Nato a Strasburgo nel luglio del 1856, Léon Wieger avrebbe dovuto percorrere la
stessa carriera del padre, insigne professore di medicina all’università. I
genitori lo avevano adornato di un paio di altri nomi – Georges e Frédéric –; il
ragazzo, per devozione, si iscrisse a medicina. Resistette per un biennio:
folgorato da Cristo, entrò come novizio nei ranghi della Compagnia di Gesù a
ventiquattro anni. Compì l’addestramento a Drongen – Tronchiennes in francese –,
nelle Fiandre, presso l’antica abbazia benedettina passata da poco, dopo alterni
disastri, ai Gesuiti. Ordinato sacerdote nel 1887, Wieger volle impiantare il
suo estro ‘scientifico’ nel cuore dell’ordine; ad ogni modo, preferiva
avventarsi: quello stesso anno, partì per la Cina, presso la diocesi di
Xianxian, nella provincia di Hebei, non lontano da Pechino. Non fece più ritorno
in Europa. La diocesi era stata eretta da papa Pio IX una trentina di anni
prima, affidandola ai missionari gesuiti. Lì Léon Wieger espresse il suo genio:
imparò il cinese, andò a caccia di testi perduti, tradusse in francese i libri
della tradizione taoista e buddista. Morì, dopo una vita di studi più che di
apostolato, nel marzo del 1933, in Cina.
“I suoi lavori, destinati ai missionarî, sono guide talvolta indispensabili, per
gli studiosi europei, per lo studio della scrittura, della lingua, della storia,
delle credenze religiose e delle opinioni filosofiche della Cina”. Così scriveva
Giovanni Vacca (1872-1953), che con Wieger condivideva la passione per la
scienza – era stato assistente di Giuseppe Peano – e per la sinologia – occupò
la cattedra di Storia dell’Asia a Firenze poi a Roma. A Wieger dobbiamo studi
su Les pères du système taoïste (Laozi, Liezi, Zhuangzi), stampato nel 1913, e
sul Folklore chinois moderne (1909); compilò uno studio sulla Histoire politique
de la Chine (1929). A dire – come diceva Ezra Pound – della necessità di
studiare la Cina; a dimostrazione che l’uomo ‘occidentale’ – brutto & cattivo
che sia –, nella sua essenza, più che piegare, comprende, più che piagare,
studia. Non si tratta di ‘illuminati’, per altro: era il buon senso ‘pratico’ a
fare di Léon Wieger un formidabile scopritore di testi perduti. I suoi libri
vengono ancora ciclicamente ristampati in Francia.
Erano anni, tra l’altro, in cui tutto un mondo era attratto verso Est, verso
quell’attraversamento, alla ricerca di una sapienza remota, definitiva. Penso
alla traduzione dell’I-Ching a cura del missionario tedesco Richard Wilhelm
(1929), agli studi sul Tao Te Ching di Arthur Waley (1934; ma la prima
traduzione inglese è del 1868, del missionario scozzese John Chalmers), alle
esplorazioni di Giuseppe Tucci in Tibet, negli anni Trenta, agli studi
dell’orientalista statunitense Ernest Fenollosa (morto a Londra nel 1908)
ereditati da Pound. Ma anche, ai ‘tentativi’ verso la Cina di Lev Tolstoj,
studioso di buddismo e taoismo. Un intero mondo intellettuale, per oltre un
secolo, si è mosso e ha studiato nell’estremo Oriente. La Chinoiserie si riversò
nel pensiero occidentale, conferendogli ‘leggerezza’: Mario Novaro, il poeta
ligure che si era specializzato sull’opera di Giordano Bruno, realizzò nel 1922,
per Carabba, una folgorante traduzione di Zhuāngzǐ con Acque d’autunno.
In particolare, qui, m’importano i volumi che Wieger ha dedicato al Bouddhisme
chinois (1910; 1913; poi pubblicati da Les Belles Lettres nella serie “Textes de
la Chine”), cioè sulle “Vie cinesi del Budda”.
