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Il tormento e l’estasi. Tra apostoli sciamani e stregonerie del linguaggio: il poeta dica soltanto “parole indicibili”
Nella Seconda lettera ai Corinzi, capitolo 12, Paolo dice di essere stato “rapito fino al terzo cielo”, nel luogo detto “Paradiso” e lì di aver “udito parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare”. Ne dice parlando in terza persona – “so che un uomo, in Cristo…” – dicendo di non sapere se questa razzia di sé, accaduta quattordici anni prima, sia stata compiuta “con il corpo o senza corpo”. L’insenziente corpo, l’insaziato corpo, è posseduto da Cristo.  Nella Prima lettera ai Corinzi, Paolo – capitoli 12-14 – distingue tra “profezia”, linguaggio a edificazione della neonata ecclesia, e “glossolalia” – le “lingue degli angeli” – l’incomprensibile idioletto che congiunge il fedele, l’ispirato, a Dio, frutto di singolare esperienza, che non si può comunicare.  Paolo scrive agli abitanti di Corinto, la città legata a Poseidone, dove si svolgevano i giochi Istmici; la città di Sisifo, dove Medea ordisce la sua vendetta contro Giasone. In cima all’Acrocorinto, ricorda Pausania, spiccava il tempio di Venere, “nel quale sono la statua della Dea armata, quella del Sole, quella dell’Amore con l’arco”. Non è un caso che Paolo operi il suo trattato sul linguaggio nella terra del logos; che parli della “straordinaria grandezza delle rivelazioni” nella terra dei misteri, dell’enigma, della trance. Scrivendo in greco – lingua accessoria, d’uso, non connaturata, che è poi la subdola lingua dei Vangeli, redatti nella lingua che Gesù non parlava – Paolo risignifica ogni parola. È come se mutasse su zattera il senso di ogni sintagma. Nella terra del logos egli si fa portavoce del Logos, il Verbo che sconfigge ogni verbo. * Nel dodicesimo libro della Genesi alla lettera, Agostino sviscera il brano di Paolo. Come esistono tre cieli, così esistono tre specie di visioni, quella “corporale”, quella “spirituale” e quella “intellettiva”. Delle visioni, occorre discernere quelle che sono ispirate dagli “angeli buoni” da quelle che sono insinuante opera del demonio. In sostanza – sulla stessa scia di Paolo – Agostino disciplina la facondia estatica dei fedeli. Il tempo in cui gli dèi parlavano nei fiumi, nel vento e negli alberi, in cui tutto era opera, è al tramonto: improvvisamente, non c’è più strepito, ma silenzio, le cose mutevoli sono ormai mute, alla selva fa specchio la basilica, al mito il rito.  A un certo punto, per assecondare “alcuni dei più stimati commentatori delle Sacre Scritture in conformità con la fede cattolica”, Agostino scrive che “l’Apostolo inoltre sarebbe stato rapito per contemplare in una visione di straordinaria evidenza il regno delle realtà incorporee che le persone spirituali anche in questa vita amano e desiderano godere al di sopra di ogni altra cosa”.  In realtà, Paolo non dice di aver visto, ma di aver udito qualcosa. Visione per verba, preverbale. * I pionieri del cristianesimo, gli apostoli, parlavano in lingue, possedevano parole efficaci, in grado di sanare e di far risorgere i morti. Così dice Gesù ai Dodici: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni”; atto che si compie “dicendo che il regno dei cieli è vicino” (Mt 10, 7-8). Annuncio che guarisce, linguaggio che vince la morte. Non unguento né formulario offre il Nazareno, ma un “potere” che lavora tramite corpo e lingua – linguaggio incarnato, lingua amuleto, Verbo che dilaga. Di ciò non resta che qualche vestigia – l’esorcismo –; quanto al resto, è compilazione di atti ruderi che segnalano una sequela. Mirabile danza – nei sacerdoti che non optano per un ‘fai-da-te’ liturgico – la cui forza si misura, semmai, in eoni. Quasi che all’entusiasmo delle origini sia sostituita la sfinente attesa, il dispiegarsi di una spettrale speranza. All’efficacia seguì l’ufficio.  * Alle origini, i cristiani ‘sciamanizzavano’ – guarivano i malati, avevano visioni, elevavano a nuova vita i morti, parlavano in lingue – e andavano in estasi. La parola ekstasis – nel senso proprio della trance, dell’uscire fuori di sé – ricorre due volte nel Nuovo Testamento. La prima (At 10, 9 ss.) riguarda Pietro: la guida degli apostoli è a Giaffa, è mezzogiorno, è sulla terrazza di una casa a pregare, quando, “Gli venne fame e voleva prendere cibo. Mentre glielo preparavano, fu rapito in estasi”. Pietro vede una tovaglia, imbandita di quadrupedi, rettili, uccelli. Il senso della visione è legato alla storia del centurione Cornelio, “uomo giusto e timorato di Dio”, un “impuro” – come i cibi visti in estasi – che si avvia alla conversione. All’estasi di Pietro sono legati i criteri dell’estasi arcaica: la preghiera solitaria, il digiuno preparatorio, la visione che rovescia il canone costituito.  Gli Atti degli Apostoli dicono anche del rapimento di Paolo (22, 17). È lui a farne testimonianza, davanti ai Giudei: al racconto della “voce” udita mentre andava verso Damasco, della luce che lo acceca, segue quello dell’estasi. “Dopo il mio ritorno a Gerusalemme, mentre pregavo nel tempio, fui rapito in estasi”. Durante l’estasi, Paolo vede Cristo che gli rivela “ti manderò lontano, alle nazioni”. Pur diversa da quella di Pietro – qui si calca un compito – l’estasi è simile nel codice: convertire i pagani.  * Che s’intende dire? Che il cristianesimo originario non è statico, non istituisce norme, ma è insicuro, instabile – è nella giovinezza della danza. La parola estasi, nel mondo greco, è centrale (si legga: Negli abissi luminosi. Sciamanesimo, trance ed estasi nella Gracia antica, a cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, 2021) nell’affronto col numinoso, nell’addestrarsi al suo contatto. Nei Vangeli, Gesù obbliga a una continua uscita da sé, a un linciaggio del sé, al brigantaggio dell’io – e lo fa nel Verbo. Dopo la sua morte, l’accesso a Lui è tramite memoria e estasi.  Così scrive Tonelli, per capirci sulla tempesta estatica greca: > “La capacità profetica nasce dalla mania, ovvero da una condizione > di trance che consente di trascendere i limiti dell’ego e della coscienza > ordinaria, strutturata spaziotemporalmente, aprire un varco ed entrare in > contatto con l’Assoluto invisibile”.  Emozione sonnambula nell’assistere al mutamento radicale di alcune parole-dolmen – profezia, estasi, mania, logos – da un tempio (Atene) a un altro (Gerusalemme). Paolo sa di aprire un nuovo mondo: scrive come dal sepolcro vuoto; scrive rovesciando le pietre.  Ai primordi del cristianesimo tutti i paramenti – le vesti animalesche, il tamburo, i cembali, le maschere, il fuoco e le erbe – sono inutili: in quella fanciullezza, Gesù accadeva così, d’improvviso, senza preparazione, era dietro la porta, origliava, preparava la tavola.  * Unico compito della poesia, svestita delle corazze letterarie: dire le “parole indicibili [ekousen arreta] che non è lecito ad alcuno pronunciare”. Il resto: didattica del verbo, bieco conforto, confusione.  * Vado a Mercatello sul Metauro: il luogo di Veronica Giuliani. Nella violenta sequela del linguaggio non arretra di fronte alle ekousen arreta, non indottrina le indicibili parole.  