Non è difficile capire perché Octavio Paz, tra i più grandi poeti del secolo
scorso, sia sostanzialmente negletto dall’editoria italiana, un paria. Paz è tra
i rari poeti che ci costringe a entrare in combutta con il linguaggio: non
soddisfa il nostro anelito al ‘poetico’, confida nella poesia come ‘nuovo mondo’
del verbo, viaggio per enigmi in una specie di hic sunt leones della parola. Per
fare un esempio tratto dal campo delle arti figurative, Paz scrive tentando una
lingua inaudita, che dica l’oggi, come hanno fatto Chagall e Mark Rothko, Paul
Klee e Francis Bacon. Comunque, è sempre, per selve ignote, la gran caccia del
sacro.
Cosa sia questo oggi, Paz lo ha spiegato nel discorso di accettazione del Nobel
per la letteratura, conferitogli nel 1990, intitolato, non a caso, La búsqueda
del presente.
> “L’oggi non è che la più antica antichità; è il domani e l’inizio del mondo;
> ha mille anni ed è neonato. Parla in Nahuatl [la lingua degli Aztechi, ndt],
> compone ideogrammi cinesi nel IX secolo, compare su uno schermo televisivo.
> Questo presente improvvisamente intatto, dissotterrato da poco, si scrolla di
> dosso la polvere dei secoli, sorride e inizia a volare, scomparendo dalla
> finestra”.
Nel 1990 Octavio Paz compiva 76 anni – era nato il 31 di marzo, a Città del
Messico –; sarebbe morto otto anni dopo. Che invidiabile ampiezza di sguardo,
che potente ‘leggerezza’. Tra le tante cose, era stato ambasciatore del Messico
in Giappone – nel 1952 – e in India – negli anni Sessanta. Aveva scritto, molti
anni prima, opere primordiali e ‘seminali’, d’obbligo per chiunque si accinga
alla poesia (Piedra del sol, Salamandra, Blanco). Le sue idee
sull’oggi sarebbero condivise da Ezra Pound e da André Malraux, che aveva
incontrato nel 1937, a Valencia, durante il “II Congreso Internacional de
Escritores para la Defensa de la Cultura”, gran consesso a cui accorsero, tra i
troppi, Stephen Spender, Antonio Machado, Tristan Tzara e María Zambrano.
Intellettuale máximo, “tra i maggiori dell’America latina” (così la notizia
Treccani), Paz ha scritto di Suor Juana de la Cruz come di Marcel Duchamp; in
Italia sono editi da Se i suoi saggi sull’India, su Chuang-tzu e su “Amore ed
erotismo” (La duplice fiamma); in molti citano Il labirinto della solitudine, da
tempo si parla di un ‘Meridiano’ in suo onore, di fatto le poesie – raccolte da
Mondadori come Vento cardinale, ristampate per anni – sono scomparse dagli
scaffali. Inutile lamentarsi allora se “una delle opere più importanti di
Paz”, El Mono Gramático, “vertiginosa indagine sul senso del linguaggio e le sue
relazioni con la realtà fenomenica, sulle segrete corrispondenze tra idea e
verbo, parola e percezione, erotismo e conoscenza” (così la quarta di una delle
ultime ristampe, nel mondo ispanico), sia per lo più sconosciuta. Si tratta, in
effetti, di un micidiale poema in prosa, uscito in origine nel 1974, in cui Paz
ridiscute i fondamentali del verbo, le fondamenta del linguaggio. Cosa sono le
parole? Scatole vuote o bestie da allevamento? Animali che ci danno il latte o
predatori che attaccano gli accampamenti della mente? Che cos’è la grammatica?
Una gabbia che impedisce al linguaggio di dilagare, secondo selvaggia etica? Se
il linguaggio coincide con la ‘caduta’, con il distacco dell’uomo dalla
‘natura’, qual è il compito del poeta? Ridurlo a innocenza, forse, eleggerlo in
ferocia… Di certo, i nomi non servono per impossessarsi delle cose ma per
sprigionarle, per liberarne i remoti significati.
