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Sulla mania di comprare sempre gli stessi libri. Ovvero: conformarsi alle stelle
Una biblioteca mi ha fatto da culla, mi è stata matrigna.  La madre di mio padre si era trasferita a Milano da Palermo a dodici anni; aveva la quinta elementare; la scaltrezza della creatura viva, terrena. Mio nonno era nato in Francia da immigrati siciliani: una volta, ricordo, mi parlò di Leonardo Sciascia, amava ascoltare Charles Aznavour. Durante la Seconda guerra operò in marina: arrestato in Grecia, fu detenuto ad Amburgo. Si vantava della sua “Enciclopedia Motta” che, in un’altra era, prometteva “il sapere universale”. Era fissato con la geografia.  Le strane accelerazioni della Storia – il Sessantotto, un viaggio in Pakistan, l’idea di ‘essere se stessi’ (mentre a volte è bene apparire per ciò che non si è) – portarono mio padre a diventare il bibliotecario di un piccolo paese in provincia di Torino. I miei nonni – i suoi genitori – sono sepolti a Riccione: il cimitero, in fondo, è una sorta di immensa biblioteca umana, un ossario di memorie – è forse la vera “biblioteca infinita” ideata da Borges. Il figlio, mio padre, che ha il nome del biblico “sognatore”, è sepolto in un microscopico borgo della Val Grande, a cinquecento chilometri di distanza dai genitori. Spero sia felice: nei turni di notte, lassù, lo strigide si combina al capriolo, la chimera al lupo.  La biblioteca, comunque, fu il baratro: il luogo dell’amore e della perdizione, l’alcova e la tagliola.  * Qualche anno dopo la morte di mio padre, ‘liberai’ dalla biblioteca che aveva diretto Il gioco del mondo di Julio Cortázar. Non che non lo possedessi: è che quell’edizione – copertina rigida, Einaudi, incellofanata – mi pareva ‘biblica’, perfetta al sogno. Per un po’, riposi in quel libro il mio destino. Mi piaceva l’idea che si potesse leggere al contrario e di sbieco, che parlasse di molto e di niente. Molti anni più tardi – per una di quelle strane accelerazioni della vita – finii a Buenos Aires, incontrai chi aveva incontrato Julio Cortázar.  * È assurda l’idea di possedere dei libri: sono loro che si impossessano di te. Ne sei posseduto, tanto che liberandoli te ne devi liberare. Le parole aprono squarci, finestre o stimmate che siano – ma possono anche recludere.  * In una lettera particolarmente bella – in: V. Šalamov-B. Pasternak, Parole salvate dalle fiamme, Archinto, 1993 – Varlam Šalamov rimproverava Boris Pasternak, che con svezzato sussiego parlava con sufficienza delle sue poesie. Nei campi, in Siberia, c’è gente che è sopravvissuta con le sue poesie; c’è gente che si è ricordata cos’è un uomo (cioè: la creatura disposta a dare la vita per un altro, sconosciuto) leggendo le sue poesie.  I libri non salvano la vita – ci danno la vita; non insegnano a vivere, creano la vita. I libri sono un uovo cosmico (leggi sotto). Per questo ogni regime – tirannico o democratico che sia – sottrae i libri ai propri elettori sudditi o favorisce un ‘sistema’ culturale basato sul mero mercato: così si forgia un popolo servile, un popolo reclino sul proprio misero io, un popolo immiserito nel cuore, un popolo di paglia, logorato, già cenere.  * A Lima soggiornavo all’Hotel Ariosto: nelle librerie i libri costavano più che in Italia, ma lo stipendio medio di un peruviano non superava i trecento euro italiani. Cercavo le poesie di César Vallejo; qualcuno, al mercato – così sgargiante che lo chiamai Armida – intonò i frammenti di un’epopea andina. Finché non recidono il suo canto, finché non lo sradicano dal linguaggio, l’uomo è vivo, la sua stirpe prolifera.  * Un tempo, quando i libri si compravano nelle librerie, s’intraprendevano folli avventure per cercare il libro definito, quello della svolta. Vagabondai per giorni, a Milano, prima di trovare la “Trilogia di Valis” di Philip K. Dick. Edizione Oscar Mondadori, in cofanetto. Perché mi fossi ostinato a quel libro – torbido, involuto, teologico – non lo so. A volte di un libro ci cattura l’aura – basta quella.  Entrando in libreria – come si entra in una città perduta – era possibile fare incontri inattesi. La vita digitalizzata – il demoniaco dominio del cellulare, insomma – ha recluso le nostre esistenze in un tunnel. Viviamo nei bunker dell’io. In spazi senza accesso, senza concessione. Prima, tutto era un bosco – si era disposti alla scoperta, pronti allo straordinario, i prediletti dell’insperato.  * Intendo dire: la ricerca del libro assoluto. Il libro-tutto. Il libro che somma cielo e terra, che abbraccia i vivi e i morti. Il libro che vivifica. Che fa risorgere.  Ad esempio: purché sia escluso da quella rivelazione, possiedo – e sono stato posseduto – da una serie di edizioni dell’I-Ching, l’arcano libro divinatorio cinese. Preferisco l’edizione curata da Eranos; l’ho avuto nelle versioni inglese, francese, spagnola.  Da ragazzo, conferivo le stesse facoltà – chiamatela taumaturgia del linguaggio – ai libri di Thomas S. Eliot.Rapivo ogni possibile traduzione della Terra desolata; mi confinai nei Quattro quartetti. Dal canonico viaggio in Inghilterra – fatto in treno, dormendo dove capitava – tornai povero di tutto ma con l’edizione Faber dei Selected Poems di Eliot. Più tardi, da adulto, provai una simile coincidenza con l’opera di Saint-John Perse. * A volte un libro è il solo conforto: ma con i libri non si tratta, si lotta; infine, finisci per odiarli. C’è differenza tra claustrale e claustrofobico.  * Questo articolo voleva affrontare un argomento che può apparire assurdo ai più. È questo: comprare più volte lo stesso libro. Preciso: non lo stesso libro in altra traduzione o diversa edizione (pratica buona & giusta, a volte necessaria), ma lo stesso libro nella stessa traduzione pubblicata dallo stesso editore nello stesso anno. Una copia. Una copia di una copia di una copia. Che assurdità. È come se ri-comprando lo stesso libro – o ri-rubandolo – potessi azzerare l’esperienza di lettura precedente (dunque: potessi azzerarti). Come se potessi ‘riverginare’ il libro. Oppure, come se quella innaturale fedeltà potesse concederti un accesso privilegiato alle zone segrete, alle zone oscure di quel libro.  Già, perché il principio di ogni libro è che abbia un unico lettore, un lettore eletto: tu. Gli altri sono dei vili mestatori di opinioni, degli eresiarchi. Tu sei il solo custode della verità appena sussurrata da quel libro che, pur tirato in migliaia di copie, esiste perché proprio tu lo legga. È stato scritto per te, incidentalmente gettato in pasto al vile mercato degli altri.  I libri esistono in un’unica copia, per un solo lettore. Tu. * (Diamoci il privilegio, in questo tempo brutale, in questo tempo funesto, di parlare di cose frivole, di cose che ci tengono stretti all’umano. Anche questo – come si accarezza un albero e si guardano le stelle – è un atto di grazia e di esistenza).  * Il primo libro che ho comprato almeno tre volte è l’Ulisse di Joyce. La sua lettura mi folgorò, al liceo – avevo un’insegnante di inglese particolarmente severa, che mi ha inoltrato nell’opera di Yeats e di Ezra Pound. Ho comprato tre copie dell’Ulisse, a distanza di tre anni, perché non lo capivo. Più non lo capivo, più mi incaponivo, mi incapronivo, mi incapricciavo. Quel libro racchiudeva un mondo, quel mondo non mi piaceva, ma lo volevo capire. Lo volevo.  * Un giorno, spiazzandomi, l’insegnante di inglese mi disse di preferire la letteratura mitteleuropea: il suo libro del cuore era La morte di Virgilio di Hermann Broch. A casa, mio padre ne aveva una copia. Il volto di Broch, in copertina, pareva quello di un alienato: a metà tra il Minotauro e il grifone. Il libro mi parve infinitamente più vasto e vertiginoso dell’Ulisse: ne ho ancora tre o quattro copie, da qualche parte.  * I libri che, negli anni, senza che ve ne sia bisogno, senza ritegno, si comprano più copie rientrano in un rango augusteo e angusto. Solo pochi vi appartengono. E – questo l’ho capito negli anni – ad appartenervi non sono per forza i libri più belli, quelli a cui siamo più affezionati. Di quelli, basta la copia originaria, basta riaprire quella per rientrare nelle proprie origini. Faccio un esempio che mi riguarda. Ho diverse copie del Libro della giungla di Rudyard Kipling perché, senza che lo abbia scelto, è penetrato nella mia infanzia. Ancora oggi, voglio essere Mowgli e Bagheera. “Non c’è chi non ne abbia sentito il fascino”, è scritto, scagionando la mia ossessione, nella Nota introduttiva dell’edizione Bur del 1951: l’ho trovata in un mercatino, qualche anno fa. La traduttrice, Giuliana Pozzo Galeazzi, ha tradotto anche Jane Eyre e Bertrand Russell. Il Libro della giungla non è il mio libro preferito – è il mio libro e basta.   Lo stesso rapporto infantile, selvatico, mi lega a Moby Dick – ne avevo decine di edizioni diverse, la prima apparteneva a mio padre: edizione Frassinelli, total white, traduzione di Cesare Pavese.  * Ai libri di cui ho comprato – o rubato – diverse copie mi lega un rapporto di amore e odio. Ne amo la nomea, il portamento, l’apertura alare, per così dire – eppure, continuo a sfidarli perché non sono riuscito a penetrarli. Ogni volta, rinnovo la sfida. Tra questi libri così singolari, che mi visitano ogni eone di mesi, ricordo La montagna incantata di Thomas Mann, La storia di Genji il Principe Splendente di Murasaki Shikibu, Rigodon di Céline, Sotto il vulcano di Malcolm Lowry. Sono libri che mi tormentano, di cui conosco alcune pagine a memoria, che ogni volta rileggo e abbandono. Benché possa citarne altri a me più cari – chessò, Cuore di tenebra di Conrad, L’urlo e il furore di Faulkner, Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, Come l’acqua che scorre di Marguerite Yourcenar, Chadži-Murat di Tolstoj – sono quelli i libri che mi accompagneranno, mordendomi il cranio, fino alla fine. * Di alcuni libri, è vero, ho acquistato più e più copie, per regalarli – non rientrano nel lotto della lotta. Tra questi, sono affezionato, con rigore totale, a Il colpo di grazia della Yourcenar e alla Casa delle belle addormentate di Yasunari Kawabata. Allo stesso modo, i libri che ci sono stati donati vivono in uno spazio tutto loro. Regalare un libro presuppone una intimità che intimidisce. Chi ci regala un libro pensa che siamo in qualche modo incardinati in quel libro, promessi a quel verbo: lo leggiamo, allora, per scoprire chi siamo agli occhi di chi ce lo ha donato. Le scoperte – e i fraintesi – sono spesso sorprendenti, a tratti agghiaccianti. Un libro che ci è stato donato e che non ci riguarda – che mancanza di riguardo – può essere donato a sua volta.  Valgono come autentici doni, però, soltanto i libri che abbiamo vissuto intensamente, quando non sottolineato e appuntato e strappato. Ricordo un’edizione delle lettere di Kafka a Milena – Mondadori, traduce Ferruccio Masini – che mi è stata regalata molti anni fa: modesta, sbrindellata, piena di note. Il regalo più bello – un patto.   * Cito soltanto romanzi. I poeti non rientrano in queste viete classifiche: hanno la pretesa di incendiare l’intera biblioteca e di resistere, frantumi di un futuro ancora da costruire. La poesia vuole dedizione, solitudine, amore; le poesie vanno imparate a memoria, il loro supporto non è un libro, ma l’intero corpo di chi legge.  Quando mi hanno regalato Hugo von Hofmannsthal, ad esempio, ho fatto i salti di gioia, fino a dire: è lui il più grande, è più grande di Rilke! Un’eresia, è vero, ma come si fa a non amare assolutamente un poeta? * Ogni volta che vado in libreria – ci vado di rado, ridotto per lo più a un ebete analfabetismo leggo soltanto i Vangeli, perimetrando la mia enorme inermità – non posso non comprare un’edizione del Dottor Živago: credo che sia uno dei libri decisivi del secolo, ma le poesie di Boris Pasternak siano infinitamente più belle. In questo, seguo il giudizio di Varlam Šalamov. Eppure, ogni volta torno a comprare Il dottor Živago – è una malattia la mia, lo so, voglio che Il dottor Živago sia il libro totale, il libro che risponde a ogni mio enigma, il libro che mi corrisponde. Ogni volta rileggo Il dottor Živago, ogni volta lo mollo – c’è qualcosa di liquido, qualcosa di paludoso che mi respinge.  In una delle ultime edizioni acquistate – Nuova Universale Einaudi, 44, 1968 – la prefazione di Eugenio Montale non è d’aiuto. Il grande poeta, da poco senatore a vita, scriveva prefazioni di solito gelide, attrezzate in sprezzatura, a tratti ingenerose, alle Liriche cinesi come alla Coscienza di Zeno; scrisse che “Il dottor Živagoè uno di quei libri che possono dar tempo al tempo”, che è come dire tutto e nulla.  * In ogni caso, ogni biblioteca privata esiste per essere spezzata. La biblioteca non è una voliera, è come un rapace: deve prendere il volo. Non si possono imprigionare i libri: hanno un destino vivente, di albero, di roccia. Eredità di eresie. Giampiero Neri, antico sapiente della poesia italiana, citava nei suoi libri innumeri altri libri, tra i tantissimi: Omero, Laozi, Melville, Tacito, i Ricordi di un entomologo di Jean-Henri Fabre. Recitava a memoria Dino Campana e Virgilio, amava la Vita di Milarepa. Eppure, la biblioteca di casa sua era scarna, uno scaffale appena. Neri regalava i libri a chiunque andava a trovarlo: io scelsi le Conversazioni con Kafka di Gustav Janouch in una vecchia edizione Guanda.  Anche Nicola Crocetti, ogni volta che vado a trovarlo, si congeda dai suoi libri, regalandomeli: l’ultimo, Kotik Letaev, è presentato come “il capolavoro di Andrej Belyj, il Joyce russo”. Lo ha curato Serena Vitale per “La biblioteca blu”, la formidabile collana di Franco Maria Ricci, era il 1973; il libro è stato stampato “a Torino presso il signor Giovanni Zeppegno”.  * Vagabondando di qui e di là, ho smarrito gran parte dei miei libri: che bello, li rincorrerò per sempre. Eredità è una parola-cecchino. Kotik Letaev mi fissa, mi squadra, è un libro sproporzionato: più che leggerlo, me lo immagino. Prima di leggerli, i libri vanno immaginati – se non sono all’altezza della vostra immaginazione, gettateli via.  La copertina di Kotik Letaev, bellissima, raffigura una serpe avvolta intorno a un uovo. Secondo il mito pelasgico, Ofione, il serpente, si arrotola sette volte intorno all’uovo cosmico deposto da Eurinome, “e ne uscirono tutte le cose esistenti: il sole, la luna, i pianeti, le stelle, la terra con i suoi monti, con i suoi fiumi, con i suoi alberi e con le erbe e le creature viventi” (così Robert Graves nei Miti greci, libro più volte trafugato, più volte ricevuto in dono).  Non servono più i libri, ma conformarsi alle stelle, stare nel verbo vivente.  L'articolo Sulla mania di comprare sempre gli stessi libri. Ovvero: conformarsi alle stelle proviene da Pangea.
September 13, 2025 / Pangea