Regole del gioco. In questo articolo interpretiamo tre poeti secondo le tre
cantiche della Commedia. Mario Luzi (Paradiso) e Giorgio Caproni (Inferno) si
muovono, per orientamento linguistico, ai poli opposti. L’opera di Carlo
Betocchi è una sorta di Purgatorio. Il Purgatorio della poesia italiana del
Novecento.
*
Cosa vuol dire? Che ci deve essere un terzo perché due ‘campioni’ percorrano le
vie più estreme. Un terzo che si fa pasto, che si fa ponte. Quello che arriva
fin dove la via si biforca: altri la percorrano, nell’ascesa e nel precipizio.
Ci vuole Guinizelli perché accadano Dante e Petrarca; ci vuole Boiardo perché
Ariosto e Tasso ne esasperino le conseguenze liriche; c’è Foscolo alle spalle di
Manzoni e di Leopardi; Carducci a preparare Pascoli e D’Annunzio.
*
Ma questa è scolastica, è grigio schematismo. Il terzo, nel caso di Betocchi, è
colui “che ti cammina sempre accanto”. There is always another one walking
beside you, canta Thomas S. Eliot al termine della Waste Land. E chi è
questo terzo, questo altro? Io direi: Emmaus. Lì è tutto: dubbio,
irriconoscenza, pasto.
*
Emmaus. “L’avevano riconosciuto nello spezzare il pane” (Lc 24, 35). In un
articolo uscito su “La Lettura” del “Corriere della sera”, Daniele Piccini ha
scritto che “il destino di Carlo Betocchi, della sua poesia, [è] stato quello di
disseminarsi, di fare da spora e da seme di tanta altra poesia”, poesia che “si
è ripercossa e rifranta in tante voci, che se ne sono nutrite”. Betocchi è il
poeta che si spezza, come il pane, perché altri se ne nutrano. Nutrimento
necessario per giungere in zone nuove, mai intaccate prima.
*
Poesia purgatoriale quella di Betocchi: che si pone a mezzo tra i diktat
dell’epoca – ermetici, vociani, futuristi –, che appare senza apparente
appartenenza. Poesia purgatoriale perché sta nel linguaggio della creatura, che
è lingua sobria – fatta per sobillare l’anima –, lingua della pena e dello
stupore, che ama ciò che è passato – senza nostalgia né rancore – in virtù di
ciò che verrà. Linguaggio con il premio sempre in fronte; linguaggio che procede
per purificazioni, senza emendare, senza lancinanti slanci. Che resta fedele
all’uomo: senza accensioni astratte o metafisiche, da linguaggio angelicato, né
abissi. L’occasione, in Betocchi, non svela il caos del mondo, il rebus delle
forme, lo stigma dei ‘segni’ da interpretare; è lì per dire la forza – piena,
rivelata, ‘pasquale’, dacché il regno è questo, schiuso dal Figlio – delle cose,
dei “tetti toscani”, del plenilunio e delle rovine, dei giorni perduti e dei
“fiumi meridiani”. Non c’è posa in Betocchi, ma la severità – a tratti
allucinata, a tratti dolcissima – di chi guida.
*
Poesia purgatoriale perché in ascesa. L’esordio – Realtà vince sogno, Vallecchi,
1932 –, così manifesto da tenere per incuranza in un aldilà del cuore le altre,
potentissime raccolte, le Ultimissime (Mondadori, 1974), Un passo, un altro
passo (Mondadori, 1967), le Poesie del sabato (Mondadori, 1980). Betocchi passa
dalla luce infera di Rimbaud – letto con le lenti, fallate, di Claudel – a
quella, piena, di Eliot e dunque di Dante. Lo confessa – purgatoriale:
rettitudine del dire – in Diario della poesia e della rima:
> “…oggi penso che non avrei voluto somigliare a Rimbaud. Da giovane, quando
> l’amavo, non avevo meditato abbastanza la spaventosa aridità
> delle Illuminazioni, il cui splendore lampeggia di superbia… Vorrei invece
> aver somigliato ad Eliot, che nella sua creazione di poesia, rifacendosi a
> Dante, ha restituito alla pietà il trono che le spetta”.