> “Il Buddhismo primitivo, quello professato dal Buddha, non fu un sistema
> originale. Emerse, per reazione e per adattamento, da sistemi religiosi
> precedenti. Il Buddha fu il primo a proporre la liberazione a ‘uomini e donne
> dediti al bene’, a tutti gli uomini di buona volontà, fossero analfabeti,
> diseredati o gente comune. Questo rese il Buddhismo tanto celebre. La
> religione vedica, il Sạ̄mkhya, lo Yoga erano rivolti a una ristretta élite. La
> folla si precipitò entro la porta spalancata della nuova legge. Pur incerto
> nella dottrina, il Buddhismo fu accolto, il primo luogo, grazie all’influenza
> del suo fondatore, un uomo nobile e buono, dal fascino singolare. Si diffuse,
> poi, perché offriva ai declassati, agli emarginati, ai paria, tramite uno
> stile di vita semplice e immediato, una speranza di salvezza. In mancanza di
> meglio, il Buddhismo soddisfò per secoli molte anime elette, stanche dei vani
> sofismi della filosofia del tempo e innumerevoli uomini, desiderosi di pace e
> giustizia”.
>
> Léon Wieger, Bouddhisme chinois, tome I : Vinaya, Monachisme et Discipline.
> Hinayana, Véhicule inférieur, 1910
In particolare, abbiamo qui tradotto due brevi testi che riguardano
l’accoglienza di un adepto laico e di un novizio nella comunità monastica. Il
rito pertiene a due scuole buddhiste in particolare: quella Sarvāstivāda e
quella legata a Dharmagupta.
Al di là delle norme previste – comprensibili anche a un bimbo, da far
risuonare, proprio oggi, sì, ora, da urlare, a credito di secoli che altrimenti
non sono che sabbia e scolo, insieme alle parole del Nazareno redatte da Luca:
“amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro
che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male… non giudicate e non
sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete
perdonati” (6, 27-38) – è il linguaggio a persuadere. Parole che implicano una
pratica, un patto – parole che esigono di essere esaudite. Cosa vuol dire? Che
bisogna fare i conti con questi concetti: milizia, obbedienza, lotta. Parole che
alimentano la guerra interiore, non quella esteriore, che implicano il
perfezionamento personale – o quanto meno, l’equilibrio, la summa della propria
inquieta quiete. Già: l’uomo, di per sé, si sa, è malvagio, è agito da un senso
– più o meno violento – di sopraffazione. Questo scintillio d’ira, tuttavia, può
volgersi al bene se condotto nei ranghi della pratica interiore. Le parole non
domano l’uomo, lo rendono autenticamente indomabile – se ne svolgiamo il frutto.
Come un seme, la parola deve spezzarsi – la parola va sguainata. Messa a pratica
di scherma, senza schemi.
Eppure, prima di tutto, occorre votarsi. Invocare il voto. Non più vociferare
ma: essere voce. Vocalizzare il voto. Governare il tempo e lo spazio (cioè: il
corpo e la mente, io e mondo, mondo e immondo) per precisare il compito. Questo
significa: parola vivente, parola sigillo, farsi ingaggiare dalla promessa.
Rileggo ancora – ancora – le parole di Scipione, il grande pittore & poeta:
> “Bisogna cristallizzarsi, costringersi nel ritmo giusto… Vivo nel voto, più
> leggero, sicuro, quasi sereno… Fare un voto in assenza è aspettare… Quando si
> scioglierà il voto si scioglierà la mia commozione”.
Era il marzo del 1932; raso al suolo dalla tubercolosi, Scipione morirà l’anno
dopo, ad Arco, il paese di Giovanni Segantini. Enrico Falqui, raccogliendo i
fogli di Scipione per Vallecchi, scrisse di “parole che echeggiano dentro di
noi”, che “ce ne resta inibito ogni commento”.
È proprio questo, alienando confini geografici e cronologici: ambire
all’inibizione, non più commentare ma incamminarsi, e far grano di questo
echeggiante dire – fino all’annunciazione dei corvi: assai azzurri benché li si
continui a dire neri.
***
Accoglienza di un adepto laico a vita
I cinque precetti
[Testo tratto da un rituale di scuola Sarvāstivāda]
Quando un laico si presenta in monastero chiedendo di fare la professione di
fede e di abbracciare i Cinque precetti, viene prima indottrinato riguardo alla
vita del Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. Gli viene poi insegnato a
flettere le ginocchia, a congiungere le mani e a pentirsi di tutti gli eccessi
commessi in pensieri parole azioni. Quindi, davanti al capitolo riunito, il
maestro di cerimonia gli fa pronunciare la professione di fede:
“Da questo giorno in poi, io, X., mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo
Ordine”.
