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Sul nostro irrefrenabile bisogno di leggere Cesare Pavese
Quando ero ragazzo leggere Cesare Pavese veniva considerato quasi un rito di passaggio per gli adolescenti di allora. Tutti lo leggevamo. Forse non lo capivamo fino in fondo, ma comunque restavamo affascinati da questo scrittore dalla perenne espressione di bambino triste destinato a non diventare mai vecchio e dalle moltitudini che abitavano la sua anima. Confesso di frequentare poco i giovani di oggi, ma l’impressione è che ci siano in giro troppe chiacchiere inutili, troppe distrazioni, troppo rumore di fondo che impediscono a un ragazzo di chiudersi nella propria stanzetta a leggere Pavese o Hemingway; mi chiedo se c’è ancora qualche adolescente che durante gli anni del liceo prende una cotta letteraria per uno scrittore come capitò a me con Vasco Pratolini; irrazionale e assoluta come si conviene a ogni cotta degna di questo nome, presa senza sapere bene perché. Anche nel dibattito pubblico Pavese era una figura di riferimento nonostante fosse morto ormai da parecchi anni. Poi lentamente, quasi senza che nessuno se ne accorgesse, su di lui è calato il silenzio. Improvvisamente nessuno ne ha più parlato, tutti hanno smesso di citarlo. Oggi è a tutti gli effetti un desaparecido della letteratura e non solo. Va detto che non è l’unico e anzi è in buona compagnia. Dove sono finiti Giovanni Arpino, Giuseppe Berto, Lucio Mastronardi e tanti altri scrittori un tempo al centro del mondo letterario? Basti pensare ad Alberto Moravia che per lungo tempo è stato la figura dominante della vita culturale italiana; una presenza continua e per certi versi quasi ossessiva con interviste e dichiarazioni su tutto, firme a ripetizione su manifesti e appelli per le cause più svariate, reportage di viaggi, recensioni cinematografiche, programmi televisivi, protagonista addirittura della vita mondana e dei pettegolezzi per le varie compagne e mogli che si sono avvicendate al suo fianco. Poi, dopo la morte, lentamente anche su di lui è calato il silenzio. Insomma, c’è una domanda che mi faccio spesso da un po’ di anni: dove è andato a finire Cesare Pavese? Adesso per fortuna posso finalmente darmi una risposta. Per venire a capo del mistero non ho dovuto fare nessuna ricerca o inchiesta né tanto meno ricorrere all’intelligenza artificiale. È bastato leggere Chi ha rapito Cesare Pavese?, un romanzo scritto da Francesco Bova e pubblicato dall’editore calabrese Meligrana. La trama è presto detta. Al centro del libro Lui, così viene chiamato il protagonista, uno scrittore, e la sua Voce interiore, una fascinosa musa ispiratrice dalle lunghe gambe. I due vanno a vivere in una stazioncina ferroviaria abbandonata nelle campagne lombarde. Lo scopo di questa scelta di vita isolata e fuori dal mondo è duplice. Lui è impegnato a scrivere un romanzo con l’aiuto della sua Voce e poi vuole incontrare a ogni costo Cesare Pavese. > «Regalerei la mia anima al diavolo o a quel dio che non conosco per poter > scambiare qualche parola con lui.» Il fatto però è che qui siamo negli anni Ottanta e, come è noto, lo scrittore piemontese è morto nel 1950. Non è un problema. Lui e la Voce non hanno né un orologio né un calendario, ma impariamo presto a capire che per loro il tempo è relativo: > «Il tempo, nella sua forma circolare, avvicinava di un nulla gli anni ’80 agli > anni ’50 e gli avvenimenti si potevano toccare con un dito e forse pure > travolgere. > > Il naso, il cuore, la forma di una nuvola, un sogno, uno stato d’animo, il > soffio del vento e altre piccole cose erano la nostra misura del tempo.» Così i due intraprendono una serie di viaggi attraverso il tempo e lo spazio per raggiungere Santo Stefano Belbo. In questo modo Lui e Pavese riescono “magicamente” a vedersi varie volte e durante i loro incontri si spostano tra le colline delle Langhe e quelle della Liguria parlando un po’ di tutto: di libri, di cinema, di politica, di donne. Non solo. Persino i personaggi dei loro libri si incontrano e parlano tra di loro. Tra i due nasce un rapporto simbiotico, di grande intensità che permette a Lui di portare a termine il proprio romanzo. Intanto però i giorni corrono e quando siamo verso la fine di agosto si avvicina anche la data fatale. Da tanti piccoli indizi, a volte appena percettibili, è facile intuire che Pavese si sta muovendo sull’orlo della notte. Così nasce il progetto di rapirlo per scongiurare il suo suicidio. Il finale lo lascio al lettore.  > Nel primo pomeriggio di una giornata molto calda sbottò con una frase corta e > incomprensibile e temetti che l’arsura e l’angoscia gli avessero dato alla > testa. > «Dobbiamo rapirlo!» > «Chi?» > «Cesare. Prima che finisca l’estate dobbiamo rapirlo.» Chi ha rapito Cesare Pavese? è un libro bello e singolare, di sorprendente e accattivante complessità, che si muove tra sogno e realtà, tra ossessioni e magie dove ogni lettore deve trovare la propria strada. Arrivati al termine, viene naturale una domanda: è veramente Pavese il rapito o invece siamo noi, i suoi lettori, a essere rapiti da lui, dal suo mito, dal fascino dei suoi romanzi, dalla malinconia incantatrice dei suoi personaggi, dal mistero della sua tormentata esistenza, dal segreto della sua tragica fine? Ognuno risponderà come meglio crede, di sicuro siamo di fronte a un romanzo necessario, rara avis di questi tempi, e dobbiamo essere grati a Francesco Bova per averlo scritto. Nel senso che c’era proprio bisogno che venisse sanata la ferita della scomparsa di Pavese dalla nostra vita. Abbiamo bisogno di lui, forse oggi ancora più di tanti anni fa quando lo abbiamo letto per la prima volta. Le domande che nascevano dalla lettura dei suoi libri sono ancora tutte lì, non hanno perso niente del loro valore e della loro profondità. Siamo noi e tutto il mondo vacuo e inutile che ci circonda che abbiamo fatto finta di dimenticarle. I grandi scrittori come Pavese invece restano sempre al loro posto, non passano mai di moda. Silvano Calzini L'articolo Sul nostro irrefrenabile bisogno di leggere Cesare Pavese proviene da Pangea.
September 12, 2025 / Pangea