Vedo il sentiero che da Mercatello va a Città di Castello, dove Veronica si infossa tra le cappuccine. Trenta chilometri. Li faceva a piedi. Tra forre, campi, terre glabre, lunari scollinamenti: era questo il deserto di Veronica. Il sole è filisteo – è tutto un furore di lucertole.  Nella casa natale di Veronica – nata qui il 27 dicembre del 1660 – elargiscono lieti depliant. Uno di questi, Spes contra Spem, raduna uno spettro di pensieri che non ammette decoro. Questo è il primo:  > “Mi sento con una oscurità ed aridità così grande, che non ho neppure un > pensiero buono. Non mi posso aiutare con atti di fede, perché non mi pare > d’aver fede in niente; né con atti di speranza, perché non trovo ove fermarmi; > né con atti di carità perché non so cosa sia. Mi sento la mente così offuscata > e come una nebbia densa che mi copre qualsiasi bene”.  Diremmo, il coraggio della disperazione – sfigurare il niente. Un niente che è nient’altro che niente – nessun premio corona la corsa del fedele in tale notte oscura. La Giuliani non è Giovanni della Croce – è al di là.  Il pio cronachista stempera a inconsistenza il martirio di Veronica e scrive che “Tante esperienze mistiche destano l’attenzione del Sant’Ufficio che esamina e controlla severamente il suo operato, provocandole una grande sofferenza; viene però scagionata da ogni accusa di falsità e mistificazione”. Nello specifico, le cose, riguardo alla grande sofferenza, sono andate così: “Denunciata al Sant’Uffizio nel 1697, viene esaminata con insistenza impietosa, ispezionata corporalmente in modi umilianti, segregata, privata d’ogni carica, interdetta dal comunicare con l’esterno. Il rigore si attenua, ma riprende presto in forme più dure, toccando l’apice nel 1714, con le sconsideratezze d’un giovane confessore che la tratta da strega (in un’età in cui le streghe andavano al togo), da indemoniata e le impone di leccare sterco, inghiottire insetti” (così in: Scrittrici mistiche italiane, a cura di G. Pozzi e C. Leonardi, Marietti,1988). Veronica muore nel luglio del 1727. Da bambina fu falciata dalle estasi: vedeva Gesù; da ragazza, a Piacenza, al seguito del padre, fu desiderata da molti, era bellissima. Sconveniente il suo essere: tirava di scherma, preferiva gli abiti maschili, non dominava l’ira. Dai pretendenti – nobili, tanti – si schermò con l’immagine del Crocefisso.  * Della Giuliani, l’agone nel linguaggio, l’agonia. Analfabeta, “imparò a scrivere scrivendo”, sotto obbligo del confessore, dal 1693: da quella tortura proviene il diario, abnorme – oltre ventiduemila pagine –, in cui, con rozza violenza, descrive le sue rivelazioni. È tra i grandi scrittori italiani di ogni tempo – purissimo cannibalismo si avverte qui, e avvince. Temprato, il suo scrivere, dalla scomodità e dallo scandalo: Veronica “scriveva solo di notte, in positure estremamente disagiate… una scrittura, la sua, nata nel coniugio del buio esteriore con le tenebre dell’anima”.  Per dire l’indicibile, inventa parole. La sua speleologia nel niente è insuperata: > “…perché Idio più si fa sentire e intendere, meno si sente e si cape. È > incomprensibile, non v’è modo di capire niente, è immenso, non c’è capacità a > comprenderlo, né creatura alcuna pò mai arivare a questo, e se esso dà qualche > sagio al’anima di questo suoi divini atributi è in modo che non si trova modo > a racontarlo. Più si cape meno si cape, più s’intende men s’intende; ci fa > scordare di tutto; resta l’anima tutta asorbita in Dio, non capisce più niente > di sé né di nulla di questa vita”.  