Per comprenderne l’indole, dobbiamo partire dalla fine. Alfred De Vigny – che
una celebre fotografia di Nadar mostra a braccia incrociate, il viso
corrucciato, la giacca ad ampie falde: un pipistrello, insomma – morì nel
settembre del 1863. Soffriva, da tempo, di un cancro allo stomaco; passò gli
ultimi anni a curare la moglie, Lydia Jane Bunbury, di origine inglese,
bellissimo, dicono, ricchissima, sprofondata in una nera demenza. L’amore della
sua vita – ovviamente: tormentato, inquieto, destinato a niente – fu però
l’attrice Marie Dorval, tra le più grandi dell’epoca, pervicace nella posa e nel
capriccio. Da anni alieno ai circoli letterari, per il disgusto verso le mode
imperanti, per una disciplina all’arte della sprezzatura, nel buon ritiro di
Maine-Giraud, un maniero in Charente, Alfred De Vigny, il poeta idolatrato da
Marcel Proust – da ragazzo lo considerava, insieme a Baudelaire, “il più grande
poeta del XIX secolo: anche nelle sue poesie meno note, mantiene una calma,
quell’ineffabile bellezza che ci sfuggono” – morì solo. La biografia redatta
dall’Académie française è spietata per rigore: “Indifferente al pubblico, fu il
vuoto intorno alla sua bara, accompagnata soltanto da qualche romantico della
prima ora”.
Fu eletto al seggio 32 – attualmente occupato da Pascal Ory, vi sedette, tra gli
altri, Alain Robbe-Grillet – nel maggio del 1845, dopo essere stato rifiutato
per sette volte. Gli “accademici” non amavano le sregolatezze dei Romantici;
Vigny rifiutò di presentarsi al cospetto di Luigi Filippo I di Francia. Quando
tentò di far eleggere tra i ranghi dell’Accademia Balzac, gli andò male.
Rampollo di una genia di militari, Alfred de Vigny passò la giovinezza in armi.
Pensava di fare carriera, di mettere alla prova la sua ideale audacia; languì
nella palude di guarnigioni mal assemblate. I fasti napoleonici – esemplificati
nello schietto romanzo di Conrad, I duellanti – erano un ricordo. Ottenne i
gradi, si licenziò capitano; in un ritratto, ragazzo, con la divisa della
“Maison du roi”, ha lo sguardo languido, la bellezza scapigliata, ininterrotta.
Alfred de Vigny (1797-1864) fotografato da Nadar
Dicono fosse incapace di “capire la realtà” – il che, per un poeta, non è poi
grave –, crebbe nel mito di Lord Byron, fece parte del circolo di Victor Hugo.
Tradusse – con spigliata grazia, in versi – Shakespeare, i suoi Poèmes antiques
et modernes (usciti, in edizione definitiva, nel 1829 e aggiornata nel 1841) gli
diedero autorevolezza lirica. I critici dicono che i “poèmes philosophiques”
raccolti come Les Destinées nel 1864, la sua opera definitiva, annunciano le
innovazioni di Stéphane Mallarmé (dei Poemi antichi e moderni e de I
destini esiste una traduzione di Lanfranco Binni, edita da Garzanti nel 1991).
Il capolavoro di Alfred de Vigny resta comunque Chatterton: andata in scena al
Théâtre français il 12 febbraio del 1835 (con l’amata Marie Dorval nei panni di
protagonista femminile), la pièce riscosse un successo assoluto; fu applaudita,
tra gli altri, da George Sand e da Sainte-Beuve. Da quel testo, Leoncavallo
trasse un’opera lirica assai meno fortunata, omonima, andata sul palco del
Teatro Drammatico Nazionale di Roma nel 1896, con scarse repliche.
Alfred de Vigny era ossessionato dalla figura di Thomas Chatterton, l’acerbo,
geniale poeta di Bristol, suicidatosi a poco meno di diciotto anni, nel 1770, a
Londra. Gli pareva, più di ogni altro, prima di tutti, l’emblema del poeta,
eternamente giovane, che si schianta contro l’indifferenza della società
letteraria e “va fino in fondo”. Il poeta che si immola per la poesia, con
disperazione messianica. Thomas Chatterton, amato da Coleridge e da Keats,
sbandierato, via via, come un simbolo, più citato che letto (la sua storia e la
sua opera sono state recepite per la prima volta in Italia di recente, in: T.