Come sempre, Paz precipita nell’agonia del verbo rinverdendo antichi miti
induisti con le tavole di Delacroix, mescola il buddismo tantrico alle tavole di
Richard Dadd alla musica dodecafonica. Insomma: il testo è fiero – cioè arduo,
imperiale per stile, impervio.
Basta così – il tema è, come si dice, decisivo. Ancor più in un oggi di
assordante cecità, un oggi del linguaggio coercitivo, che tramite il linguaggio
opera i più sottili crimini. Sempre il linguaggio si ritorce contro chi crede di
dominarlo.
Per dire dell’importanza di El mono gramático si è scelto di tradurre, oltre a
una selezione dal libro di Paz, in calce, un saggio uscito su “Letras Libres” a
firma del poeta messicano Adolfo Castañón, a ragione di una sorta di ‘consegna’,
di viatico. Fino all’adozione nel silenzio, sul corpo morto – e sempre vivo –
del verbo.
***
Da La scimmia grammatica
6
Macchie: erbacce: cancellature. Fregi. Imprigionato tra le righe, le liane delle
lettere. Soffocato dai tratti, dai lacci delle vocali. Morso, picchiettato dalle
tenaglie, dagli arpioni delle consonanti. Erbacce di segni: negazione dei segni.
Gesticolazione stupida, cerimonia grottesca. La pletora finisce con
l’estinzione: i segni mangiano i segni. Le erbacce diventano deserto, il baccano
diventa silenzio: arenili di lettere. Alfabeti marci, scritture bruciate,
detriti verbali. Ceneri. Lingue nascenti, larve, feti, aborti. Erbacce:
brulichio omicida: terra desolata. Ripetizioni, perduto tra le ripetizioni, sei
una ripetizione tra ripetizioni. Artista delle ripetizioni, gran maestro delle
deturpazioni, artista delle demolizioni. Gli alberi ripetono gli alberi, le
sabbie ripetono le sabbie, la giungla di lettere è una ripetizione, l’arenale è
una ripetizione, la pletora è il vuoto, il vuoto è la pletora, io ripeto le
ripetizioni, perso nel sottobosco di segni, vagando nell’arenale senza segni,
macchie sul muro sotto questo sole di Galta, macchie su questo pomeriggio di
Cambridge, sottobosco e arenale, macchie sulla mia fronte che congrega e
disintegra paesaggi incerti. Sei (sono) è una ripetizione tra le ripetizioni. È,
sei, sono: sei, è, sono. Demolizioni: mi sdraio sui miei sgretolamenti, abito le
mie demolizioni.
*
9
Frasi che sono liane che sono macchie umide che sono ombre proiettate dal fuoco
in una stanza non descritta che sono la massa scura del boschetto di faggi e
pioppi sferzata dal vento a circa trecento metri dalla mia finestra che sono
dimostrazioni di luci e ombre su una realtà vegetale all’ora del tramonto
attraverso le quali il tempo, in un’allegoria di se stesso, ci impartisce
lezioni di saggezza tanto presto formulate quanto distrutte dal minimo
sfarfallio di luce o ombra che non sono altro che il tempo nelle sue
incarnazioni e disincarnazioni che sono le frasi che scrivo su questo foglio e
che scompaiono mentre le leggo:
non sono le sensazioni, le percezioni, le immaginazioni e i pensieri che si
accendono e si spengono qui, ora, mentre scrivo o leggo ciò che scrivo:
non sono ciò che vedo o ciò che ho visto, sono il rovescio di ciò che si è visto
e della vista – ma non sono l’invisibile: sono il residuo non detto,
non sono l’altra faccia della realtà, ma l’altra faccia del linguaggio, quella
che rimane sulla punta della lingua e che svanisce prima di poter essere detta,
l’altra faccia che non può essere nominata perché è il contrario del nome:
il non detto non è questo o quello che tacciamo, non è né-questo-né-quello: non
è l’albero che dico di vedere, ma la sensazione che provo quando sento di
vederlo nel momento in cui sto per dire di vederlo, una congregazione
intangibile ma reale di vibrazioni e suoni e sensi che, combinati, configurano
il disegno di una presenza
verde-bronzea-nera-legnosa-frondosa-sonora-silenziosa;
no, non è neanche questo, se non è un nome non può essere nemmeno la descrizione
di un nome né la descrizione della sensazione del nome né il nome della
sensazione:
l’albero non è il nome albero, nemmeno è la sensazione di un albero: è la
sensazione di una percezione di un albero che si dissipa nel momento stesso
della percezione della sensazione di un albero;
i nomi, lo sappiamo già, sono vuoti, ma quello che non sapevamo o, se lo
sapevamo, lo avevamo dimenticato, è che le sensazioni sono percezioni di
sensazioni che si dissipano, sensazioni che si dissipano essendo percezioni,
perché se non fossero percezioni, come faremmo a sapere che sono sensazioni?