L’enorme inermità della parola – “Dico e ridico e non dico niente” – la rende rondine a penetrare l’eterno. Mistero dei misteri, il Dio che non va pronunciato invano è, invece, detto e contraddetto – detto fino a esaurire ogni umano verbo – detto fino a spaccargli il volto.  Il diario della Giuliani: una straordinaria cancellatura, una sparizione nella torba linguaggio. Una diario-petroglifo: lapidazione di frasi lapidarie. “Io non dico altro. Non so cosa abbia detto”; “Non dico altro, perché tanto non dico niente”. Eppure, continua a dire, a ridire, ossessionando l’alfabeto fino al bestiario, alle fiere e ai mostri, Veronica, a fecondare il divino niente (“Te ne stai nel profondo del tuo annientamento”): che fiorisca – lei sguainerà falce e denti in legione.  * Mettere a repentaglio il linguaggio, rapinarlo da ogni senso, insediarsi in esso per insidiarlo.  Più tardi scendo verso il Metauro. Le acque sono straordinariamente limpide – limpide come di capelli chiari. Non c’è difetto di distanza tra il corpo di Veronica Giuliani e il corpus dei suoi scritti: si scrive, si intaglia. A quel punto di concisione, basta che qualcuno ti dica davvero e sparirai – puf! Comunque, a Mercatello, cornacchie ovunque, in ogni infisso di casa. Sono una decina, sul ponte. Hanno preso dominio di una piccola cappella. Sopruso di becchi nei ruderi. Forse gli abitanti, qui, rinascono cornacchie. Forse Veronica ha previsto l’immacolato tormento di Kafka. Al cielo bufalo hanno tagliato le corna.  *In copertina e nell’articolo alcuni “Studj di pittura” di Giambattista Piazzetta (1682-1754) L'articolo Il tormento e l’estasi. Tra apostoli sciamani e stregonerie del linguaggio: il poeta dica soltanto “parole indicibili” proviene da Pangea.
July 7, 2025 / Pangea
Saturi di stelle. Gita tra i calanchi con l’innominabile Beckett e il Vangelo di Filippo
Entro a Montecalvo a piedi – il sole ha il becco, l’azzurro è carnale, viene da morderlo. È un azzurro bue – un azzurro bestia da soma. Il sole sollazza, lì sopra. Plana.  Provincia di Pesaro-Urbino, un castello nel vessillo comunale, poco meno di tremila abitanti. Due bambini giocano – i re del luogo. Una signora, alla finestra, fuma; un tizio fa lo scalpo al giardino di casa. Sabato – giorno di riposo, giorno di Saturno. Un tempo, qui si sfogavano in lotte senza quartiere gli sgherri del Montefeltro e quelli del Malatesta – di qui passò Francesco Sforza; il castro fu messo al sacco da Cesare Borgia. Il borgo vanta ascendenze romane.  Di tali, vestigia, oggi, non ci sono che straccetti. I bombardamenti alleati, durante la Seconda guerra, hanno raso al suolo il paese. In particolare, gli aerei della Raf hanno devastato la chiesa medioevale di San Nicolò: nella struttura moderna – brutta come tutte le chiese moderne – è conservata la campana del XIII secolo.  Per lo più: il bendaggio del silenzio. Un borgo sdentato.  * Montecalvo dà su un abisso di calanchi: è questo a confermargli il carisma di una superba alterigia.  Certo: bisogna scaraventarsi oltre i sentieri segnati; aprire un percorso tra i rovi. A terra, le tracce calligrafiche del capriolo – poi, grumi d’erba smossi dal cinghiale. Qualcuno dice di aver visto il cervo – ma i boschi sono pigmei, laceri ai fianchi. Qualcuno dice del lupo vespertino, che s’incunea tra le assi della notte. Nel crinale opposto, galoppano le mucche, mai viste così agili, così fulve. Regna il gheppio, l’amuleto dei rapaci – appollaiato sui cavi elettrici.  