*
Betocchi poeta della vecchiaia, cioè del Purgatorio del corpo. Nessun lamento
sulle antiche spoglie: sono la crisalide dell’uomo nuovo, sempre giovane agli
occhi del Padre, per sempre figlio. Alcuni poemetti – Il vecchio: stravaganze,
sventura, destino; Breviario della necessità, ad esempio – continuano a
sorprendere per audacia di temi, di toni. Qui ricalco la quarta lassa da In
piena primavera, pel corpus domini:
“Non chiamare disperazione
la disperazione,
se non è ancora più forte,
se non è ancora a quel punto
che si spacca,
che s’apre una feritoia,
nemmeno la disperazione
è tua, cèdila
a chi è più forte di te,
attendi, accetta d’esser colmo
del tuo nulla;
scamperai da te stesso,
non saprai come, un altro sarà in te”.
Poesia-viatico: non s’accontenta di sé – porta altrove.
*
Sbaglia chi giudica facile un poeta che si rifà, con ostinazione, a poeti dal
verbo contorto, lebbrosi d’estro – John Donne e Gerard Manley Hopkins, Rimbaud e
Dino Campana –, che opta per la via dantesca rispetto al lirismo di Petrarca:
scalare il Purgatorio chiede audacia, artigliata lingua.
*
Repertori. Mario Luzi ha riconosciuto in Betocchi “il suo solo maestro” (Luigi
Baldacci): tale maestria, tra l’altro, è testimoniata da un epistolario – Luzi e
Betocchi. Lettere 1933-1984, a cura di Anna Panicali – uscito per la Società
Editrice Fiorentina nel 2006. Giorgio Caproni ha scritto che Betocchi era
“italiano all’antico modo romanico”, per via dell’“asciuttezza quasi frustante
del linguaggio”. Il loro legame è riassunto in G. Caproni-C. Betocchi, Una
poesia indimenticabile. Lettere 1936-1986, edito da maria pacini fazzi editore
nel 2007, a cura di Daniele Santero. In una poesia “a Giorgio Caproni”, Per
Pasqua: auguri a un poeta – poesia purgatoriale, cioè che indossa una croce –
Betocchi si fa l’autoritratto: “un poveraccio… che vuole/ ciò che il mondo non
vuole, solo amore”.
*
Per stare in gioco ornitologico. Mario Luzi è l’aquila – Giorgio Caproni la
civetta, agile nel disbrogliare la notte – Carlo Betocchi è il corvo – il Crow
di Ted Hughes – l’uccello psicopompo, che sa comunicare con gli spiriti.
*
Per capire i ‘caratteri’ dei tre è bene leggere Il mestiere di poeta, la
raccolta di “Autoritratti critici” edita da Lerici nel 1965. Il libro, negli
anni, ha acquistato in smalto – più che un reperto archeologico è un frammento
di futuro che ci sorprende, oggi, come un abbacinato presente –: su tutto,
infatti, è l’aura del curatore, Ferdinando Camon, tra i più audaci e
intelligenti scrittori del nostro tempo. Betocchi “siede a un tavolo fratino”,
in uno studio “stretto, lungo, altissimo”; del poeta traluce “l’umanità”, pare
figura estratta dal legno, con l’espressione ieratica e remissiva, da leone e da
bue, che hanno i re dell’anno Mille. Caproni assale lo scrittore sguainando un
“viso affilato e severo”, inchioda alle questioni ultime (“L’unica certezza che
c’è nei miei versi è quella della vita e della morte”), fino a sfiorare gli
inferi: “Oggi come oggi, sento che tutte le strutture (le ‘istituzioni’)
classiche e ottocentesche non reggono più… Oggi dobbiamo rifare tutto da capo,
oserei dire Dio stesso… La mancanza di UNA certezza, più che mia, mi sembra
dell’epoca”. Mario Luzi, invece, come sempre, è sotto angelico manto: “la luce
che gli piove di fianco” illumina “il volto affilato”; lo studio “mi sembra
adatto solo al pensiero e alla meditazione”, il colloquio – come lo è con
un’alterità celeste – “non può essere un colloquio facile”. A differenza di
Betocchi e di Caproni, Luzi parla di sé e della propria opera con appagata
coerenza; parla da un trono, dal cielo di Giove, certo di installarsi nella più
nobile specie della poesia italiana. Mostruosa è la sua consapevolezza. “Non c’è
una progressiva prosasticizzazione, in me, ma se mai l’assunzione anche
dell’indeterminato… al piano della poesia”, dice a Camon, tra l’altro, Luzi.
Indeterminato non più come deterrente, ma come volo.