Chatterton, Nell’aura del fulmine, Feltrinelli, 2025), sarebbe piaciuto a
Borges: quindicenne, si era corazzato con un alter ego, il monaco Thomas Rowley,
vissuto nel XV secolo, che scriveva odi in un inglese antico di inedito conio,
fitto di indecifrabili invenzioni. L’eterno fanciullo della poesia inglese,
ridotto in miseria, malcompreso (da Horace Walpole, soprattutto, l’autore
del Castello di Otranto, doge dei circoli letterari londinesi del tempo), fu il
primo a scatenarsi contro le viete formalità della cultura – scriveva versi
audaci fino al rebus, pieni di abissi, di ferina ingenuità, che delizieranno
Dylan Thomas.
Già in Stello – romanzo nottambulo del 1832 – Alfred de Vigny si era appellato a
Thomas Chatterton come a uno spettro amico; con Chatterton ideò il più vigoroso
manifesto del romanticismo francese. In particolare, sono le pagine poste a
introdurre la pièce, Dernière nuit de travail, a costituire una sorta di manuale
dell’indole romantica di allora. Alfred de Vigny fa di Chatterton il poeta per
antonomasia, l’ispirato assoluto, che non si piega di fronte alla necessità del
mondo, non scende a compromessi, ed è trattato dagli uomini come uno strano, un
estraneo, un folle. Il testo – qui tradotto, in calce – evita i rischi della
secca retorica perché Vigny è sorretto da un’intuizione sagace: Chatterton non è
colpevole di suicidio, è la società ad averlo costretto a uccidersi. Il poeta è
come lo scorpione rinchiuso per gioco dai bambini in un cerchio di fuoco;
vedendosi perduto, l’artropode rivolge contro di sé il velenoso aculeo e muore,
mentre gli altri, intorno, ridono. L’idea del suicidato dalla società sarà
ripresa con furia da Antonin Artaud parlando di Vincent Van Gogh, un altro
artista messianico. Ci sono artisti la cui scelta si staglia come un’opera con
esiti spesso sfrenati, inattesi.
Di fronte alla morte di un ragazzo – eternata da quadri che ne hanno fatto una
specie di figurina pronta alla lacrima e al solido applauso – bisogna tumularsi
nel silenzio – anzi, nella preghiera. Più che altro, Alfred de Vigny ha
profetizzato la figura del maledetto: a lui Paul Verlaine si riferisce quando,
nel 1884, licenzia il saggio sui Poètes maudits. Thomas Chatterton ha
stigmatizzato i poeti, costringendoli alla sequela estrema, “li condanna
all’eterno esempio di una morte in miseria, abbandono, speranza mutilata”. Tutti
gli altri – chi stringe accordi con il tempo, ‘a fin di bene’, per sopravvivere
– è, in fondo, reo di tradimento, un vile.
A suo modo, Alfred de Vigny si allineò al duro addestramento di Chatterton.
Voltò le spalle alla città, rifiutò di pubblicare, continuando a molare e ad
approfondire l’opera. Vedeva Chatterton ogni giorno, nei brevi boschi che
circondavano la sua villa – era mutato in volpe, diceva.
***
Ultima notte di lavoro. Per Thomas Chatterton
La causa: il perpetuo martirio e la perpetua immolazione del Poeta. La causa: il
diritto che egli ha di vivere. La causa: il pane che gli viene sottratto. La
causa: la morte che è costretto a infliggersi.
Da dove tutto questo? Dal fatto che lodiamo il genio, ma uccidiamo i geniali. Li
uccidiamo negando loro la vita. Potremmo pensare, vista la scarsa importanza con
cui viene trattato, che il Poeta sia cosa comune. Una nazione dovrebbe essere
orgogliosa se avrà due Poeti in dieci secoli. Ci sono Stati che non ne hanno mai
avuto uno. Eppure: perché così tante stelle si estinguono appena cominciano a
brillare?
Perché ignorate cosa sia un Poeta.
Continuerete ancora a non vedere? Per quanto?
Tre tipi umani, che non dobbiamo confondere, agiscono nella società tramite il
pensiero, muovendosi in regioni separate.