Il candidato ripete questa formula per tre volte. Quindi, dopo che il rito ha
prodotto il suo effetto, continua:
“Io, X., mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. Chiedo con gioia di
abbracciare i Cinque precetti dei laici, secondo la dottrina di Buddha
Sākyamuni. Lo dico perché tutti lo sappiano”.
Il candidato ripete questa formula per tre volte, finché il maestro di cerimonia
non dice:
“Ascolta attentamente! Questo capitolo di adepti del Virtuoso, il Buddha
Sākyamuni, il Tathagata, colui che è venuto, ti annuncia, per mio tramite, i
Cinque precetti che i seguaci sono tenuti a osservare per tutta la vita. Ecco i
Cinque precetti:
1 Non uccidere alcun essere vivente. Questo comprende molte conseguenze. Sarai
in grado di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso)
2 Non appropriarsi di nulla che non ti sia donato. Questo comprende molte
conseguenze. Sarai in grado di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso)
3 Vietarsi ogni immoralità. Questo comprende molte conseguenze. Sarai in grado
di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso)
4 Astenersi dal mentire. Questo comprende molte conseguenze. Sarai in grado di
sopportarle? (Il candidato risponde: Posso)
5 Non bere liquori fermentati. Tutti i liquori rientrano in questo divieto, che
siano estratti dal grano, dalla canna da zucchero o dall’uva, poco importa. Ciò
che inebria è proibito. Riuscirai a osservare questo divieto? (Il candidato
risponde: Posso)
*
Accoglienza di un novizio
I Dieci precetti
[Testo tratto da un rituale di scuola Dharmagupta]
Rivolgendosi al capitolo, il maestro di cerimonia presenta il candidato e dice:
“Venerabile capitolo, vi chiedo di poter radere il capo alla persona che vi
presento. Se il capitolo lo ritiene opportuno, che i capelli del candidato
vengano tagliati”.
Dopo aver rasato la testa al candidato, il maestro di cerimonia continua:
“Venerabile capitolo, la persona che vi presento chiede di lasciare la sua casa
e la sua famiglia e di unirsi al monaco scelto come padrino. Se il capitolo lo
ritiene opportuno, conceda al candidato la possibilità di lasciare la sua
famiglia”.
Dopo il consenso del capitolo, il maestro designato a istruire il novizio gli fa
scoprire la spalla e il braccio destro, gli chiede di togliersi le scarpe, di
piegare il ginocchio destro e di alzare le mani giunte. In questa posizione il
candidato pronuncia questa formula per tre volte:
“Mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. A imitazione del Buddha,
lascio la mia famiglia. Riconosco X. Come mio maestro. Il Tathagata, Colui che è
venuto, il Veritiero, e tutti gli Illuminati sono oggetto della mia
venerazione”.
Ritenendo che questa formula abbia prodotto il suo effetto, il postulante,
ancora in ginocchio e con le mani giunte, dice per tre volte:
“Mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. A imitazione del Buddha,
lascio la mia famiglia. X. Sarà mio maestro. Il Tathagata, Colui che è venuto,
il Veritiero, e tutti gli Illuminati sono oggetto della mia venerazione”.
Il maestro recita dunque al novizio, articolo per articolo, i Dieci precetti.
1 Non uccidere, mai. Questo è il primo precetto. Ti senti abbastanza forte da
osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
2 Non rubare, mai. Questo è il secondo precetto. Ti senti abbastanza forte da
osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
3 Non fornicare, mai. Questo è il terzo precetto. Ti senti abbastanza forte da
osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
4 Non mentire, mai. Questo è il quarto precetto. Ti senti abbastanza forte da
osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
5 Non bere vino, mai. Questo è il quinto precetto. Ti senti abbastanza forte da
osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
6 Non adornarsi il capo di fiori, non ungere il corpo di profumi. Questo è il
sesto precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante
risponde: Lo osserverò]
7 Non cantare né ballare, mai, come fanno attori e cortigiane. Non assistere mai
a spettacoli simili, non ascoltare canzoni simili. Questo è il settimo precetto.
Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
8 Non sedersi mai su un seggio elevato, su un divano spazioso. Questo è l’ottavo
precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo
osserverò]
9 Non mangiare mai oltre l’orario consentito, dall’alba al tramonto. Questo è il
nono precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde:
Lo osserverò]
10 Non toccare oro o argento, mai, né gioielli preziosi. Questo è il decimo
precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo
osserverò]
Questi sono i Dieci precetti dei novizi che non dovrete violare fino alla morte
corporale. Puoi osservarli? Li osserverò.
