Charles Wright è uno dei poeti più potenti del pianeta. Oblivion Banjo, uscito
nel 2019, è il suo ultimo libro: un immane repertorio antologico (quasi
ottocento pagine) in cui il poeta orienta la lettura della propria opera. È una
specie di torcia: fuoco che illumina qualcosa – e incenerisce tutto il resto.
L’importanza di Charles Wright – come quella di ogni poeta – si misura non certo
in copie vendute o premi conquistati, ma in ritrosia, in altitudine, nella
capacità di creare un cosmo allo stesso tempo sigillato e disarmato – compiuto.
L’opera di Charles Wright – come quella di ogni grande poeta – si legge come un
unico poema; un poema ipnotico.
Wright comincia a pubblicare negli anni Sessanta, il primo libro esce nel
1970, The Grave of the Right Hand. Agiografia vuole che Wright sia nato poeta
nel 1959, a Sirmione, presso la grotta di Catullo, leggendo Blandula, Tenulla,
Vagula di Ezra Pound. Il poeta lavorava per l’esercito americano, era di stanza
a Verona; compiva ventiquattro anni. L’ultima raccolta di Wright, Caribou, è
uscita nel 2014; il 25 agosto del 2025 il poeta ha compiuto novant’anni. Da
tempo, Wright ha optato per il silenzio: non rilascia interviste, ha una casa
vittoriana a Charlottesville, la moglie, Holly, fa la fotografa; ha chiamato il
figlio Luca, come l’evangelista. Tenta di credere nell’aldilà. Di sera, siede in
giardino – è ancora siderale la sua ispirazione.
Wright è stato “Poet Laureate” degli Stati Uniti dieci anni fa, è stato
finalista diverse volte al “Pulitzer for Poetry” (vincendolo, nel 1998); alcuni
suoi libri – The Southern Cross, 1981; The Other Side of the River,
1984; Chickamauga, 1995; Black Zodiac, 1997, Buffalo Yoga, 2004 – hanno segnato
indelebilmente la poesia contemporanea. Poeta colto come pochi altri, Wright
sembrerebbe essere la quintessenza del poeta nordamericano: Emily Dickinson è la
sua paladina e Walt Whitman il suo profeta; è sintonizzato sui toni lirici di
Wallace Stevens e di Robert Frost; ama Hart Crane. Nel suo pantheon, spiccano
George Herbert e Gerard Manley Hopkins; non smette di ricordare – dobbiamo
ricordarcelo di continuo – l’importanza del “Book of Common Prayer” per la
poesia anglofona (che è sempre ‘liturgica’, procede per innologie). Ha tradotto
Eugenio Montale e Dino Campana, legge di continuo Dante – forse per questo la
poesia di Wright è ‘passata’ con agio in Italia, pubblicata da Jaca Book
(Crepuscolo americano), da Crocetti (il formidabile Breve storia dell’ombra), da
Donzelli (Italia). L’immane poema Littlefoot (Crocetti, 2023) è uscito in
origine nel 2007; Antonella Francini è la devota traduttrice di Wright nel
nostro paese.
A differenza di altri grandi poeti statunitensi – esempi sparsi: John Ashbery,
Mark Strand, Charles Simic, Robert Pinsky –, eccellenti in stile, Charles Wright
tenta di portarci altrove, di mettere tenda nell’antinferno, di scardinare le
cifre del mistero, di slegare la tela di ragno dei fenomeni, la museruola ordita
da dio.
A mio giudizio, l’unico autore a cui Charles Wright può essere paragonato è
Cormac McCarthy. Quasi coscritti – McCarthy, classe 1933, è più grande di due
anni – sono cresciuti entrambi in Tennessee: i genitori lavoravano per la
“Tennessee Valley Authority”; il padre di McCarthy come avvocato, quello di
Wright come ingegnere. Forse si conoscevano. In entrambi, la fama – o meglio,
l’autorevolezza letteraria – ha agito amplificando l’indole all’isolamento, a
una scrittura come ‘pratica’, per cui pubblicare è esito meditato a lungo, mai
immediato – ci si immedesima nella roccia e nel puma, nella radice e nel vento.
