Nato a Strasburgo nel luglio del 1856, Léon Wieger avrebbe dovuto percorrere la
stessa carriera del padre, insigne professore di medicina all’università. I
genitori lo avevano adornato di un paio di altri nomi – Georges e Frédéric –; il
ragazzo, per devozione, si iscrisse a medicina. Resistette per un biennio:
folgorato da Cristo, entrò come novizio nei ranghi della Compagnia di Gesù a
ventiquattro anni. Compì l’addestramento a Drongen – Tronchiennes in francese –,
nelle Fiandre, presso l’antica abbazia benedettina passata da poco, dopo alterni
disastri, ai Gesuiti. Ordinato sacerdote nel 1887, Wieger volle impiantare il
suo estro ‘scientifico’ nel cuore dell’ordine; ad ogni modo, preferiva
avventarsi: quello stesso anno, partì per la Cina, presso la diocesi di
Xianxian, nella provincia di Hebei, non lontano da Pechino. Non fece più ritorno
in Europa. La diocesi era stata eretta da papa Pio IX una trentina di anni
prima, affidandola ai missionari gesuiti. Lì Léon Wieger espresse il suo genio:
imparò il cinese, andò a caccia di testi perduti, tradusse in francese i libri
della tradizione taoista e buddista. Morì, dopo una vita di studi più che di
apostolato, nel marzo del 1933, in Cina.
“I suoi lavori, destinati ai missionarî, sono guide talvolta indispensabili, per
gli studiosi europei, per lo studio della scrittura, della lingua, della storia,
delle credenze religiose e delle opinioni filosofiche della Cina”. Così scriveva
Giovanni Vacca (1872-1953), che con Wieger condivideva la passione per la
scienza – era stato assistente di Giuseppe Peano – e per la sinologia – occupò
la cattedra di Storia dell’Asia a Firenze poi a Roma. A Wieger dobbiamo studi
su Les pères du système taoïste (Laozi, Liezi, Zhuangzi), stampato nel 1913, e
sul Folklore chinois moderne (1909); compilò uno studio sulla Histoire politique
de la Chine (1929). A dire – come diceva Ezra Pound – della necessità di
studiare la Cina; a dimostrazione che l’uomo ‘occidentale’ – brutto & cattivo
che sia –, nella sua essenza, più che piegare, comprende, più che piagare,
studia. Non si tratta di ‘illuminati’, per altro: era il buon senso ‘pratico’ a
fare di Léon Wieger un formidabile scopritore di testi perduti. I suoi libri
vengono ancora ciclicamente ristampati in Francia.
Erano anni, tra l’altro, in cui tutto un mondo era attratto verso Est, verso
quell’attraversamento, alla ricerca di una sapienza remota, definitiva. Penso
alla traduzione dell’I-Ching a cura del missionario tedesco Richard Wilhelm
(1929), agli studi sul Tao Te Ching di Arthur Waley (1934; ma la prima
traduzione inglese è del 1868, del missionario scozzese John Chalmers), alle
esplorazioni di Giuseppe Tucci in Tibet, negli anni Trenta, agli studi
dell’orientalista statunitense Ernest Fenollosa (morto a Londra nel 1908)
ereditati da Pound. Ma anche, ai ‘tentativi’ verso la Cina di Lev Tolstoj,
studioso di buddismo e taoismo. Un intero mondo intellettuale, per oltre un
secolo, si è mosso e ha studiato nell’estremo Oriente. La Chinoiserie si riversò
nel pensiero occidentale, conferendogli ‘leggerezza’: Mario Novaro, il poeta
ligure che si era specializzato sull’opera di Giordano Bruno, realizzò nel 1922,
per Carabba, una folgorante traduzione di Zhuāngzǐ con Acque d’autunno.
In particolare, qui, m’importano i volumi che Wieger ha dedicato al Bouddhisme
chinois (1910; 1913; poi pubblicati da Les Belles Lettres nella serie “Textes de
la Chine”), cioè sulle “Vie cinesi del Budda”.
> “Il Buddhismo primitivo, quello professato dal Buddha, non fu un sistema
> originale. Emerse, per reazione e per adattamento, da sistemi religiosi
> precedenti. Il Buddha fu il primo a proporre la liberazione a ‘uomini e donne
> dediti al bene’, a tutti gli uomini di buona volontà, fossero analfabeti,
> diseredati o gente comune. Questo rese il Buddhismo tanto celebre. La
> religione vedica, il Sạ̄mkhya, lo Yoga erano rivolti a una ristretta élite. La
> folla si precipitò entro la porta spalancata della nuova legge. Pur incerto
> nella dottrina, il Buddhismo fu accolto, il primo luogo, grazie all’influenza
> del suo fondatore, un uomo nobile e buono, dal fascino singolare. Si diffuse,
> poi, perché offriva ai declassati, agli emarginati, ai paria, tramite uno
> stile di vita semplice e immediato, una speranza di salvezza. In mancanza di
> meglio, il Buddhismo soddisfò per secoli molte anime elette, stanche dei vani
> sofismi della filosofia del tempo e innumerevoli uomini, desiderosi di pace e
> giustizia”.