Così si conclude la regola:
“Poiché ti sei sottomesso ai Dieci precetti, osservali con rispetto, non
violarli mai. Onora il Buddha, la Legge il suo Ordine. Rispetta il tuo maestro e
tutti coloro che ti daranno degli insegnamenti secondo la regola. Non mancare
mai alla dovuta sottomissione. Rispetta i monaci, tutti, con tutto il cuore,
sforzati di imparare da loro, per il tuo bene, a meditare, a recitare, a
studiare. Ti aiuteranno a raggiungere la felicità, a evitare la via
dell’espiazione (l’inferno, la vita famelica, la reincarnazione animale). Ti
apriranno le porte del nirvana. Se pratichi le regole dei novizi poi quelle dei
monaci, otterrai i quattro frutti del tuo stato, i quattro gradi della
liberazione (il quarto dei quali, quello di arhan, assicura il nirvana dopo la
morte)”.
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Di quale materia è fatta la poesia?
Si dirà: dura come il diamante, visto che passa di voce in voce, da secoli.
Eppure: alla lettura si sbriciola, sfiorisce. Il contrassegno della gioia è
l’effimero – il calco di un vuoto. Di cosa è eco l’io? Alfabeti nella neve.
Nel discorso di accettazione del Nobel, conferitogli nel 1968, La bellezza del
Giappone e io, Kawabata Yasunari cita una rissa di poeti-monaci. Comincia con
Dogen, il sommo sapiente vissuto nel XIII secolo, fondatore di una delle più
note scuole di buddismo zen, la Sōtō-shū, fino a Ryokan, il monaco eremita,
morto nel febbraio del 1831, che
> “visse in sintonia con lo spirito delle sue poesie, trovando rifugio in
> capanne di frasche, indossando vesti dimesse, vagabondando per le campagne,
> giocando con i bambini e parlando con i contadini”.
Un altro grande scrittore, Kenzaburo Oe, Nobel per la letteratura nel 1994,
avrebbe rimproverato a Kawabata una visione laccata e ideale del Giappone,
infine inautentica. Il Giappone degli eremiti e dei paraventi, delle calligrafie
e delle cerimonie, del tè e della katana non esisteva più neppure ai tempi di
Kawabata: mero rifugio dello spirito – quando non cartolina per turisti. Eppure,
per Kawabata e Kenzaburo Oe, il senso della letteratura è il medesimo: la
ricerca incessante, un’abissale avventura dello spirito. Cosa vuol dire? Che uno
scrittore trascende la letteratura; che un poeta scrive sempre la poesia
prima-e-ultima, frutto di una profonda rivelazione interiore, di una
radicale conversione. Il resto è fiction, cioè: illusione. Vaniloquio di ombre.
A tale proposito, Kawabata cita quanto scrive Kikai, monaco vissuto nel
Duecento, a proposito di Saigyo, il capostipite dei monaci-poeti:
> “…per lui scrivere versi è un fatto lontano dall’ordinario… scrive soltanto
> seguendo l’occasione come si presenta, seguendo l’ispirazione. È simile al
> vuoto del cielo che si colora al passaggio dell’arcobaleno scarlatto”.
Da questo paragrafo deduciamo due cose: che la poesia è ‘straordinaria’, rompe
le norme dell’ordinario, è un dis-ordine che perimetra altra armonia; che
è l’occasione – cioè: l’assalto del fato – a destare l’ispirazione (che
diversità dalle Occasioni di Montale…). Si pratica la poesia per sfuggire alla
necessità del mondo fluttuante, per flottare in esso come una falena. La poesia
non ormeggia le cose alla loro forma, le disancora dall’illusione.
C’è poi un altro aspetto. Kikai afferma che “Proprio questa poesia è
manifestazione dell’assoluta verità del Buddha”. La poesia, intesa come pratica,
come spossessamento del sé, inermità verso l’eterno che, fuggevole, si mostra a
bramiti e a brandelli nel transitorio, è un’esperienza ‘religiosa’: manifesta
l’immanifesto, contatta l’invisibile. Il resto è gioco inerte, arte come
muraglia di specchi, illusione di illusione.