*
Se uno (Betocchi) dice la creatura nel suo più tenero nome, l’altro (Caproni) ne
sonda le viscere, il cuore maciullato, il cuore nero – il terzo (Luzi) la eleva,
la trasfigura al cristallo.
*
Che è poi la tripartizione del linguaggio usato da Gesù: parlare agli uomini
(agli accoliti e alle masse; Betocchi); parlare alle forze infere (Caproni; fino
a confondersi con esse agli occhi dei più: Mc 3, 22 e Lc 11, 15); parlare a Dio
(Luzi). Chissà quale lingua adotta Gesù nel deserto, quando “stava con le bestie
selvatiche e gli angeli lo servivano” (Mc 1, 13).
*
La nuova via di Caproni nasce con Il muro della terra (Garzanti, 1975), libro
infero fin dal titolo (tratto da Inferno X, 2). La poesia è rarefatta: allo
stesso tempo oracolo e imprecazione, distico sapienziale e sussurro che scatena
le forze del caos. Dio è un rovello continuo, stretto tra ira glaciale e
sarcasmo. “Un semplice dato:/ Dio non s’è nascosto./ Dio s’è suicidato” (Deus
absconditus); “Sta forse nel suo non essere/ l’immensità di Dio?” (Pensiero
pio). In Senza esclamativi, il poeta si puntella nel compito: compitare il
vuoto.
> “Com’è alto il dolore.
> L’amore, com’è bestia.
> Vuoto delle parole
> che scavano nel vuoto vuoti
> monumenti di vuoto. Vuoto
> del grano che già raggiunse
> (nel sole) l’altezza del cuore”.
In esergo, un verso di Hugo von Hofmannsthal (Ach, wo ist Juli und das
Sommerland!), poeta di mefistofelica precocità, che ha svelato – nella Lettera
di Lord Chandos – l’inconsistenza delle parole nel dire le cose, la scollatura,
definitiva, tra detto e atto, impedimento di logos. “Il nome non è la persona.//
Il nome è la larva” (Il nome), scrive Caproni, ed è, il suo, un andare poetico
tra larve, tra spettri verbali – biascichio per inferi, dove l’improvviso, la
rivelazione lampante si tramuta, in un attimo, in cabaletta ctonia.
*
Nell’era dell’inferno vuoto – non si è più degni nemmeno di eterna pena –
Caproni si aggira in un’ecatombe d’echi, si addentra nell’Ade interiore. Così,
nel suo libro più risolto – per compiutezza d’inventiva, coerenza di stile e
stazza etica tra i più alti del Novecento –, Il conte di Kevenhüller (Garzanti,
1986), Caproni scrive che “La Bestia che cercate voi,/ voi ci siete dentro”
(Saggia apostrofe a tutti i caccianti), che “La Bestia che bracchiamo/ è il
luogo dove ci troviamo” (Riflessione), che la vera caccia, allora, è cacciare se
stessi da sé, che autentica cacciagione è questo nostro cuore “perché ogni
intento del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza” (Gen 8, 21). E
Dio? Allo stesso tempo “preda/ mansueta e atroce” e vorace predatore che ci
accerchia, vampiro e Moby Dick, Bestia, certo, che “o era fuggita via,/ o non
esisteva”.
*
Tra il 1963 e il 1964 Mario Luzi pubblica Nel magma, prima con Scheiwiller poi,
in seconda edizione, ampliata, per il Saggiatore – l’ultima, definitiva, esce
per Garzanti, nel 1966, a testimonianza di una rampicata lirica, di una lirica
rampante. È una svolta: il linguaggio, sigillato di Avvento notturno, Quaderno
gotico, Primizie del deserto, si scioglie; al linguaggio dell’annuncio – per sua
natura chiuso, remoto per troppo affrettata prossimità, a cui si deve soltanto
dire sì – segue quello dell’apocalisse, della rivelazione. Il linguaggio si
esaudisce: l’apparenza prosastica – e tutte quelle continue apparizioni – è
colta in aura di paradiso, ogni dialogo – ne pullulano, a flotte – è definitivo.
Nel magma ottiene, nel dicembre del ’64, l’Etna-Taormina: insieme a Luzi è
premiata Anna Achmatova. Il cammeo del poeta ha la nitidezza del monito:
> “Anna Achmatova non pronunziò una sola parola… Al termine mi avvicinai per
> significarle la mia ammirazione che risaliva ai tempi dell’adolescenza: e
> l’emozione di averla incontrata… Lei ebbe negli occhi la luce di un sorriso,
> ma da una grande lontananza…”.