Il più, sempre, è sapere cosa tenere nei cassetti, cosa lasciare per i pochi a
cui consegnarsi, a cui confidare un credito, un dono. Per entrambi, la
letteratura non è la vita, ma la ‘via’: i libri di Wright e di McCarthy non si
esauriscono alla lettura, impongono una scelta spirituale, una preferenza. Li
conserveremo per sempre.
Cormac McCarthy amava i lupi – chi non ricorda la fantomatica lupa di Oltre il
confine? – ma il suo animale-totem era il cavallo, la bestia cosmica dei Veda,
l’antichissimo innario indiano; Charles Wright ama i cavalli, ma il suo
animale-totem – come racconta nel dialogo intrattenuto con “Image”, a cura di
Lisa Russ Spaar, calcato, in parte, in calce – è l’orso. North American Bear è
il titolo di una sua raccolta del 1999; alcune lasse del poemetto omonimo (nella
versione della Francini) recitano così:
“Casuale geometria delle stelle,
casuali
stringhe di parole
belle come l’alfabeto.
O così le ricordo,
Orsa nordamericana,
Orione, Cassiopea e le Pleiadi
che cuciono la loro sintassi sul cielo profondo del North Carolina
mezzo secolo fa,
la lingua perduta di notti estive, la pergamena muta del tempo,
trafitta sul suo scuro
cilindro celestiale.
___________________________
Cosa c’è per noi d’imperturbabile nelle stelle?
Quale
impulso, quale bassa marea
ci attrae lassù come vertigine, quale
inversione di quota ci spinge verso i loro abissi chiari?
Stanotte, per esempio,
qualcosa ruota dentro i miei occhi,
qualcosa d’illacrimato, qualcosa d’innominabile,
filando veloce la sua tela.
Chi dirà che il cuore dirottato non è tornato alla sua gabbia?
Chi dirà che il respiro d’un angelo non m’ha
sfiorato
l’orecchio?”
Poeta coltissimo – dicevo – Charles Wright ha letto facendo falò. Si legge per
esacerbare la ferita, per lacerare l’acerbo essere e arrivare a quel luogo che
nessuno ha detto, per circoscriverlo con verbi-mirtilli, con verbi-ortica, senza
alcuna cautela. Come un fico cresce in una chiesa sfondata da una bomba, a
nirvana del gufo reale. Si legge per esaurire; si impara per dimenticare. Poi,
dal pentametro giambico si passa all’artigliata. Questa è la poesia come
‘pratica’: ci si impratichisce, ci si perfeziona, perché abbia spazio il
perfetto, ciò che non è perfettibile, ciò che supera il concetto, la
riflessione, il riflesso culturale. Al pentametro giambico segue l’assalto
dell’assoluto.
Per capire Charles Wright, forse, è più utile leggere L’orso, supremo racconto
di William Faulkner, che minuziosi, smaliziati referti critici. Charles Wright
ha detto di aver ‘incontrato’ l’orso a undici anni; una leggenda degli indiani
Montagnais-Naskapi narra di un orso che “trovò un bambino e lo tenne come un
figlio per diversi anni” (in: Riti e misteri degli Indiani d’America, a cura di
E. Comba, Utet, 2003). Quando il padre del bimbo andò a cercarlo, l’orso operò
magie: si distese sul cielo, evocando tempesta. Nulla da fare. Il canto
dell’uomo – dacché un orso si fa incantare dal canto – riuscì a vincere l’orso,
che affidò al bambino una delle sue zampe. Crescendo, il bambino allevato
dall’orso diventò “un cacciatore di orsi straordinariamente abile”. Per
tradizione, soltanto le donne sposate dei Montagnas-Naskapi possono scuoiare un
orso, “le giovani donne non sposate si coprono il volto”. Le donne sono gelose
dell’abilità di quel ragazzo nell’uccidere gli orsi – un’abilità virginea, da
creatura di altri mondi. Abilità sciamanica, altra dalla copula e dal rito
filiale. Quando una di queste donne scopre la magia del ragazzo, riposta nella
zampa dell’orso, egli scompare, “senza lasciare alcuna traccia – si disse che
era diventato un orso”. Chi ha capacità nell’irretire il mito, scorgerà
brandelli di Orione e di Atteone in tale dire.