L’uomo esperto negli affari della vita, apprezzato dal mondo, si incontra ad
ogni passo. A tutti adatto, a tutto si adatta. Ha una flessibilità e una
disinvoltura che rasentano il prodigio. La sua mente è libera, sempre fresca,
pronta a ogni risposta. Privo di autentiche emozioni, restituisce buone parole a
seconda delle occasioni. Scrive di economia come di letteratura. Pratica l’arte
come la critica, assume per l’una toni alla moda per l’altra la dissertazione
sentenziosa. Sa combinare le parole per creare l’effimero della passione, della
malinconia, dell’erudizione, dell’entusiasmo. È posseduto da fredde
inclinazioni, che intuisce più che comprendere; le respira da lontano, come i
vaghi odori di fiori sconosciuti. Crea il linguaggio dei ‘generi’ come si
forgiano le maschere per i volti. Può scrivere commedie e orazioni funebri,
romanzi e fiabe, epistole e tragedie, poesie e discorsi politici. È l’uomo di
lettere, da sempre amato e compreso, sempre in auge, bene in vista, mai
inviso. Quest’uomo non ha bisogno della nostra pietà.
Sopra di lui, c’è un uomo dalla natura più forte e raffinata. Una profonda e
grave convinzione fonda le sue opere, che riversa su una terra cruda, spesso
ingrata. Ha meditato in solitudine la propria filosofia, la vede al colpo
d’occhio, squadernata, la tiene in mano come una catena: sa che il primo anello
condurrà all’ultimo, sa come ogni anello si colleghi agli altri. La sua memoria
è ricca, quasi infallibile, il giudizio sano, è uno studioso completo, calmo. Il
suo genio è attenzione al massimo grado, buon senso nella più piena espressione.
Il linguaggio è coerente, limpido, franco, grandioso nel portamento, vigoroso
nei tratti. Soprattutto, gli occorrono ordine e chiarezza. L’ardore della lotta
perpetua infiamma la sua vita e i suoi scritti. Il suo cuore racchiude grandi
rivolte e l’ira superba, che lo rode in segreto. Sa seminare a grande profondità
e attendere che l’opera germogli: è spaventoso quando è immobile, in veglia. È
padrone di se stesso e di molte anime, che conduce a Nord e a Sud, a suo
piacere; tiene in mano un polo, e l’opinione che la gente ha di lui lo obbliga a
custodire la propria vita, a mantenere desto il suo amor proprio. È il
vero, grande scrittore.
Non è infelice; ha ciò che desidera; sarà sempre in lotta, ma quando concederà
tregua ai nemici, riceverà degni omaggi. Vincitore o vinto, sarà sempre
incoronato. Non ha bisogno della vostra pietà.
Ma c’è un altro tipo, dalla natura passionale più pura e più rara. La sua opera
proviene da Dio e giunge al mondo a intervalli rari. È un peso per gli altri,
perché appartiene completamente alla stirpe degli ispirati. L’emozione, in lui,
è così intima e profonda che vi si è immerso fin dall’infanzia. L’immaginazione
lo possiede sopra ogni cosa. Al minimo urto, si sbriciola; al minimo respiro,
volta verso mondi sconosciuti. Da allora in poi, smette i rapporti con la
creatura umana. La sua sensibilità è troppo vivida; ferisce fino al sangue; i
suoi eccessivi entusiasmi lo traviano; le sue simpatie sono troppo veraci;
compatisce chi soffre infinitamente meno di lui, muore dei dolori degli altri.
Le resistenze della società umana, il suo disgusto, lo gettano in un profondo
sconforto, in una nera indignazione, in una desolazione insormontabile, perché
tutto comprende, e troppo profondamente. In questo modo, tace, si ripiega su se
stesso, recluso nella sua prigione. Lì si forma qualcosa di simile a un vulcano.
Il fuoco cova lento, la lava è armoniosa. Ma quando esploderà? Si direbbe che
assista come uno straniero a ciò che accade dentro di lui. Cammina come un
malato, non sa dove andare, vaga per giorni. Non ha bisogno di fare nulla,
perché accada la sua arte. Non deve fare nulla, perché gli accordi del mondo si
formano comunque nella sua anima: il roco rumore del lavoro regolare irrompe, li
interrompe. Lui è il poeta. Appena si mostra, è mutilato – tutte le lacrime,
tutta la nostra pietà sia per lui!