Il grigio dei calanchi, terra aspra resa lunare dalle acque, mi ricorda il volto, infossato di rughe, di Samuel Beckett. Qui immagino che possa parlare L’innominabile: > “Adesso dove? Adesso quando? Adesso chi? Senza chiedermelo. Dire io. Senza > pensarci. Chiamarle domande, queste, ipotesi. Andare avanti, chiamare questo > andare, chiamare questo avanti”.  Qui dovrebbero venire a leggere L’innominabile – a inscenarlo. Vocio interminabile dell’Innominabile – “D’altra parte a parlare sono obbligato. Non tacerò mai. Mai” –, vocio-pigolio, balenio di belati, che disintegra l’idea stessa del romanzo, come la pioggia fende le coste argillose, che degradano all’eone di terra inferiore, infera. I calanchi: paesaggio che cammina. I calanchi sono il luogo Innominabile: non c’è tenacia vegetale che possa attecchire su quelle guance scavate, su quel glabro.  Parola lebbrosa, panorama dolente.  * Da noi la trilogia di Beckett – Molloy, Malone muore, L’innominabile: scritta in francese, pubblicata in Francia tra il 1951 e il 1953 – è ora raccolta nel ‘Meridiano’ Mondadori che raduna Romanzi, teatro e televisione(2023). Strumento straordinario – leggere è altro – prevede: sradicare e farsi dilaniare, mica sfogliare. La Faber pubblica la trilogia, libro per libro, per festeggiare i settant’anni dalla prima edizione in inglese di Molloy. L’introduzione dei libri è affidata a tre scrittori contemporanei: Colm Tóibín, Claire-Louise Bennett and Eimear McBride.  Non so se si possa scrivere qualcosa di sensato intorno ai romanzi di Beckett: nella loro voragine sono così audaci, così espliciti.  Samuel Beckett, il calanco della letteratura occidentale.  Lo dice lui, tra l’altro: > “La sola ricerca fertile è quella che scava, che si immerge, è una contrazione > dello spirito, una discesa. L’artista è attivo, ma in modo negativo: > indietreggia di fronte alla nullità dei fenomeni siti al di fuori della > circonferenza, è attratto verso il centro del vortice”.  * Bisogna immergersi nei calanchi per capirne la spudorata attrazione. Un’attrazione che ti si pianta fin nella fibra del sogno.  Sognai calanchi.  Dal vero, ne ho cavalcato uno. Camminare sul crinale tra due calanchi, lungo una sella d’erba. Stellate di spine intorno. Spine serpentine. Straordinario il silenzio nei boschivi, irsuti, che spaziano sulla cima dei calanchi. Come se le bestie fossero spaventate da quella terra senza mediazioni, un rinoceronte d’argilla. Il sogno del calanco: farsi vulcano, svanire.  * Secondo Harold Bloom, Beckett è l’erede di Joyce, di Proust e di Kafka. Viene dopo quegli scrittori-foresta. Viene nell’era desertificata. “La trilogia di Beckett (Molloy, Malone muore, L’innominabile) rappresenta un vero passo oltre e nulla di ciò che è stato impropriamente chiamato postmodernismo ha raggiunto il suo livello”. Così scrive Bloom.  Come si fa a scrivere un romanzo come L’innominabile? Fare lo scalpo all’anima. Entrare per frode nel linguaggio – già, questo fa lo scrittore: ladrocinio del linguaggio. Deve frodare il linguaggio che, altrimenti, a lasciarlo fare, ci frega, ci sfregia nel frainteso. Frastuono. Frana.  Stare nel centro del vortice. Nel centro di un calanco. Come si doma una stella cometa. Cominciare da lì. Piantumare di sé il calanco.  * Nel suo libro più bello, Rovinare le sacre verità (un tempo Garzanti, ora SE), uno studio su “Poesia e fede dalla Bibbia a oggi”, Harold Bloom scrive che Beckett era uno gnostico “naturale”, scrive che “Basilide o Valentino, eresiarchi alessandrini, avrebbero subito riconosciuto il mondo della trilogia... È il mondo dominato dagli Arconti, il kenoma, il non-luogo di vuoto”. Forse per questo, a perdifiato tra i calanchi – un fiato ben arato da paleolitico di grigiori –, mi è venuto in mente il Vangelo di Filippo. I calanchi non conservano ombre. Al centro di un calanco: si è come nel Pleroma; si è come in un grembo – si retrocede dal feto, si recede da ciò che resta dell’immagine. Falansterio di falci.  