>
> Léon Wieger, Bouddhisme chinois, tome I : Vinaya, Monachisme et Discipline.
> Hinayana, Véhicule inférieur, 1910
In particolare, abbiamo qui tradotto due brevi testi che riguardano
l’accoglienza di un adepto laico e di un novizio nella comunità monastica. Il
rito pertiene a due scuole buddhiste in particolare: quella Sarvāstivāda e
quella legata a Dharmagupta.
Al di là delle norme previste – comprensibili anche a un bimbo, da far
risuonare, proprio oggi, sì, ora, da urlare, a credito di secoli che altrimenti
non sono che sabbia e scolo, insieme alle parole del Nazareno redatte da Luca:
“amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro
che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male… non giudicate e non
sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete
perdonati” (6, 27-38) – è il linguaggio a persuadere. Parole che implicano una
pratica, un patto – parole che esigono di essere esaudite. Cosa vuol dire? Che
bisogna fare i conti con questi concetti: milizia, obbedienza, lotta. Parole che
alimentano la guerra interiore, non quella esteriore, che implicano il
perfezionamento personale – o quanto meno, l’equilibrio, la summa della propria
inquieta quiete. Già: l’uomo, di per sé, si sa, è malvagio, è agito da un senso
– più o meno violento – di sopraffazione. Questo scintillio d’ira, tuttavia, può
volgersi al bene se condotto nei ranghi della pratica interiore. Le parole non
domano l’uomo, lo rendono autenticamente indomabile – se ne svolgiamo il frutto.
Come un seme, la parola deve spezzarsi – la parola va sguainata. Messa a pratica
di scherma, senza schemi.
Eppure, prima di tutto, occorre votarsi. Invocare il voto. Non più vociferare
ma: essere voce. Vocalizzare il voto. Governare il tempo e lo spazio (cioè: il
corpo e la mente, io e mondo, mondo e immondo) per precisare il compito. Questo
significa: parola vivente, parola sigillo, farsi ingaggiare dalla promessa.
Rileggo ancora – ancora – le parole di Scipione, il grande pittore & poeta:
> “Bisogna cristallizzarsi, costringersi nel ritmo giusto… Vivo nel voto, più
> leggero, sicuro, quasi sereno… Fare un voto in assenza è aspettare… Quando si
> scioglierà il voto si scioglierà la mia commozione”.
Era il marzo del 1932; raso al suolo dalla tubercolosi, Scipione morirà l’anno
dopo, ad Arco, il paese di Giovanni Segantini. Enrico Falqui, raccogliendo i
fogli di Scipione per Vallecchi, scrisse di “parole che echeggiano dentro di
noi”, che “ce ne resta inibito ogni commento”.
È proprio questo, alienando confini geografici e cronologici: ambire
all’inibizione, non più commentare ma incamminarsi, e far grano di questo
echeggiante dire – fino all’annunciazione dei corvi: assai azzurri benché li si
continui a dire neri.
***
Accoglienza di un adepto laico a vita
I cinque precetti
[Testo tratto da un rituale di scuola Sarvāstivāda]
Quando un laico si presenta in monastero chiedendo di fare la professione di
fede e di abbracciare i Cinque precetti, viene prima indottrinato riguardo alla
vita del Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. Gli viene poi insegnato a
flettere le ginocchia, a congiungere le mani e a pentirsi di tutti gli eccessi
commessi in pensieri parole azioni. Quindi, davanti al capitolo riunito, il
maestro di cerimonia gli fa pronunciare la professione di fede:
“Da questo giorno in poi, io, X., mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo
Ordine”.
Il candidato ripete questa formula per tre volte. Quindi, dopo che il rito ha
prodotto il suo effetto, continua:
“Io, X., mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. Chiedo con gioia di
abbracciare i Cinque precetti dei laici, secondo la dottrina di Buddha
Sākyamuni. Lo dico perché tutti lo sappiano”.