le sensazioni che non sono percezioni non sono sensazioni, le percezioni che non
sono nomi; cosa sono?
se non lo sapevi, ora lo sai: tutto è vuoto;
e appena dico che tutto-è-vuoto, sento di cadere nella trappola: se tutto è
vuoto, è vuoto anche il tutto-è-vuoto;
no, è pieno e strapieno, tutto-è-vuoto è gonfio di sé, ciò che tocchiamo e
vediamo e sentiamo e gustiamo e odoriamo e pensiamo, le realtà che inventiamo e
le realtà che ci toccano, ci guardano, ci ascoltano e ci inventano, tutto ciò
che intrecciamo e disintrecciamo e ci intreccia e ci disintreccia, apparizioni e
sparizioni istantanee, ognuna distinta e unica, è sempre la stessa realtà colma,
sempre lo stesso tessuto che si tesse disfacendosi: anche il vuoto e la
privazione sono essi stessi pienezza (forse sono l’apice, il culmine e la calma
della pienezza), tutto è pieno fino all’orlo, tutto è reale, tutte quelle realtà
inventate e tutte quelle invenzioni tanto reali, tutti e tutte, sono piene di
sé, gonfi della propria realtà;
e appena lo dico, si svuotano: le cose si svuotano e i nomi si riempiono, non
sono più vuoti, i nomi sono pletorici, sono donatori, sono colmi di sangue, di
latte, di sperma, di linfa, sono gonfi di minuti, di ore, di secoli, pregni di
sensi e di significati e di segnali, sono i segni dell’intelligenza che il tempo
fa per sé, i nomi succhiano il midollo delle cose, le cose muoiono su questa
pagina ma i nomi prosperano e si moltiplicano, le cose muoiono perché i nomi
vivano:
tra le mie labbra l’albero scompare mentre lo nomino e nello svanire appare:
guardalo, turbine di foglie e radici e rami e tronco in mezzo alla burrasca,
flusso di realtà frondosa sonora verde bronzo qui sulla pagina:
guardalo là, sull’eminenza del terreno, guardalo: opaco tra la massa opaca degli
alberi, guardalo irreale nella sua cruda e muta realtà, guardalo il non detto:
la realtà al di là del linguaggio non è del tutto realtà, la realtà che non
parla né dice non è realtà;
e appena lo nomino, appena scrivo con tutte le sue lettere che non è la realtà
nuda di nomi, i nomi evaporano, sono aria, sono un suono incastonato in un altro
suono e in un altro ancora, un mormorio, una debole cascata di significati che
si annullano a vicenda:
l’albero che nomino non è l’albero che vedo, albero non dice albero, l’albero è
al di là del suo nome, realtà frondosa e legnosa: impenetrabile, intoccabile,
realtà al di là dei segni, immersa in se stessa, piantata nella propria realtà:
posso toccarla ma non posso nominarla, posso incendiarla ma se la nomino la
dissipo:
l’albero che c’è là tra gli alberi non è l’albero che nomino ma una realtà che è
al di là dei nomi, al di là della parola realtà, è la realtà così com’è,
l’abolizione delle differenze e l’abolizione anche delle somiglianze;
l’albero che nomino non è l’albero, e l’altro, quello che non dico e che è lì,
dietro la mia finestra, con il tronco già nero e il fogliame ancora infiammato
dal sole del tramonto, non è nemmeno l’albero, ma la realtà inaccessibile in cui
è piantato:
tra l’uno e l’altro si erge l’unico albero della sensazione che è la percezione
della sensazione di un albero che si dissipa, ma
chi percepisce, chi sente, chi si dissipa mentre le sensazioni e le percezioni
si dissipano?