La lingua che ha scelto è compresa da un infimo numero di uomini ed è a loro che
egli grida: “Ascoltatemi, fatemi vivere a mio modo!”. Ma molti sono inebriati
dalle proprie opere, altri lo sdegnano perché in quel perenne bambino vogliono
la perfezione dell’uomo maturo; i più sono distratti, indifferenti; tutti sono
impotenti nel bene.
E lui grida ai Poteri: “Ascoltatemi, fate che non muoia!”. Ma i Poteri
proteggono soltanto gli interessi positivi, sono estranei al genio, che li
offende.
Se ne ha la forza, diventerà un soldato, trascorrendo la vita sotto le armi; una
vita attiva, rozza, che ucciderà il suo essere morale. Altrimenti, se ha
costanza, si condannerà alle fatiche del numero, al calcolo che uccide le
illusioni. Se il suo cuore non si impenna con violenza, può piegarsi, molare i
pensieri, smettere il canto. Si farà, allora, uomo di lettere; oppure, se la
filosofia lo sorregge e incoraggia, diventare un grande scrittore; ma a lungo
andare il giudizio soffocherà la visione, schiacciando il poema che aveva in
petto.
In ogni caso, ucciderà una parte di sé, ma per questi suicidi a metà, per queste
immense irragionate rassegnazioni è necessaria una forza rara, nera. Se questa
forza non gli è data, quale strada gli resta da intraprendere? Quella di Thomas
Chatterton: il suicidio radicale.
Dunque, è un criminale! Un criminale davanti a Dio e agli uomini, dacché il
suicidio è un crimine, religioso e sociale. Chi può negarlo? Il dovere e la
ragione lo confermano. Si tratta soltanto di capire se la disperazione non sia
qualcosa di più forte di dovere e ragione. […] La vera disperazione è un potere
che divora, irresistibile, famelico, al di là della ragione, che comincia
annichilendo il pensiero. La disperazione non è un’idea, è una bestia che
tortura, che stringe, schiaccia e lacera il cuore di un uomo, fino a farlo
impazzire.
Ma è lui, il poeta, il vero colpevole o lo è la società, che lo disarma, che lo
bracca senza fine?
C’è un gioco terribile comune ai bambini del Midi. Essi costruiscono un cerchio
con i carboni ardenti; in mezzo, mettono uno scorpione, catturato con le pinze.
All’inizio, lo scorpione resta immobile. Quando il fuoco comincia a bruciarlo,
si agita. I bimbi ridono. La creatura cerca di evadere dalle fiamme, facendosi
strada tra i carboni ardenti; ma il dolore è troppo e si ritira. E ridono. Lo
scorpione cerca un passaggio impossibile, uno spiraglio. Poi ritorna al centro,
in una più oscura quiete. Infine, rivolge il dardo avvelenato contro se stesso e
muore, sul colpo. E ridono – e ridono più forte di prima. È lo scorpione il
colpevole? I bambini sono innocenti e buoni?
Quando un uomo muore nello stesso modo, è davvero un suicida? No. È la società a
gettarlo nel fuoco.
I bei versi, dobbiamo dirlo, sono merce che non piace alla gente comune. La
moltitudine mira a moltiplicare il proprio stipendio; nelle nazioni più nobili,
la massa ama ciò che amano tutti. Soltanto dopo una lenta istruzione e un
continuo addestramento può apprezzare la bellezza; nel frattempo, schiaccia il
talento nascente, il genio sorgivo, senza udire le grida della sua angoscia.
Ho voluto mostrare l’uomo spirituale soffocato dalla società materialista, dove
l’avido calcolo sfrutta senza pietà l’intelligenza e il lavoro. Non voglio
giustificare gli atti disperati degli sventurati ma protestare contro
l’indifferenza che costringe costoro a compierli.
Il Poeta è tutto per me; Chatterton è il nome di un uomo – ho omesso i fatti
esatti della sua esistenza per trarre dal suo destino l’emblema eterno di una
nobile miseria.
Oggi i tuoi compatrioti, caro Chatterton, ti chiamano ‘ragazzo meraviglia’… Eri
infelice – tanto mi basta. Anima desolata, povera anima diciottenne! Perdonami
di aver eretto a simbolo il nome mortale che indossavi su questa terra, per fare
del bene nel tuo nome.
Tra il 29 e il 30 giugno 1834
Alfred de Vigny
*In copertina: Egon Schiele, Bildnis Paris von Gütersloh, 1918
L'articolo Il poeta, “il suicidato dalla società”. Un testo di Alfred de Vigny
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