Un passo lieve, la strada sfiora una suola in una mattina come le altre; un uomo
lascia il suo scrittoio per abbandonarsi al ritmo dei marciapiedi, alle
preghiere dei vicoli che urlano monotonia. Dove comincia il senso delle cose?
Nella vastità dei palazzi o nella piega di un fazzoletto?
A volte è difficile gestire una trama quando, nel senso tradizionale, è di fatto
inesistente: racconto senza intreccio, svolgimento o epilogo; solo un io
narrante che decide, in un giorno qualunque, di uscire a passeggiare. Come se
fosse un diario, una confessione, una divagazione, Robert Walser crea un cammino
che non porta da nessuna parte. La meta non conta, è il vagare stesso, il farsi
condurre dall’invisibile.
> “Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del
> genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore di incontrare professori, visiti
> di passata librai e funzionari di banca […] Eppure ciò può avvenire, e io
> credo che in realtà sia avvvenuto.”
Il protagonista – che altri non è se non un alter ego dell’autore – si fa
minuscolo per poter ingigantire il mondo. L’estetica del dettaglio diviene
cosmologia: la cravatta osservata distrattamente, la tenda che ondeggia, la voce
ironica di un banchiere; l’atomo è cosmo, il dettaglio cattedrale.
La prima versione de La passeggiata, oggi edita nella versione italiana da
Adelphi, nasce nel 1917, tra le macerie di un’Europa ferita, destinata a
confondersi tra i rumori della storia e a brillare solo per chi sa fermarsi e
ascoltare la musica di sottofondo. Mentre i cannoni dettano il ritmo del
continente, Walser scrive il suo vangelo minore, trasformando l’ordinario in
epifania.
La vita di Walser è dello stesso tessuto fragile del suo libro. Nato nel 1878 a
Bienne, ultimo di una lunga schiera di fratelli, cresce in una Svizzera
periferica, discreta come lui. Lavora come impiegato, servitore, copista;
mestieri umili che lo avvicinano più ai margini che al centro. Pubblica racconti
e romanzi, alfabeti ridotti a pulviscolo, che incantano giganti come Kafka,
Musil, Canetti, Benjamin. Ma non cerca la ribalta. Walser preferisce dissolversi
nella sua lingua minuta, che un giorno diverrà davvero microscopica, nei
famosi microgrammi, fogli fittissimi di scrittura minuscola come polline. La sua
estetica definitiva è scomparire. Non lasciare monumenti, ma tracce. Non statue,
ma impronte di passi sulla neve.
> “Ero disperato. Sì, in realtà io non avevo più nulla da dire. […] Spento,
> estinto come una vecchia stufa. […] Andò a finire che mia sorella Lisa mi
> portò nella clinica Waldau. Ancora davanti alla porta d’ingresso le chiesi se
> quello che facevamo era giusto. Il silenzio di lei mi bastò. Che altro mi
> rimaneva se non entrare?”
Dal 1933, la sua esistenza si ritira nei sanatori con una prima diagnosi di
schizofrenia, poi mai riconfermata. Da quel momento inziano ventiquattro anni di
silenzio, trascorsi in istituti psichiatrici tra Berna e Appenzell, dove scrive
sempre meno fino a smettere. Walser muore il giorno di Natale del 1956, in un
campo di neve, riverso nel bianco durante una delle ultime passeggiate. Le
fotografie ne immortalano le orme e, più avanti, il corpo, avvolto in un
mantello nero, solo, pervaso dalla voglia di scomparire nel nulla.
> “L’inizio e la fine si stringono la mano sorridendo. Apparire e scomparire
> sono una cosa sola”.
Sappiamo bene che ogni autore ha la sua unità di misura; Walser con questo
racconto compone un’anti-epopea del quotidiano. Laddove i grandi romanzi
dell’Ottocento si dilatano in trame ciclopiche, lui restringe la lente fino a
cogliere il tremolio di una foglia o il sorriso sbiadito di un libraio. Non
dominare il mondo così da farsi sorprendere da esso.
> “Molte volte l’apparenza inganna, e l’esprimere un giudizio su qualcuno è
> meglio lasciarlo a lui stesso, giacchè un uomo che ne abbia vissute di tutte
> si conosce più a fondo di chiunque altro.”
È nel granello che si apre la più grande figura retorica che
governa La passeggiata: l’iperbole dell’infinitamente piccolo, dove un ciuffo
d’erba può valere più di un impero. Walser ricama la città, la miniaturizza,
come se ogni parola fosse un punto di ago su di un tessuto di brina. Lì dove
altri autori vedono un fondale, lui scorge un oceano.