*
Paradiso che, poi, non significa essere paghi, bensì: magnificare la fame –
flottare nella luce. Né bitume d’ira né irenica inerzia, né pavoneggiarsi tra
gli eredi dei retori, ma: rettitudine. Paradiso: campo da coltivare eternamente;
Dio-vomere.
Mario Luzi è un poeta sempre in picchiata. Nonostante la citazione, sviante – da
Orazio – l’avo è Dante, ovunque. L’India, così, più che altro, è un sobborgo
della Gerusalemme celeste, potremmo dire karma come un provvedere alla
provvidenza:
> “Mario” mi previene lei che indovina il resto. “Ancora
> levi come una spada, buona a che?,
> lo sdegno per le cose che ti resistono.
> Uomo chiuso all’intelligenza del diverso,
> negato all’amore: del mondo, intendo, di Dio dunque”.
*
Su fondamenti invisibili esce per Rizzoli nel 1971. Caproni ne è entusiasta –
“È un libro di grande poesia, se dir grande in poesia è dir qualcosa. È, col
Magma, il più grande libro di poesia uscito in Italia nell’ultimo quarantennio.
A tanta altezza, chi potrà mai più raggiungerti?” –; un testo, Nel corpo oscuro
della metamorfosi, è dedicato “A Carlo Betocchi, ai suoi meravigliosi settanta
anni”. Il dialogo dilaga, la lega del dire è dantesca, più che mai:
> “Prega”, dice, “per la città sommersa”
> venendomi incontro dal passato
> o dal futuro un’anima nascosta
> dietro un lume di pila che mi cerca
> nel liquame della strada deserta.
> “Taci” imploro, dubbioso sia la mia
> di ritorno al suo corpo perduto nel fango.
In qualche modo, Luzi ‘volgarizza’ il linguaggio paradisiaco (Nel magma, cioè:
nella mota di Dante, nel notturno del Paradiso), lo rende mansueto, pieno di
maniglie. È in questo senso – senza afonia di eufemismo – che Caproni parla di
grande poesia: poesia grande perché vasta, che può dare nutrimento a più
generazioni. Poesia che non ammette epigoni – a differenza di quella di
Ungaretti – bensì seguaci, pur sonnolenti. La pratica proposta da Luzi agirà
profondamente in poeti altrimenti dissimili (ne dico alcuni: Vittorio Sereni,
Cesare Viviani, Milo De Angelis, Davide Rondoni, Alessandro Ceni). All’aquila
seguiranno le gazze.
*
L’opera che segue, che sia poema – Viaggio terrestre e celeste di Simone
Martini, Garzanti, 1994, per dire – o raccolta per distratto accumulo – Dottrina
dell’estremo principiante, Garzanti, 2004 – ha la monotonia dei re, un fraseggio
d’ineguagliato lignaggio. Verbo-stilita, anche quando il poeta parla – dantesco
– di politica. Dicono non sia memorabile, Luzi: è vero, la memoria è un
carattere troppo umano; in cielo è inutile orpello, vada in ordalia.
*
Caproni parlava anche di altezza. L’altezza, in Luzi, ha la voracità del
commiato, la destrezza di un addio. E ora?
L'articolo La destrezza dell’addio. Betocchi, Luzi, Caproni: le tre “cantiche”
della poesia italiana proviene da Pangea.
Tag - Carlo Betocchi
La prima lassa della Terra desolata, poema pentagonale di Thomas S. Eliot,
s’intitola The Burial of the Dead, “il seppellimento dei morti”. Come si sa,
Eliot parla di aprile, the cruellest month e di Unreal City, cita – senza
apparente coerenza – Wagner, Dante, Baudelaire. Nell’affastellarsi di luoghi
comuni e figure sacre, appaiono Madame Sosostris, specie di degradata
Iside, famois calirvoyante, la Dama delle Rocce e the lady of situations, in un
cortocircuito tra lascivia e verginità; il tempo è sospeso tra la battaglia di
Milazzo – prima guerra punica, 260 a.C. – e l’oggi, sancito dall’anonimo
traffico umano che scorre – latenza di frode, flatulenza d’inganno – sul London
Bridge. Il figlio dell’uomo, ormai, nulla può più sapere dei “rami che crescono/
su queste macerie”: non è che “un mucchio di frante immagini”. Il poema di Eliot
non è affatto “sepolcrale”, non appartiene al genio di Thomas Gray o di Edward
Young (preromantici malsopportati dal T.S.), né a quello – con sopraggiunti
accenti ‘eroici’ – di Foscolo. Con The Waste Land, Eliot scrive le esequie della
poesia occidentale – poesia ‘rituale’ (proprio perché irrituale nel linguaggio),
rivolta ai morti, a vivificarli.