Il candidato ripete questa formula per tre volte, finché il maestro di cerimonia
non dice:
“Ascolta attentamente! Questo capitolo di adepti del Virtuoso, il Buddha
Sākyamuni, il Tathagata, colui che è venuto, ti annuncia, per mio tramite, i
Cinque precetti che i seguaci sono tenuti a osservare per tutta la vita. Ecco i
Cinque precetti:
1 Non uccidere alcun essere vivente. Questo comprende molte conseguenze. Sarai
in grado di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso)
2 Non appropriarsi di nulla che non ti sia donato. Questo comprende molte
conseguenze. Sarai in grado di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso)
3 Vietarsi ogni immoralità. Questo comprende molte conseguenze. Sarai in grado
di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso)
4 Astenersi dal mentire. Questo comprende molte conseguenze. Sarai in grado di
sopportarle? (Il candidato risponde: Posso)
5 Non bere liquori fermentati. Tutti i liquori rientrano in questo divieto, che
siano estratti dal grano, dalla canna da zucchero o dall’uva, poco importa. Ciò
che inebria è proibito. Riuscirai a osservare questo divieto? (Il candidato
risponde: Posso)
*
Accoglienza di un novizio
I Dieci precetti
[Testo tratto da un rituale di scuola Dharmagupta]
Rivolgendosi al capitolo, il maestro di cerimonia presenta il candidato e dice:
“Venerabile capitolo, vi chiedo di poter radere il capo alla persona che vi
presento. Se il capitolo lo ritiene opportuno, che i capelli del candidato
vengano tagliati”.
Dopo aver rasato la testa al candidato, il maestro di cerimonia continua:
“Venerabile capitolo, la persona che vi presento chiede di lasciare la sua casa
e la sua famiglia e di unirsi al monaco scelto come padrino. Se il capitolo lo
ritiene opportuno, conceda al candidato la possibilità di lasciare la sua
famiglia”.
Dopo il consenso del capitolo, il maestro designato a istruire il novizio gli fa
scoprire la spalla e il braccio destro, gli chiede di togliersi le scarpe, di
piegare il ginocchio destro e di alzare le mani giunte. In questa posizione il
candidato pronuncia questa formula per tre volte:
“Mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. A imitazione del Buddha,
lascio la mia famiglia. Riconosco X. Come mio maestro. Il Tathagata, Colui che è
venuto, il Veritiero, e tutti gli Illuminati sono oggetto della mia
venerazione”.
Ritenendo che questa formula abbia prodotto il suo effetto, il postulante,
ancora in ginocchio e con le mani giunte, dice per tre volte:
“Mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. A imitazione del Buddha,
lascio la mia famiglia. X. Sarà mio maestro. Il Tathagata, Colui che è venuto,
il Veritiero, e tutti gli Illuminati sono oggetto della mia venerazione”.
Il maestro recita dunque al novizio, articolo per articolo, i Dieci precetti.
1 Non uccidere, mai. Questo è il primo precetto. Ti senti abbastanza forte da
osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
2 Non rubare, mai. Questo è il secondo precetto. Ti senti abbastanza forte da
osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
3 Non fornicare, mai. Questo è il terzo precetto. Ti senti abbastanza forte da
osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
4 Non mentire, mai. Questo è il quarto precetto. Ti senti abbastanza forte da
osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
5 Non bere vino, mai. Questo è il quinto precetto. Ti senti abbastanza forte da
osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
6 Non adornarsi il capo di fiori, non ungere il corpo di profumi. Questo è il
sesto precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante
risponde: Lo osserverò]
7 Non cantare né ballare, mai, come fanno attori e cortigiane. Non assistere mai
a spettacoli simili, non ascoltare canzoni simili. Questo è il settimo precetto.
Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
8 Non sedersi mai su un seggio elevato, su un divano spazioso. Questo è l’ottavo
precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo
osserverò]
9 Non mangiare mai oltre l’orario consentito, dall’alba al tramonto. Questo è il
nono precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde:
Lo osserverò]
10 Non toccare oro o argento, mai, né gioielli preziosi. Questo è il decimo
precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo
osserverò]
Questi sono i Dieci precetti dei novizi che non dovrete violare fino alla morte
corporale. Puoi osservarli? Li osserverò.
Così si conclude la regola:
“Poiché ti sei sottomesso ai Dieci precetti, osservali con rispetto, non
violarli mai. Onora il Buddha, la Legge il suo Ordine. Rispetta il tuo maestro e
tutti coloro che ti daranno degli insegnamenti secondo la regola. Non mancare
mai alla dovuta sottomissione. Rispetta i monaci, tutti, con tutto il cuore,
sforzati di imparare da loro, per il tuo bene, a meditare, a recitare, a
studiare. Ti aiuteranno a raggiungere la felicità, a evitare la via
dell’espiazione (l’inferno, la vita famelica, la reincarnazione animale). Ti
apriranno le porte del nirvana. Se pratichi le regole dei novizi poi quelle dei
monaci, otterrai i quattro frutti del tuo stato, i quattro gradi della
liberazione (il quarto dei quali, quello di arhan, assicura il nirvana dopo la
morte)”.
L'articolo “Non uccidere alcun essere vivente. Astenersi dal mentire” proviene
da Pangea.