C’è inoltre una retorica della leggerezza, in Walser, che tuttavia non scivola
mai nella frivolezza, anzi. La sua è una leggerezza gravosa, come un palloncino
che porta in sé il peso della malinconia. Le sue immagini e i suoi personaggi,
cesellati e ironici, sanno trasformare la passeggiata in un pellegrinaggio
laico, un atto di fede nell’insignificante.
> “Quando mai c’è stata un’anima che senza nulla sacrificare, abbia visto
> compirsi ogni sua ardita ispirazione, ogni dolce, sublime idea di felicità?”
Il narratore, pur occupando la scena, non è mai davvero protagonista. Walser
adotta una postura di auto-svanimento; egli parla, osserva, descrive, ma sempre
con una modestia che lo dissolve. È un io che si offre e si ritira, che si
mostra per rendere visibile ciò che altrimenti resterebbe occulto. Le sue frasi
sono sentieri che non portano a lui, ma al paesaggio. Sono scale che salgono non
verso l’autore, ma verso la brezza che le attraversa.
Le frasi, lunghe, sinuose, sono esse stesse passeggiate; divagano, si perdono,
deviano, ritornano. Non sono mai rette, bensì curve, avvolgenti, labirintiche. È
la periodicità serpentina di una scrittura che preferisce l’ombra alla luce
diretta, l’allusione alla dichiarazione, il sorriso ironico al tono assertivo.
> “Sono pronto a riconoscere che la nautra e la vita umana mi appaiono come
> tutta una fuga non meno seria che affascinante di accostamenti, fenomeno che
> ritengo sia da giudicare bello e fecondo.”
Non a caso, Walter Benjamin trova in Walser l’esempio della teologia del
minuscolo. L’opera di Walser sembra manifestare una politica della riduzione che
Benjamin teorizza a suo modo nelle Passagen-Werk. Entrambi sono attenti al
frammento come luogo rivelatore della storia. Per Benjamin la vetrina, la
réclame, il frammento urbano custodiscono la storia materiale; per Walser ogni
frammento custodisce una cosmologia privata.
Benjamin e Walser convergono nell’idea che l’attenzione al marginale apre una
conoscenza antigerarchica; il particolare diventa lente per leggere il generale.
Tuttavia qui la prassi diverge – Benjamin indaga il politico e lo storico in
quelle fessure; Walser li trasforma in esperienza estetica e morale, in modo
meno teorico e più lirico. Il loro incontro è fecondo perché mostra come il
frammento funzioni come vettore critico e come sublime ridotto.
L’opera di Walser, però, incontra anche altre ombre discrete. Come nei Saggi
di Montaigne, anche qui la divagazione è forma di verità, metodo. Montaigne
scivola da un aneddoto a un ricordo, costruendo un io curioso, sfaccettato;
Walser, nei suoi passi, porta la stessa pratica al limite della sparizione. Dove
il francese si moltiplica, lo svizzero si riduce.
Inoltre, dietro la leggerezza, affiora il passo come terapia, il camminare come
rimedio contro l’angoscia. Søren Kierkegaard percorreva le vie di Copenaghen per
non soccombere alla disperazione; in Walser si ritrova la stessa intuizione: il
movimento fisico come salvezza esistenziale. Solo che qui la cura non nasce da
una scelta tragica, ma dalla sospensione stessa della scelta, dal balsamo del
piccolo. Non a caso, a Herisau, luogo della morte di Walser, è stato inaugurato
un sentiero dedicato a lui (Robert Walser-Pfad).
> “Non perdete il desiderio di camminare; ho camminato fino ai miei migliori
> pensieri, e non conosco pensiero così gravoso da cui non si possa camminare
> lontano. […] Più si sta seduti, più ci si avvicina a sentirsi male. Salute e
> salvezza si possono trovare solo nel movimento… se uno continua a camminare,
> andrà tutto bene.”
>
> Søren Kierkegaard
In un’epoca che idolatra velocità, risultato e rumore, Walser è il santo patrono
del rallentare. Il suo libro è un vero e proprio manuale di invisibilità; ci
mostra come svanire per poter finalmente vedere. Ci insegna a essere distratti
con cura, a perdere tempo come forma suprema di attenzione. È un inno alla
lentezza, al vagare, al lasciarsi trasportare. Un invito a guardare i dettagli
dimenticati, a riconoscere la grandezza nel piccolo, a vivere come perdersi.
Walser compone dunque un’elegia al dettaglio, una litania dell’insignificante.
Il suo libro è fragile come il vetro, e dunque incorruttibile come la verità.
Solo chi si fa piccolo può toccare l’infinito, ma allora chi tocca veramente la
realtà, chi guarda o ciò che viene guardato?
Tommaso Filippucci
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dell’insignificante proviene da Pangea.