in questo momento i miei occhi, leggendo questo che sto scrivendo con una certa
fretta di arrivare alla fine (quale fine?) senza dovermi alzare per accendere la
luce, approfittando ancora del sole calante che si infila tra i rami e le foglie
del massiccio di faggi piantati su una leggera eminenza
(si potrebbe dire che è il pube del terreno, quindi è femminile il paesaggio tra
le cupole dei piccoli osservatori astronomici e l’ondulato campo sportivo del
College,
si potrebbe dire che è il pube di Splendore che si illumina e si adombra,
farfalla doppia, mentre si muovono le fiamme del camino, mentre crescono e
diminuiscono le onde della notte),
in questo momento i miei occhi, leggendo ciò che sto scrivendo, inventano la
realtà di chi scrive questa lunga frase, ma non inventano me, bensì una figura
del linguaggio: lo scrittore, una realtà che non coincide con la mia realtà, se
ho una realtà da chiamare mia;
no, nessuna realtà è mia, nessuna mi (ci) appartiene, tutti viviamo altrove, al
di là di dove siamo, tutti siamo una realtà diversa dalla parola io o dalla
parola noi,
la nostra realtà più intima è fuori di noi e non è nostra, non è nemmeno una ma
plurale, plurale e istantanea, noi siamo quella pluralità che si disperde, l’io
è reale forse, ma l’io non è io né tu né lui, l’io non è mio né è tuo,
è uno stato, un battito di ciglia, è la percezione di una sensazione che si
disperde, ma chi o cosa percepisce, chi sente?
gli occhi che guardano ciò che scrivo sono gli stessi occhi che dico di guardare
ciò che scrivo?
andiamo avanti e indietro tra la parola che si estingue quando viene pronunciata
e la sensazione che si dissipa nella percezione – anche se non sappiamo chi è
che pronuncia la parola e chi è che percepisce, anche se sappiamo che chi
percepisce qualcosa che si dissipa si dissipa anche in quella percezione: è solo
la percezione della propria estinzione,
andiamo e veniamo: la realtà al di là dei nomi non è abitabile e la realtà dei
nomi è un perpetuo sgretolamento, non c’è nulla di solido nell’universo, in
tutto il dizionario non c’è una sola parola su cui poggiare la testa, tutto è un
continuo andare e venire dalle cose ai nomi alle cose,
no, dico che vado avanti e indietro all’infinito ma non mi sono mosso, come non
si è mosso l’albero da quando ho iniziato a scrivere,
ancora le espressioni imprecise: ho cominciato, scrivo, chi scrive questo che
leggo?, la domanda è reversibile: cosa leggo quando scrivo: chi scrive questo
che leggo?
la risposta è reversibile, le frasi alla fine sono l’inverso delle frasi
dell’inizio ed entrambe sono le stesse frasi
che sono liane che sono macchie di umidità su un muro immaginario di una casa
distrutta a Galta che sono le ombre proiettate dal fuoco di un camino acceso da
due amanti che sono il catalogo di un giardino botanico tropicale che sono
l’allegoria di un capitolo di un poema epico che sono la massa agitata del
boschetto di faggi dietro la mia finestra mentre il vento eccetera lezioni
eccetera distrutte eccetera il tempo stesso eccetera,
le frasi che scrivo su questo foglio sono le sensazioni, le percezioni, le
immaginazioni, eccetera, che si accendono e si spengono qui, davanti ai miei
occhi, il residuo verbale:
l’unica cosa che rimane delle realtà sentite, immaginate, pensate, percepite e
dissipate, l’unica realtà lasciata da queste realtà evaporate e che, pur essendo
solo una combinazione di segni, non è meno reale di loro:
i segni non sono le presenze ma configurano un’altra presenza, le frasi si
allineano una dopo l’altra sulla pagina e nel loro svolgersi aprono un percorso
verso una fine provvisoriamente definitiva,
le frasi configurano una presenza che si dissipa, sono la configurazione
dell’abolizione della presenza,
sì, è come se tutte queste presenze intrecciate dalle configurazioni dei segni
cercassero la loro abolizione per far apparire quegli alberi inaccessibili,
immersi in se stessi, non detti, che si trovano oltre la fine di questa frase,
dall’altra parte, dove certi occhi leggono ciò che scrivo e, leggendolo, lo
dissipano.