*
Mi hanno colpito le parole di Charles Wright in una delle sue rare interviste.
Il giorno della morte, il grande poeta americano – benché non credente –
vorrebbe farsi accompagnare dal Burial of the Dead, il rito funebre della Chiesa
anglicana, accolto nel Book of Common Prayer. In effetti, anche l’opera di
Wright – che nasce all’ombra di Ezra Pound, il gran maestro di Eliot – è una
specie di servizio della parola rivolto ai morti.
Va ancora riferito, con umile sfarzo, il rapporto vitale tra preghiera e poesia.
*
Il tema di questo articolo: la parola efficace rivolta ai morti. Parola che si
radica nella landa dei morti: come crescerà; come chiamare quel virgulto
alfabeto; come intendere quel puledro verbo?
Alcune parole – un formulario formulato da uomini – hanno effetto nell’aldilà. O
meglio: agiscono nei pertugi tra questa vita e l’altra, l’autentica (stando al
religioso dire). Il corpo matura come un frutto, come una crisalide, e ciò che
sboccia – l’anima, lo spirito, il ‘respiro’, l’elan dell’altro, l’atman, la
rancura o l’amore che ci fa viventi – vaga, disorientato, indeciso, nel regno di
mezzo tra il mondo e l’oltre mondo. L’anima – chiamiamola così, per capirci –
cresce, deve svilupparsi, deve scegliere e compiere delle prove prima di
approssimarsi all’assoluto. L’anima trasmuta, mette il pelo – l’anima ha sete.
Il rito aiuta l’anima in questa catabasi o ascesa.
L’anima ha bisogno di un patrimonio di linguaggio, di un abbecedario, per capire
chi è e dov’è. Il rito: corde, ramponi, piccozze per aiutare l’anima a rampicare
la schiena di Dio.
*
Cosa succede se l’anima – o come vogliamo chiamare il polline del corpo – è
priva di linguaggio? L’anima è disorientata, s’imbestia, cresce in ira e rimorso
– le crescono i denti. Un uomo, per emergere da sé, per ergersi, deve morire.
Esistono i non-morti: anime disperse, che non hanno trovato lo spiraglio per
accedere all’altro mondo, restano recluse in questo. Anime incattivite. Che
mordono. Che tormentano. Gli sciamani siberiani uscivano fuori di sé per placare
le anime violente; come per concertare con gli spiriti il successo del parto.
> “Da questo luogo
> sotto il grande sole
> cominciò a camminare
> Per tre giorni
> egli va così.
> Nella direzione davanti a lui
> era un’isola-nube
> tre grandi tende…
> salì veloce sul palo
> che sostiene le tende
> salì nel cuore del fuoco
> come coleottero di ferro”.
*
Allo stesso modo, la preghiera per i defunti: linguaggio che conforta l’anima
nella prova. Nessuna nostalgia in questo infondere coraggio. Puro esercizio di
linguaggio: consuonare ai morti, con loro cantare.
*
La Commedia di Dante non è forse un immenso tentativo di conciliarsi con i
morti? E poi: trovare il linguaggio con cui colloquiare con Dio. Dunque:
intendere il linguaggio con cui i morti si rivolgono a noi, ora.
*
Oltre che ‘comunicare’ tra di loro, gli uomini manovrano il linguaggio per
mettersi in comunicazione con i morti. La poesia nasce quando Gilgameš scopre
che l’uomo è morituro: alza il lamento funebre sulle spoglie dell’amico Enkidu,
va alla ricerca dell’immortalità. Allo stesso modo, l’Odissea è il grande canto
dell’amore mortale rispetto all’ardore ultraterreno, è il poema dei figli che
cercano i padri, il poema degli avi conficcati negli eredi – dalle
invocate-evocate ombre (libro IX) agli spettri dei Pretendenti, che s’involano
come pipistrelli, alla fine del poema.
