sera, e semina il latte agli allettati.  * E io voglio ringraziare, ora, per l’ora della grande umiliazione per l’ora in cui ci si rivela nudi senza trama d’orgoglio e ci si abbandona come un grano di polvere nel magnanimo bagliore dei mondi –  e scopri che tutto è meraviglia, che la vita è meraviglia una meraviglia questo mero rifugio e il pane e l’acqua e più di ogni altra cosa è meravigliosa l’immeritata grazia la fiducia eternamente riposta in un essere umano.  * La forma che io sono La forma che io sono ma la materia è primordiale fiamma. Fuoco negli occhi fiamme le mani. Nell’ebbrezza creatrice si annodano lingue di fuoco fameliche attorno al profilo del tuo essere.  Diventa mera forma forma ben temprata eterea che galleggia su infuocati mari miracolo e miraggio  increata e in crescita – perché questo è un dio –  che ribolle sopra il caos. Di tutte le cose il dio è il più transitorio di tutte le cose l’adorazione permane. Ribolli, ribolli illusione, elisione tra le fiamme  trovi l’eterno. * Bevo il sacrificio Sul vino grezzo si gettano musi pesanti. Non è il vino a deformarli tanto. Il vino libera i pensieri ma incardina la lingua al palato.  Come segreto bagliore, la pira sacrificale è grezzo vino rosso. Soltanto io so per quali poteri si snoda il fumo. Soltanto io so quali   mondi mondano la mia ebbrezza. Ciascuno è fisso altrove altrove qualcuno respira. Ciascuno alza i calici verso cose invisibili agli altri, verso oscure terre dove gioia e dolore non hanno alcun senso.  Così, in segreto, alzo il vino mia fiamma sacrificale presso un dolore che è soltanto mio e che paragono all’eterna burrasca in mare.  * Quegli oscuri angeli maculati di blu con fiori di fuoco tra i neri capelli conoscono le risposte a strane domande blasfeme –  forse sanno dove porta il ponte  dalle cave della notte alla luce del giorno –  forse sanno dove si rifugia l’uno forse nella casa del Padre esiste un luminoso rifugio che porta il loro nome.  Karin Boye L'articolo “Non siamo altro che la nostra segreta follia”. Karin Boye, la poetessa angelica proviene da Pangea.
June 17, 2025 / Pangea