Octavio Paz
1974
**
La scimmia grammatica: vetta e testamento
Ne La scimmia grammatica Octavio Paz lascia che i suoi sensi felini giochino e
corrano liberi, pur rimanendo fedele alla costellazione delle sue ossessioni. Le
ventinove stanze che compongono il libro sembrano scritte come variazioni di una
manciata di frasi insistenti. Il libro dà l’impressione di essere stato
trascritto dopo un’esperienza singolare in cui la scrittura, la flora, la
meteorologia, il mondo interiore e lo spazio esterno sembrano uniti da una rete
sottostante di eccetera… Al centro di questa foresta di segni si apre una radura
e al centro della radura vibra un’incessante domanda sul nominare, sulla
possibilità di dire, le domande perennemente poste, evolute e in sospeso,
fremono come foglie che pendono dagli alberi: sono le domande che lo stesso
Buddha evita di rispondere e che alimentano o delimitano il bordo di questo
cratere testuale che è La scimmia grammatica. In esso è disegnata la figura di
un poeta il cui canto è costituito dalle domande e la cui casa è costituita
dalle parole che inventano lui e il suo doppio Splendore, che è anche un
personaggio di Valmiki.
Il poeta dice di aver fatto di Hanuman, la “scimmia grammatica”, una delle sue
figure tutelari: “in tutto il dizionario non c’è una sola parola su cui poggiare
la testa, tutto è un continuo andare e venire dalle cose ai nomi alle cose”. Da
qui l’importanza di stabilire un “catalogo di un giardino tropicale” come quello
che questo avatar-lettore messicano di Valmiki e Hanuman raccoglie nell’ottavo
capitolo della sua opera. La foresta ricreata da Paz richiama alla mente la
voracità lessicale di Saint-John Perse. La scimmia grammatica si presenta
nell’opera di Octavio Paz come una vetta e un testamento, una
sindone, un’eredità e un rituale che il poeta innalza come sacrificio a quella
figura al cui sole lo accoglie e lo divora e lo rende capace non solo di
decifrare il significato nascosto delle scritture ma di sprofondare in esse con
tutto e l’ombra, con tutto e lo Splendore.
II
Scimmia grammatica: l’animale che crede in Dio, la bestia che sbava significati.
Con la grammatica, traveste la sua condizione scimmiesca: chiama questa
mascherata: poesia, cultura, religione. Ma la formica, l’ultima cellula
primordiale, non è anch’essa grammatica? Non è forse linguaggio la più
elementare particella della vita?
*
Scimmia: primate, ma anche sesso.
Grammatica: accademia, polizia.
Scimmia-grammatica: sesso punito, corpo sottomesso dal linguaggio.
*
Animale capace di sacrificarsi. Animale intrappolato nella rete dei significati
e del concetto crocifisso. La grammatica è par excellence: la croce. Il senso
della vita: dislocare, seppellire, disseppellire la croce e, con essa, il volto.
La scimmia si guarda nello specchio della grammatica – cioè la croce – e scopre
un volto – ma lo accetta veramente solo quando riesce a lucidare lo specchio e a
fare del sacrificio una nuova, seconda natura: umanità. Ma questa è solo
un’ombra di speranza, un’ipotesi. Prima, la scissione, la separazione tra
zoologia e cultura, immanenza bestiale e scommessa etica, poetica.