Orfeo non può far risorgere dai morti – blanditi dal suo canto – l’amata
Euridice: in quel voltarsi, in quel ‘gioco degli occhi’ è il momento in cui
nasce la lirica occidentale, in cui il poeta si scinde dallo sciamano. I morti,
da allora, rivivono nel canto, nel giogo della malinconia, nella grigia gioia
del rimpianto. Non più compimento, ma compianto.
Édouard Manet, Cristo morto sorretto dagli angeli, acquaforte, 1866-1867
*
Dalla Laura di Petrarca al Moammed Sceab di Ungaretti. I morti agiscono sui
vivi, fino a modellarli. Quanti viventi vivono conformandosi a una promessa
conclusa con chi non è più qui? Quanti viventi sono il calco dei morti? Quanti
viventi vivono credendo di poter ‘riscattare’ la memoria di un morto?
A volte, i morti ci incatenano. I morti si nutrono della nostra vita.
A volte, incateniamo i morti – succhiamo i loro empi capezzoli.
Al contrario, la parola rituale, The Burial of the Dead: parola efficace tra i
morti, parola vivente. Sono i vivi, qui, che agiscono nell’altro mondo – che si
fanno consegna, offerta. Che piantano torce sul torace dell’altro mondo.
*
Parola vivente, parola vivanda.
*
Di cos’altro dobbiamo parlare, in questo tempo moribondo, se non della parola
che opera sui morti (e dunque, sulla vita)? Non più atto di supremazia magica,
superamento di ogni mantica: suprema spoliazione, piuttosto, dedizione. Spiumare
la lingua fino a ossea ispirazione.
*
Millenaria tradizione di dialogo con i morti. Ad esempio: il Libro dei
morti egizio. Sessione di liriche indicazioni – dunque: etiche – per uscire
indenni dal giudizio degli dèi, presieduto dal dio-sciacallo, Anubi.
> “Concedete che il defunto venga a voi,
> lui che non ha peccato
> che non ha mentito
> che non ha commesso male
> che non ha fatto alcun crimine
> che non ha reso falsa testimonianza
> che nulla ha fatto contro se stesso
> ma che vive di verità
> si nutre di verità.
> Dovunque ha sparso la gioia.
> Di ciò che ha fatto
> gli uomini parlano e gioiscono gli dèi.
> Egli si è conciliato gli dèi con il suo amore”.
I testi che compongono il Libro dei morti “appartengono alla liturgia che
accompagnava il seppellimento e venivano deposti accanto al morto mummificato,
affinché se ne valesse come istruzione nell’affrontare il regno d’oltretomba”
(Alonso M. Di Nola).
Questo m’interessa. La parola che agisce nell’aldilà. Parola umana che, al più
puro punto di raffinamento, al più limpido monile, esiste per parlare ai morti.
Parola che istruisce il defunto. Per questo: è opera pia, opera necessaria,
inserire nella tomba del defunto – nella tasca dei pantaloni, nella camicia –,
un testo-talismano. Una poesia. Parola che non leghi il defunto, ancora, a
questa terra, che non lo ancori, ancora, al qui; che lo sprigioni. Parola che
non reclama possesso, ma che liberi – che conforti senza confinare. Parola
d’oltreconfine.
*
Grande brigante: il sacerdote carda i morti sul petto, per guadare, guidandoli
nell’altrove. Qualche verbo in borraccia.
*
La differenza tra il Libro dei morti egizio e l’apparentemente analogo Libro
tibetano dei morti, il Bardo Thödol, secondo l’immenso Giuseppe Tucci:
> “Gli Egiziani cercarono di salvare il corpo dal corrompimento che fatalmente
> dissolve ogni cosa creata: l’integrità del corpo è necessaria per la
> continuazione della vita nell’oltretomba. Per i Tibetani il cadavere si brucia
> o si squarta o si abbandona sulle montagne, perché le bestie da preda e gli
> uccelli lo divorino.
>
> Per gli Egiziani la morte è definitiva, delimita due mondi. La sopravvivenza
> nel mistero che essa dischiude è sopravvivenza individua; cioè della medesima
> creatura che già visse in questo mondo e colà perdura con le stesse parvenze e
> lo stesso nome. Per i Tibetani la morte o è il cominciamento di una nuova
> vita, come accade per le creature che la luce della verità non rigenerò e
> trasse a salvazione, o il definitivo disparire di questa fatua personalità –
> effimera e vana come riflesso della luna sull’acqua – nella luce
> indiscriminata della coscienza cosmica, infinita potenzialità spirituale.