In questa leggenda ci sono diversi elementi che riguardano la poesia di Charles
Wright. Il linguaggio che tiene insieme uomini e bestie (ma anche alberi e
stelle); la potenza del canto; il patto concluso con le forze del mondo; la
dedizione al compito; la sparizione. C’è la caccia – e dunque il sangue: ciò che
il poeta elargisce perché ne beva il lettore, famelico. Il poeta non si augura
altro: esumare la tua esanime anima.
***
In cosa credo. “Credo nel mistero delle cose. Credo che il compito del poeta sia
ingabbiare quel mistero. Non credo che occorra far fruttare il mistero, ma
circoscriverlo: fissarlo, ascoltarlo, capire se ti parla – cosa che, di norma,
non accade.
Credo nella musica. Credo nell’amore”.
La lotta incessante. “Nella religione, da un lato ci sono le chiese-supermarket,
che propongono un modo per stare bene, per sentirsi appagati – dall’altra, la
dura, incessante lotta che comporta il confronto con Dio. In poesia è lo stesso:
da un lato c’è la poesia light. Sappiamo cos’è: non chiede troppa fatica.
Dall’altra, ci sono i poeti della lotta: John Donne, Gerard Manley Hopkins,
Emily Dickinson. Poeti che si donano ma che non regalano nulla. Che pongono
limiti da oltrepassare”.
Il giardino interiore. “Una volta, quando ero nel pieno della vita, la magia
vibrava ovunque. Guardavo le cose, cominciavo a scrivere. Ora, guardo il mio
giardino. Ne ho bisogno perché la mia immaginazione non sgorga da sola. Ho
bisogno di guardare qualcosa per metterla in moto. Così, verso le nove di sera
mi siedo in giardino e lui irradia il mio giardino interiore”.
Emily Dickinson sulla ‘Whitman Road’. “Emily Dickinson aveva l’immaginazione di
una alienata, era un’aliena. Era ultraterrena. Ho sempre cercato di giungere a
quello stadio ultraterreno. Pur non avendo direttamente influenzato il mio
stile, la Dickinson è una delle mie eroine – sono ispirato dalla sua natura
ultraterrena. Ho cercato di scrivere con l’intensità della Dickinson, ma… volevo
uscire di casa! Così, nelle poesie più lunghe penso a Walt Whitman, in quelle
più brevi vivo come Emily. O meglio: cerco di essere Emily Dickinson sulla
‘Whitman Road’”.
Non sono un poeta. “Non mi piace definirmi poeta. Non credo in chi si dichiara
poeta. Robert Frost ha detto che sono gli altri, eventualmente, a dirti poeta.
Ho una forte tendenza al religioso, alla ricerca spirituale, ma non sono un
poeta religioso. È vero, mi hanno incluso in diverse antologie di poesia
religiosa: che sia utile alla fine del mio viaggio?”.
Un lignaggio: da Virgilio alla Bibbia. “La mia tradizione proviene dal ritmo
biblico, da quel linguaggio, in particolare dalla King James Bible. Sono
cresciuto come cristiano e amo quella meravigliosa favola; da adulto, sono stato
attratto dal Buddismo. Sento il desiderio di andare oltre le angosce e le
angustie di gran parte del cristianesimo. Eppure, angoscia e tormento possono
essere fonte di grande poesia. Penso alla traduzione del sesto libro dell’Eneide
di Seamus Heaney. Che testo memorabile: è precristiano eppure prevede Dante. Non
c’è da stupirsi che Dante scelga Virgilio come guida nel suo viaggio. Così si
fonda un lignaggio, un albero genealogico. Non voglio rinunciare alle cose del
mondo, non voglio rinunciare alla King James né al Book of Common Prayer. Quando
morirò voglio che mi sia letto il rito per la sepoltura dei morti (Rite One for
the Burial of the Dead)”.