Non è un caso, allora, se Lucien Stryk, insigne poeta statunitense – nato
incidentalmente in Polonia nel 1924, morto incidentalmente a Londra nel 2013, ha
passato la vita professionale tra Chicago e la Northern Illinois University –
sia stato folgorato durante una visita a un tempio zen, “circondato da aceri
fiammeggianti, pareva radicato lì da secoli”, in Giappone. L’abate del tempio
coltivava ravanelli, “mi chiese di pernottare nel monastero. Dialogammo insieme
fino a sera: vidi contadini e boscaioli che si alternavano a porgere offerte.
L’abate parlava con amore dei maestri Zen che eccellevano nella poesia: Dogen
Bunan, Hakuin, nomi che all’epoca mi erano del tutto ignoti. Soddisfatto del
lavoro nell’orto e della sua poesia, quell’uomo non cercava gli elogi del mondo.
Vent’anni dopo gli portai la mia offerta: un libro di poesie Zen, uno dei tanti
che avrei tradotto dopo quell’incontro, così importante per me”.
Il primo libro di traduzioni – Zen. Poems Prayers Sermons Anecdotes Interviews;
da cui i testi che leggete in calce – esce nel 1961; nel 1985 Lucien Stryck
pubblica per la University of Hawaii Press una interpretazione degli haiku di
Basho (On Love and Barley; poi incorporato da Penguin); nel 1981 aveva curato il
fortunatissimo The Penguin Book of Zen Poetry (in Italia è recepito da Newton
Compton come Poesie Zen). Da quel repertorio – assai Zen: con sfilza di poesie
in sequenza, a fare lo scalpo a lambiccamenti lirici e vacui accademisimi –
traggo quanto scrive il co-curatore, Takashi Ikemoto:
> “Gli autori di tali poesie non si consideravano poeti. Erano, piuttosto,
> uomini di talento – maestri, monaci, alcuni perfino laici – che dopo aver
> attraversato esperienze memorabili, cercavano di comunicarle attraverso la
> poesia, il genere che sa esprimere l’inesprimibile. L’illuminazione li aveva
> trasformati; la poesia avrebbe dovuto trasmettere quell’esperienza essenziale
> e il suo effetto. Un simile risveglio poteva richiedere anni di sforzi
> incessanti, restando, comunque, inaccessibile alla maggior parte degli
> uomini”.
Dunque: la poesia come miccia per incendiare la propria esistenza, per
incenerirsi.
Lucien Stryk aveva chiesto di insegnare in Iran e in Giappone; come poeta, aveva
esordito nel 1953, con Taproot: amava Whitman. La poesia di Stryk è compenetrata
dal lavoro nei meandri della cultura Zen. Così, ad esempio, una lassa dal
poemetto The Rocks of Sesshu (raccolto in: The Pit and Other Poems, 1969):
“Fermezza è tutto – la montagna
oltre il giardino
mira come spirano i rami
verso il suo fulvo pendio. Segui
la via dove i cancelli
premono contro le nubi
e stordiscono i colombi che ruotano
nel vento. Guarda
dove non è più pietra
e lo scalatore ascende
verso le viscere
della verità – fermezza è tutto”
Nei selected poems i testi creativi di Stryk si alternano alle traduzioni: caso
particolare di ‘compenetrazione’ linguistica tra tradotto e traduttore, un po’
come accade, in Italia, con i lirici greci e Salvatore Quasimodo.
Secondo Kawabata, la poesia giapponese più autentica – quella coltivata nei
monasteri buddisti – è protesa sul “vuoto”, attende alla “bellezza”.
> “Quando abbiamo la fortuna di venire a contatto con la bellezza, allora
> pensiamo agli amici più cari, allora vorremmo dividere con loro questa
> gioia”.
La bellezza è legata all’amicizia – e all’assenza. Le cose sono belle perché
fugaci: le nuvole, il tramonto, lo scatto di un cervo, la fioritura dei ciliegi.
Così, anche un’amicizia, forse, fiorisce nell’assenza, si inebria di nostalgia –
la bellezza, in forma oscura, ci ricorda che siamo transitori, che vano è
trascorrere la vita a morsi, da moribondi.
Se l’Oriente estremo anela al vuoto, l’Occidente tende al pieno: alla ‘pienezza’
di cui è grave una vita colma d’arte. Ma questa pienezza, in fondo, è un
rovesciarsi, è il rovesciamento delle carte, è fare il vuoto.