Scoperto a Nag Hammadi, il Vangelo di Filippo era d’uso proprio tra i valentiniani citati da Bloom. Si trova facilmente in rete; in Italia esiste la traduzione commentata di Luigi Moraldi, nei Vangeli gnostici editi da Adelphi. In appendice, ne ho tradotto qualche fibbia, dalla versione di Willis Barnstone: poeta dal solido talento, nato nel Maine quasi un secolo fa, ha tradotto, tra l’altro, Saffo, Wang Wei, Giovanni della Croce e le poesie di Mao Tse-tung; fu amico di Borges. Segno questo detto (dalla versione di Moraldi): > “Dio è un mangiatore di uomini; per questo l’uomo gli è immolato. Prima che > gli si immolasse l’uomo, gli si immolavano animali, giacché coloro ai quali si > sacrificava non erano dèi”. Alla coincidenza degli opposti, eraclitea, segue la messa in questione dei ‘nomi’. I nomi sono illusori, futili nodi che ci legano a questo mondo, a questo tempo, alla superficie carnale delle cose. Soltanto chi possiede i nomi occulti – il frutto sotto il carapace –, vive nel regno pur su questa terra. Questa concezione, propria di chi scrive, è canone in Beckett: si scrive maneggiando un coltello; bisogna scrostare i sacrosanti nomi, gli inesatti nomi, i nomi ingannevoli delle cose. Ma chi può sopportarne lo splendore, poi? La nudità sfoggiata dai calanchi: nome indottrinato dalla spoliazione. Oltre la nudità di ciò che è nudo, oltre l’ultima, intima screpolatura, oltre la più conficcata fenditura – a che quel bisbiglio? Cosa risuona? Acqua battesimale – acqua che dilaga il fuoco – che dilata le doghe della valle.  * Nessun suono rimbomba sulle pareti dei calanchi: la terra ha molte bocche, la terra ha sete di te. Strana sensazione: come di stare nel retro del sole, nel suo cuoio.  Ecco: è come stare nel cranio vuoto del sole.  All’opera di scavo, all’ascesi, segua l’ascesa. Nello zaino ho Canto di vita, un’antologia di poesie di Hugo von Hofmannsthal; è un libro lieve, apollineo. Edito da Einaudi nel 1971, la traduzione è di Elena Croce.  Chi legge oggi le poesie di Hofmannsthal? A me paiono salvifiche. Sono il punto di giunzione tra gli inni di Hölderlin e i versi di Rilke – solo: privati del dramma, della reclusione, dell’annaspare tra i gangli di una risposta. Hofmannsthal è l’annuncio, è il grande arciere, orefice di oracoli. La sua poesia è una luce senza schegge, una luce laccio – forse è per questo che, sgorgata nell’infallibile giovinezza, ha costretto il suo autore al silenzio. Hofmannsthal ha scritto pochi, perfettissimi versi – poi, si è volto ad altro.   Più tardi, tento di rimescolare Manche freilich…, una delle poesie più ambigue. Si parla della morte, di lande stellare, del collasso degli altri; dell’invasione della vita in altre vite, dell’ombra e di un’anima spaventata. Non serve capire quando si cammina tra gli assoluti. La figura della schmale Leier, la “stretta lira”, sarà ripresa da Rilke nei Sonetti a Orfeo.  Alcuni – è vero – moriranno là dove sibilano serpentini i remi ma altri siedono al timone, saturi del volo degli alati, delle lande stellari.  Alcuni hanno pesanti corpi artigliati alle radici della vita ma altri hanno un seggio tra le Sibille, le regine, perché lì è casa leggero il capo, leggiadre le mani.  Ma l’Ombra gemma da quella vita nelle altrui vite il leggero si aggioga al pesante come l’aria ai nodi della terra: la pena di popoli dimenticati non posso alienare dalle palpebre né tentare l’anima, l’intimorita, con l’intemerato crollo di lontane stelle.  