> Continuare ad esistere in qualunque forma di esistenza, anche come dio, è
> dolore: perché esistenza vuol dire divenire, e il divenire è l’ombra
> dell’essere, un sempre rinnovato corrompimento, una pena che mai si placa”.
Il Bardo prevede almeno due settimane di prossimità con il moribondo, aiutandolo
a vincere terrori e interrogativi, per condurlo alla “grande liberazione”. La
liturgia, che stempera il tempo nell’eterno, il buio in bulimia di luci, si
dispiega in versi, per ipnotizzare ogni illusione.
> “Mentre sorge in me il Bardo della Vita
> lascerò ogni futile pigrizia che ruba il tempo
> e affronterò il Sentiero dell’Ascolto, della Riflessione,
> della Meditazione concentrandomi sull’Insegnamento
> con il dono di un corpo umano
> svelando la vera natura dell’illusione
> realizzerò i Tre Corpi lasciando ogni indugio
>
> Mentre sorge in me il Bardo del Sogno
> spegnerò il tenebroso sonno dell’ignoranza
> concentrando la mente nel suo stato naturale
> svelando la vera natura del sogno
> senza sprofondare nel sonno dei bruti
> mediterò sulla Chiara Luce della Miracolosa Trasformazione
> portando questa pratica nel sonno”.
Ho citato alcuni versi che presiedono il Bardo Thödol vero e proprio, nella
versione approntata da Ugo Leonzio per Einaudi nel 1996. Superba, per glaciale
nitidezza, la nota biografica che cinge Leonzio, estroso scrittore, studioso di
allucinogeni e di Céline: “nato a Milano, ha viaggiato nelle regioni himalayane
per studiare le pratiche rituali di cui questo libro fa parte”.
*
Anche il Rito delle esequie cattolico è di sublime bellezza quanto a
composizione. D’altronde, è il rito centrale, ‘pasquale’ – il momento in cui la
fede nella resurrezione dei corpi è messa alla prova. Al sacerdote che guida il
rito – ma che non è univoca guida: a noi il compito di procedere nel canto, a
rincuorare e aiutare il morto – è chiesta particolare preparazione. Alle
preghiere canoniche – alcuni Salmi, per lo più – si alternano parole scritte
apposta per la cerimonia; queste, ad esempio:
> “Con questa fede nel cuore ci accingiamo a deporre,
> come un seme, nel sepolcro
> il fragile e corruttibile corpo
> del nostro fratello (della nostra sorella) N.,
> con la piena fiducia che nel giorno della sua venuta
> il Signore lo(a) farà risorgere incorruttibile,
> nella pienezza della sua gloria.
> Rinnovando perciò la nostra adesione di fede, diciamo:
> Tu sei la vita e la risurrezione nostra, Signore Gesù!
> Tu che hai pianto la morte dell’amico Lazzaro,
> trasfigura le nostre lacrime nella gioia della tua salvezza.
> Tu che al ladrone pentito hai accordato il tuo perdono
> e promesso il paradiso,
> avvolgi il nostro fratello (la nostra sorella)
> nel tuo abbraccio di misericordia e di vita.
> Tu che sei stato spogliato delle tue vesti
> e, avvolto in bende, sei stato deposto nella tomba,
> fa’ indossare la splendida veste della vita immortale
> al nostro fratello (alla nostra sorella),
> che viene a te nella nudità della morte”.
*
Quanto, esaltando in retorica, in ‘letterarietà’, la poesia ha perso in
efficacia? Con quali parole parlano tra loro i morti? Qual è il linguaggio
dell’aldilà? Sussurro, latrato, biascichio, frattaglie d’angelo? Il linguaggio è
il principio della caduta o un metodo per ascendere?
*
Certo: il chiacchierio chiesastico, questa eco da oratorio, va rimeditato. Ai
poeti, dopo immenso sconvolgimento interiore, il compito di trovare la parola
che attecchisca ancora nell’aldilà.
*
Esalare l’ultimo respiro: slegare i nodi del linguaggio comune, che imprigiona e
castra, per eseguire l’altro, che disincastra, che libera.
Linguaggio: comunione tra i vivi e i morti. Lingua-ostia.
*
Penso ad alcune lasse del poemetto di Carlo Betocchi, In piena primavera, pel
Corpus Domini:
> “La tua mente illusoria rifiutala
> se non ha altri argomenti che te:
> e il tuo cuore, se non ha che i tuoi
> lamenti. Non avvilirti
> compassionandoti. Sii non schiavo di te,
> ma il cuore di ciascun altro: annullati
> per tornar vivo dove non sei
> più di te, ma l’altro che di te si nutra,
> distinguilo dal numeroso,
> chiama ciascuno col suo nome”.