*
Scissione: anfora rotta, scimmia grammatica. La solitudine della scimmia senza
grammatica. Cecità, sordità del labirinto in assenza della scimmia che lo
percorre. La grammatica organizza il mondo. È il tesoro segreto di Adamo, la
chiave che gli permette di non perdersi tra le sue denominazioni. Ma la
grammatica è anche un progetto, un’utopia, il sogno che tiene sveglia la scimmia
e la precipita nella scrittura, nella politica, nella tentazione di ordinare il
mondo e di ridare alle cose-parole il loro vero, utopico, futuro nome.
*
Grammatica, la scimmia? Un gorilla mostruoso che si veste da avvocato, da
cattedratico, da prete; uno scimpanzé cinico che, quando gli conviene, sta sugli
alberi e quando no, scende sul pulpito. Scolastico, sentimentale, vorace,
pettegolo – a volte confonde la grammatica con il contagio, il significato con
il calore tribale e, necessariamente, la sintassi con la teologia. A volte
scimmia, a volte grammatica, sempre mendicante di verità, povera di
Splendore[1], orfana della foresta e della monade, il suo vero, unico amore. Le
dà appuntamento, appuntamento nello specchio della parola, ma lei non appare
sempre. La invita a tutte le coniugazioni, ma lei disprezza le contingenze; la
corteggia in tutti i casi ma lei scappa tra i congiuntivi. La scimmia, delusa,
le volta le spalle e si dirige verso la città dei fuochi estinti e tra le ceneri
del dizionario cerca la sua ombra grammatica – quasi mai con successo. Fugge.
Vorrebbe appendersi a una liana, cadere in un pozzo: le altre scimmie, le
scimmie sgrammaticate, vedono solo una scimmia a volte malinconica, a volte
furiosa, divorata dall’invisibile e leggendaria lebbra. Si chiama grammatica. La
contraggono coloro che si ostinano a seguire un percorso. Di solito finiscono
così, crocifissi su una lettera, scorticati sul segno della loro scelta – ed è
comune vederle accasciarsi con un sorriso beato e uno sguardo atroce che
chiunque, anche la meno grammaticale delle scimmie, riconoscerebbe. La scimmia
accasciata viene immediatamente circondata dalle semiscimmie; le semigrammatiche
perché quasi tutte sono meticce e, di conseguenza, sterili.
*
Questa è la differenza con la Scimmia Grammatica, che è invariabilmente feconda
e capace di ingravidare qualsiasi femmina con un leggero tocco della lingua,
della coda o di una qualsiasi delle sue estremità. Naturalmente, molte scimmie
rimangono incinte, ma poche grammatiche raggiungono la maturità. Vengono
abortite o si rovinano presto. Anche quando si sviluppano, hanno vita breve,
perché le scimmie grammatiche si distruggono a vicenda. E non solo: alcune sette
sono cannibali e sostengono che l’unico modo per fecondare l’ingrediente
grammaticale del loro essere sia quello di divorare il cervello di altre scimmie
grammatiche. Questa pratica non è priva di pericoli e le scimmie (grammatiche,
semigrammatiche o non grammatiche) rifiutano istintivamente le scimmiofaghe
perché emanano un odore inconfondibile e, inutile dirlo, insopportabile.
*
Un’altra pratica comune è quella in cui coppie di scimmie maschio e femmina
uniscono le forze per fare il viaggio insieme e raggiungere insieme tanto
agognata grammatica. Così, non è raro vedere un maschio visionario sul dorso di
una femmina che sostiene di sentire delle voci. Naturalmente finiscono per
scontrarsi, poiché l’emblema di El Dorado Grammaticale quasi mai coincide con il
clamore delle voci. Da un lato, la grammatica porta la scimmia a camminare in
linea retta; dall’altro, la sua condizione di scimmia la porta a vagare tra i
rami. Ma la cosa più comune è vedere le scimmie grammatiche riunirsi in piccole
bande nemiche tra loro. Ogni banda inventa una lingua a condizione che ognuna
delle scimmie rinunci al suo sogno di grammatica. Sostituiscono il prurito
ossessivo di un linguaggio trascendente – capace di trascendere la condizione di
scimmia – con i frammenti di un linguaggio limitato e utilitaristico, che
condividono, masticano e sputano come una gomma da masticare.