Non mi convertirò. “Amo l’Apocalisse e il libro di Giobbe, ma è il Book of
Common Prayer di Cranmer a echeggiare ancora nella mia testa. Dai sei ai sedici
anni è stato il centro di tutto. A sedici anni ho fatto ingresso in una chiesa
episcopale. In me risuonano ancora i gesti e i ritmi di quella educazione
cristiana, episcopale. Insieme alla musica gospel del Sud. Ho consegnato tutto
questo a mio figlio, che è un vero credente, un teologo. Quanto a me, non credo
che mi convertirò in punto di morte. Ma non si sa mai”.
Amore, amore. “In realtà, tutte le mie poesie sono poesie d’amore. E sono
preghiere. C’è un meraviglioso passaggio nei drafts and fragments di Pound,
quando parla di Olga Rudge, la violinista con cui viveva:
> ______ma bellezza non è follia
> benché errori e naufragi mi accerchino.
> E io non sono un semidio
> non riesco a fare ordine.
> Se amore non è in casa, è il nulla.
Amo molto la poesia di George Herbert, Love III, con quell’attacco superbo:
‘L’amore mi dà il benvenuto, ma l’anima è refrattaria/ colpevole di polvere,
intrisa di peccato…’
E poi c’è Emily Dickinson. Non so a chi siano rivolte, ma le sue sono tutte
poesie d’amore – e preghiere”.
Il mio piatto preferito. “Amo il pesce e le quaglie. Tra le verdure, preferisco
gli asparagi. Non voglio dolci. Passiamo subito alla grappa”.
Illuminati. “Aspiro all’illuminazione. Come il Buddha. ‘Ricordami come uno che
si è risvegliato’, dice il Buddha. Ecco. È tutto. Sono attratto da quel vuoto
che non saprò mai raggiungere, che apre alle cose autentiche e non alle
cianfrusaglie di questo mondo. Ho trovato diverse vie di accesso al mistero
attraverso il Cristianesimo, poi mi ha affascinato il Buddismo. Qualcosa nel
Nirvana e nella via negativa mi stimola come poeta: riempio il pozzo
svuotandolo”.
Il sonnambulo e l’orso. “Da ragazzino ero sonnambulo. Mi svegliavo, correvo
all’altro lato della stanza, verso il letto di mio fratello. A undici o dodici
anni ero in campeggio, in Carolina del Nord. Sono uscito dal sacco a pelo, ho
iniziato ad allontanarmi dalle tende, lungo il sentiero. Stavo camminando verso
un dirupo, una specie di scogliera, sul limite del bosco, ma non lo sapevo. Poi
ho sbattuto contro qualcosa, mi pareva un orso. Sono convinto che un orso mi
abbia impedito di cadere nel dirupo. Ad ogni modo, mi sono voltato e sono
tornato nel mio sacco a pelo. L’orso è il mio animale totem dall’età di undici
anni. Ho sempre indossato come fibbia per la cintura l’artiglio di orso. Si è
rotto, poco tempo fa: ora, come farò?”.
Trinità. “Inferno, Purgatorio, Paradiso. Tutto per me si esprime in carattere
trinitario, in trinità. In poesia: poeta, lettore, poesia. Oppure: poeta,
soggetto, ispirazione. Una volta ero a cena con mia moglie e un amico; lui aveva
ordinato un secondo Martini. La cameriera disse qualcosa del tipo: ‘I Martini
sono come i seni di una donna: uno non basta, tre sono troppi’. Per quel che mi
riguarda è proprio quel ‘troppo’, ciò che fa instabile l’equilibrio, a rendere
le cose interessanti: ti obbliga a ritornare indietro, a tentare di capire”.
Preferisco arrendermi. “Non voglio ripetermi. Non so se scriverò ancora.
Nell’estate di qualche anno fa ho scarabocchiato alcuni testi: così brutti che
mi sono rifiutato di batterli a macchina. Ho alcune poesie, ma mi rifiuto di
pubblicarle, le tengo per me. Forse è davvero questa la poesia: una tratta tra
fede e mistero. Forse la diga si scioglierà, si spaccherà. Ma non credo.
Preferisco arrendermi”.
Charles Wright
L'articolo “Amo l’Apocalisse, aspiro all’illuminazione”. Per Charles Wright
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