Molti destini sono intrecciati al mio l’Essere gioca a confonderli ma la mia parte supera questa vita l’ilare lira, la dinoccolata fiamma.  Il cielo impone nubi, per convalidare il suo rito in una litania di scure vesti, di volti tirati. Pioverà. I calanchi intoneranno il loro lugubre canto. Da lontano, le raganelle già si misurano con Beethoven. Qualcosa si muove – bene, in fondo, è l’arte di adescare.  ** Dal Vangelo di Filippo Luce e tenebra Luce e oscurità, vita e morte, destra e sinistra sono pargoli, inseparabili, sempre insieme. I buoni non sono buoni, il malvagio malvagio non è, vivere non è vivere, morte non è morte. Ogni elemento sfuma nell’origine.  Chi vive al di là del mondo non svanisce. È eterno.  * Nomi I nomi delle cose terrene: illusioni.  Rivolta dal reale all’irreale. Se ausculti la parola “dio”: perdi il reale predi l’irreale. Padre, figlio, spirito santo, vita, luce, resurrezione, chiesa.  Parole non reali. Irreali  ma riferite al reale vengono udite dal mondo. Ingannano. Se fossero i nomi del Regno nessuno sulla terra li udirebbe.  Qui nessuno li assegna. Il loro fine è insediarsi nell’eterno regno.  * L’occulto Gesù è nome occulto, Cristo manifesto.  Gesù non è parola qualsiasi, ma il nome con cui è chiamato.  In siriaco Cristo è Messia, in greco è Cristo. Ogni lingua a suo modo lo chiama. Nazareno è il nome rivelato di ciò che giace nel segreto.  * Cristo  Cristo, in sé, è tutto, è tutto l’uomo l’angelo, il mistero e il padre.  * La perla Se la perla è gettata nel fango, non perde valore se la strofini con olio puro, non acquista valore.  Per sempre è preziosa agli occhi di chi la possiede.  Ovunque sono, i figli di Dio  sono preziosi agli occhi del padre. * Dio, il cannibale Dio è un cannibale, Dio mangiatore di uomini. Per questo, la gente a lui si sacrifica. Prima che gli uomini dessero la vita per Dio si sacrificavano le bestie, perché chi li divorava non erano dèi.  * Vetro e terra I vasi di vetro e quelli di terracotta provengono munti dal fuoco. Quando un vaso di vetro si rompe, lo rifanno: il respiro lo ha creato.  Quando un vaso di terracotta si rompe, lo si butta: non è il frutto di un respiro.  * Uomini e bestie La superiorità degli uomini è invisibile  agli occhi: risiede nel nascosto. Per questo, dominano sulle bestie che sono più forti e più grandi in forme visibili e nascoste. Così, sopravvivono.  Quando l’umano si ritira, le bestie si uccidono e si divorano tra loro: non hanno cibo. Ma ora hanno cibo, perché l’uomo ara la terra.  * Il mistero delle acque Se ti inabissi nelle acque e risali senza essere risanato e dici: “Sono cristiano” prendi in prestito un nome.  Ma se ricevi lo Spirito Santo hai in dono il nome. Un regalo non si deve pagare.  Il prestito, invece, deve essere saldato con gli interessi. Questo  significa: varcare un mistero.  * La foggia del fuoco Anima e spirito sorgono dall’acqua e dal fuoco. Dall’acqua, dal fuoco, dalla luce viene l’attendente nella camera nuziale. Fuoco è crisma. Luce è fuoco. Non mi riferisco alla fiamma informe, ma a un altro fuoco bianco, luminoso, bello che conferisce bellezza.  * Resurrezione Il Signore risorge dai morti.  È ciò che è ma ora il suo corpo è perfetto. Incarnato  ora è nella vera carne. Questa nostra carne non è vera.  Questa nostra carne è soltanto la parvenza del vero.  L'articolo Saturi di stelle. Gita tra i calanchi con l’innominabile Beckett e il Vangelo di Filippo proviene da Pangea.
April 18, 2025 / Pangea