*
Il risultato è che perdono gradualmente la memoria – la memoria del canto – e
anche, tra l’altro, le loro caratteristiche scimmiesche – almeno così credono.
Ci sono anche scimmie grammatiche a cui è vietato comunicare con scimmie
dell’altro sesso o di altri gruppi. Quando muoiono, le scimmie vengono
incinerate. Le loro ceneri vengono diluite in acqua e olio e con esse fabbricano
un liquido con cui dipingono una sorta di cipolle quadrate che chiamano libri e
che conservano in templi chiamati biblioteche. Lì, secondo la tradizione, abita
l’invincibile dio della grammatica. I guardiani di questi templi sono scimmie
sparute, malinconiche e irascibili. Si dice che, sebbene sembrino morire
scorticate come si è detto, possiedano il segreto dell’immortalità. Deve essere
davvero un segreto, perché finora nessuno l’ha rivelato.
Ma l’associazione tra scimmia grammatica e poeta è già uno scandalo. La prima –
chi può dubitarne? – è un mammifero, tra tutti, cerebrale, mentre il secondo si
è sempre distinto per la mancanza di cervello. O forse non avevamo riflettuto
bene e non ci siamo resi conto che la coscienza del poeta è rigorosamente
equivalente a quella della scimmia, rapita dai succhi acri della grammatica.
Hanno però una cosa in comune: entrambi conoscono l’arte di arrampicarsi sui
rami.
*
Ma al poeta – che non ha cervello – la rettitudine viene dal cuore, dal pensiero
d’amore. Assomiglia a Don Chisciotte, all’“idiota” del libro di Dostoevskij; non
va nel tumulto degli intelligenti, i furbi e gli efficienti: non ha cervello e
si differenzia dalle altre scimmie perché sa di essere ridotto alla condizione
bestiale nella misura in cui non è trasfigurato dalla passione. Scopriremo il
suo nome nel libro dell’anima solo imparando la grammatica dell’amore.
*
Scimmia grammatica: scimmia innamorata.
*
L’innamorato che perde la ragione diventa un uomo dei boschi, un pazzo
selvaggio, selvatico. È il Cardenio di Don Chisciotte in cui il cavaliere non
manca di riconoscere alcuni riflessi dell’incendio che lo devasta. La grammatica
della scimmia lacera e si squarcia: traduce la legge di una lettera incendiaria
– la legge dell’amore. Perdendosi nella foresta di simboli e analogie, la
scimmia grammatica recupera il suo senso, la sua linfa: diventa un albero, un
succube dell’albero. Dentro l’albero c’è lui; dall’esterno è visibile solo la
chioma, quell’abito che chiamiamo anche opera.
Adolfo Castañón
*In origine il saggio “El mono gramático: Cima y testamento” è stato pubblicato
su “Letras Libres”, marzo 2014.
**La scelta e la traduzione dei testi di Octavio Paz e di Adolfo Castañón è a
cura di Diana Mazon.
https://letraslibres.com/revista-mexico/el-mono-gramatico-cima-y-testamento/#footnote-33300-4-backlink
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[1] Nel libro Il mono grammatico di Octavio Paz, Splendore è una figura
femminile simbolica, evanescente e poetica. Non è un personaggio realistico, ma
una presenza luminosa e ideale che incarna un’esperienza di rivelazione,
desiderio e bellezza. Rappresenta forse la poesia stessa, oppure la conoscenza
pura o il linguaggio che si manifesta e si sottrae. Compare come apparizione,
visione o intuizione, e funge da guida e tentazione per il protagonista nel suo
cammino interiore verso il senso, la scrittura e il silenzio.
L'articolo “Lingue nascenti, larve, feti, aborti”. Octavio Paz o dell’eterna
lotta contro il linguaggio proviene da Pangea.