***
Dogen
(1200-1253)
Vengono, vanno: gli uccelli
acquatici non lasciano traccia
di guide non hanno bisogno.
*
Compassione della nube:
chi cammina nel sogno
diventerà un uomo. Al risveglio
sento soltanto la pioggia
sul tetto del tempio di Fukakusa.
**
Muso
(1375-1351)
Le montagne sono diventate verdi e gialle
molte, molte volte: la terra è capricciosa!
Polvere negli occhi, questo mondo è angusto;
la mente è vuota, la sedia contiene tutto l’universo.
**
Daito
(1282-1337)
Per decollare il Buddha
impugna la mia spada:
impara la maestria
il vuoto morde il vuoto
con le sue zanne!
**
Daichi
(1290-1366)
I pensieri sorgono all’infinito
la vita è come un arco.
Cento anni, trentaseimila giorni:
la farfalla sogna, è primavera.
**
Jakushitsu
(1290-1367)
Il vento è fresco e rimbalza contro
la cascata – la luna oscilla come una lanterna
la finestra di bambù brilla. Sono vecchio
e le montagne mi sembrano più belle che mai.
Voglio purificare le mie ossa contro le pietre.
**
Juo
(1296-1380)
Oltre il tempo, la mia vita:
disprezzo lo Stato, mi slego dal cosmo.
Negando causa ed effetto, sono come
il cielo a mezzogiorno – il mio andare
tra ascesa e crollo è ignoto al Buddha
e nessuno può trasmetterlo.
**
Ryushu
(1308-1388)
Perché preoccuparsi del mondo?
Lascia che ingrigiscano, che corrano
a Est e a Ovest: nel tempio di montagna
sdraiato, per metà in ombra, vivo alieno
dalla gioia e dal dolore.
**
Tesshu
(XIV secolo)
Come guarire questo corpo spettrale
dalla spettrale malattia che ha contratto
nel ventre materno? Se non cogli il frutto
dall’albero della Bodhi, il karma ti annienterà.
**
Guchu
(1323-1409)
Siamo uomini privi di rango
spazzola per escrementi, eppure
profumiamo i cieli – in pace
nella quiete del tempio, vuota
la mente, cerchiamo la luce.
**
Gido
(1325-1388)
Iscrizione sopra la porta della sua camera
Chi sostiene che il nulla
è informe e i fiori illusioni
entri, con audacia!
**
Reizan
(XIV secolo)
Vago libero tra i cento fiori:
la rupe, imponente, è la seggiola
del mio meditare. Non ho sogni
di fama, a nulla anelo: la foresta e la montagna
seguono le antiche vie – durante questo
lungo giorno di primavera, nemmeno
l’ombra di un uccello.
**
Kodo
(1370-1433)
Nella capitale, al servizio
dello Shogun, lordo della polvere
del mondo, non ho trovato pace.
Ora seguo il fiume, con un cappello
di paglia calato sul cranio: che gioia
la vista dei gabbiani, al delta!
**
Genko
(XV secolo)
Non so se è illusione o illuminazione:
seduto su una pietra guardo le montagne
e ascolto il fiume. Tre giorni di pioggia
hanno purificato la terra; un tuono lacera
il cielo. I fenomeni concatenati recano gioia
e sebbene la mente sia vigile, non è
che un cumulo di cenere. Sono triste
come il crepuscolo, fa freddo, e ritorno
con un cesto colmo di pesche.
**
Saisho
(XV secolo)
Terra monti fiumi – celati nel nulla.
Nel nulla celati – terra monti fiumi.
Fiori primaverili, nevi invernali:
né essere né non essere – al di là
della negazione.
**
Takuan
(1573-1645)
Notte dopo notte la luna
si è riflessa nel fiume:
dove l’hai toccata? Indicami
l’ombra della tua traccia.
**
Ungo
(1580-1659)
Travolti dalla passione, gli occhi
si accecano; chiusi al mondo delle cose
vedono di nuovo. Così vivo: cappello di paglia
bastone in mano, marciando senza limiti
su questa terra, attraverso il Paradiso.
**
Daigu
(1584-1669)
Qui nessuno mira alla ricchezza
tanto meno alla fama: ogni discorso
sul bene e sul male è sedato –
in autunno rastrello il fiume pieno
di foglie, in primavera ascolto l’usignolo.
*In copertina: Yamaoka Tesshu (1836–1888), Dragone talismano, XIX secolo
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