È già parola efficace, questa, che non permette alla letteratura di irrompere,
corrompendo. Il letterario è la merce della lettera, ne è il baldacchino, la
baldracca.
Se un poeta non ha efficacia, se la sua parola non ha effetto su questo e
l’altro mondo, è un falso poeta. Non effonde – confonde.
***
La sepoltura dei morti
In piedi, tutti, intonano l’inno:
Io sono la resurrezione e la vita, dice il Signore;
chi ha fede in me, benché sia morto, vivrà;
chi vive e ha fede in me non morirà mai.
So che il mio Redentore vive
che all’ultimo giorno si ergerà sulla terra;
e anche se questo corpo sarà sbriciolato, vedrò Dio;
lo vedrò davanti a me, lo contemplerò con i miei occhi
non mi sarà estraneo.
Perché nessuno vive per sé
per sé nessuno muore.
Quando viviamo, viviamo nel Signore
quando moriamo, moriamo nel Signore.
Nella vita e nella morte siamo del Signore.
Beati i morti che nel Signore muoiono;
così sussurra lo Spirito, resi hanno riposo dal dolore.
Per la sepoltura di un adulto:
O Dio, dall’innumerevole misericordia: accetta le nostre preghiere per il tuo
servo, concedigli l’ingresso nella terra della luce e della gioia, nella
comunione dei tuoi santi, per mezzo di Gesù Cristo, tuo Figlio, nostro Signore,
che vive e regna con te e con lo Spirito Santo, un unico Dio, ora e nel sempre.
Amen.
Per la sepoltura di un bambino:
O Dio, il cui diletto Figlio ha preso i bambini tra le braccia, benedicendoli:
donaci la grazia, ti preghiamo, affidiamo questo bambino alla tua infallibile
cura, al tuo inesauribile amore, conduci tutti noi nel tuo celeste regno; per
mezzo del tuo figlio, Gesù Cristo, nostro Signore, che vive e regna con te e con
lo Spirito Santo, un unico Dio, ora e nel sempre. Amen.
Consacrazione della tomba
Qualora la tomba si trovi in un luogo non destinato a sepoltura cristiana, il
sacerdote può recitare la seguente preghiera, al momento opportuno:
O Dio, il cui Figlio benedetto è stato deposto in un sepolcro nel giardino:
benedici, ti preghiamo, questa tomba e concedi che colui il cui corpo è qui
sepolto possa dimorare in Cristo, in paradiso, e raggiungere il tuo celeste
regno; per tramite di tuo Figlio Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Preghiera aggiuntiva:
Nelle tue mani, Signore, affidiamo il nostro caro fratello: che sia prezioso ai
tuoi sguardi. Lavalo nel sangue dell’Agnello, l’innocente che fu immolato per
annientare i peccati del mondo; perché, purificato, estinta ogni lordura
contratta in questa vita terrena, possa essere presentato netto, limpido e senza
macchia al tuo cospetto; per la grazia di Gesù Cristo, tuo unico Figlio e nostro
Signore. Amen.
Ricordati del tuo servo, Signore, secondo la grazia con cui favorisci il tuo
popolo: che cresca in amore e sapienza, per progredire sempre di più nella vita
di perfetto servizio nel tuo celeste regno; per Gesù Cristo nostro Signore.
Amen.
O Dio degli infiniti giorni, Dio della misericordia innumerabile: facci certi,
te ne supplichiamo, della brevità e dell’incertezza della vita; che lo Spirito
Santo ci guidi in santità e giustizia lungo l’arco dei giorni; quando avremo
servito i figli della nostra generazione, ci riuniremo ai padri, in retta
coscienza; nella fiducia di una fede certa; nel conforto di una ragionevole,
religiosa, santa speranza; nel tuo favore; in perfetta grazia con il mondo.
Tutto ciò che ti chiediamo è per mezzo di Gesù Cristo, Signore nostro. Amen.
Da: “Burial of the Dead. Rite One”, raccolto in “Book of Common Prayer”
*In copertina: Paul Troger, Cristo morto con angelo, XVII sec.
L'articolo “Dovunque ha sparso la gioia”. Parlare ai morti proviene da Pangea.