In un testo “sul fine conforme ai voleri di Dio e sulla vera ascesi”, Gregorio
di Nissa intima ai cristiani di non degradare in Minotauro o Centauro. Il primo,
corpo umano e “testa di vitello”, è l’uomo irragionevole, che “resta in balie di
dottrine idolatre”; il secondo, busto da uomo e corpo da sauro, è retto da
selvaggia “passione per il sesso femminile propria dei cavalli”. Nel suo dire –
in: Gregorio di Nissa, Fine, professione e perfezione del cristiano, Città
Nuova, 1979 –, il Padre della Chiesa stigmatizza il credo pagano, ben radicato
nel IV secolo. Il mito, infatti, insiste sulla ‘confusione’ tra uomo e bestia, è
affascinato dall’unione sacrilega tra umano e animalesco: da qui il proliferare
di chimeriche creature, centauri, minotauri, satiri, sfingi.
Caratteristica del dio, inoltre, è mutarsi in qualsiasi altro essere: per
portare a risultato le proprie seduzioni, Zeus si fa toro e cigno, aquila e
pioggia e nuvola… Nelle Metamorfosi – specie di travolgente epica enciclopedica
del mito – Ovidio insegna che tutto è soggetto al mutamento, che ogni forma
esegue il proprio contrario, per capriccio divino e voluttà. È il desiderio a
muovere l’azione, che sia atto di predazione, predizione, predilezione per
l’ira, l’invidia, la rovina in rabbia. Così: Cadmo e Armonia divergono in
serpenti; Aretusa si muta in fonte (che zampilla a Ortigia); Niobe diventa di
pietra; Dafne si fa alloro; Licaone, sovrano in Arcadia, muta in uomo-lupo – e
così via. Fantomatica araldica di creature sfuggenti, che generano, per
proliferazione, ulteriori forme, fraintesi, inseguimenti. In uno dei “sogni di
sogni” registrati da Antonio Tabucchi, Ovidio sogna di mutarsi in farfalla; è lo
stesso sogno fatto da Zhuangzi, il grande pensatore cinese vissuto tre secoli
prima del poeta latino: “Ma egli non sapeva se fosse Zhuangzi che aveva sognato
di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Zhuangzi”.
In sostanza, Gregorio di Nissa insegna a essere integralmente, perentoriamente
uomini. Questo corpo – spirito & carne – donatoci da Dio va restituito intatto,
ben custodito, non più imbestiato – senza alcun merito, aspiriamo a risorgere,
non più a latrato o a ladrocinio. Con il cristianesimo, sembra definitivamente
finito il tempo degli dèi proteiformi – greci o egizi o mesopotamici: con
divinità dalla testa di leonessa e di sciacallo, dèi alati, dee ferine,
continuamente gravide – e delle forme mutanti. Più che altro, sembra separato il
regno umano, di quelli somiglianti a Dio, da quello delle altre bestie. Non è
del tutto vero. L’uomo si incarica di tutte le creature animali – Noè – e ne
assume i paramenti simbolici: Davide ha in sé l’audacia del leone e del lupo, le
bestie che ha imparato a conoscere portando al pascolo il gregge del padre.
L’anima – nephesh, il sé – è paragonata alla “cerva” che “anela ai corsi
d’acqua” (Sal 42, 2). D’altronde, Cristo, “divinamente e umanamente analfabeta”
– José Bergamin, Decadenza dell’analfabetismo, Rusconi, 1972: devo a Tommaso
Scarponi l’aver riportato in memoria, fallacia d’anni, questo mirabile testo –,
abita dove non è uomo, spinto al deserto (erémos; cioè, il desolato, il
selvaggio) dallo Spirito (Pneuma), “stava tra le bestie selvatiche e gli angeli
lo servivano” (Mc 1, 13).
Secondo tradizione, Gesù è l’Agnello, Agnus Dei, e “il leone della tribù di
Giuda” (Ap 5, 5); nei bestiari medioevali è pellicano e cigno, pavone e pantera.
Non si disgiunge il divino dall’animalesco, quasi che quella fosse la sua
vera figura, l’esattezza. Anche gli evangelisti – incarnazione del tetramorfo
(Ez 10, 14), sono leone e angelo, toro e aquila. Pienamente uomo – cioè: altro.
Allo stesso modo, l’ibrido inietta un fascino sovrannaturale. Il lupo che
allatta l’uomo – Romolo & Remo nella plaga Palatino; Mowgli nella giungla
indiana –; la donna che dà latte alla bestia. Ogni nascita ‘speciale’ ha
specificità ferina – oppure, a contrasto, virginea sprezzatura. In alcune
raffigurazioni, la Vergine è affiancata dal Bambino e dall’agnello, simbolo di
Giovanni Battista: nulla vieta che offra il suo portentoso latte a entrambi. In
Amazzonia le donne Awá-Guajá sanno allattare alcuni cuccioli animali rimasti
orfani come le Baccanti, secondo Euripide, offrono il seno a cuccioli di lupo e
di cervo – le menadi che a nude mani squartano la bestia e di carne cruda si
nutrono, hanno ruolo centrale nei misteri di Orfeo, che riguardano il linguaggio
dei primordi, la poesia.
Potenza che lacera, quel latte: biancore a colpi d’ascia, tra la Via Lattea e
l’addentare, l’adorare quel bianco-bianco, quell’avorio, tesoro a piena bocca,
di gioiello e di mela.
In una delle poesie più belle, Fawn’s Foster-mother – raccolta in Cowdor and
Other Poems, 1928 – Robinson Jeffers racconta di una signora che ha allattato,
da neomamma, un piccolo di cervo. L’ha fatto con naturalezza, con ruvida gioia.
La signora abitava con il marito nell’odierno Garrapata State Park, poco lontano
da Big Sur, California, e da Carmel, dove il poeta aveva costruito, nell’arco di
cinque anni, dal 1919 al ’24, la sua mitologica casa, “Tor House”, in pietra,
per sé e la sua donna, Una, secondo lo stile dei castelletti irlandesi. Nessun
simbolo aliena la poesia di Robinson Jeffers da una quotidianità lattescente,
pugnace: pare che la donna abbia amato quel cerbiatto più dei suoi figli. La
poesia è tra le predilette da Ted Hughes, poeta di corvi, lupercali, lupi; un
autentico bardo che ha imbastito bestiari per tutta la vita; un poeta-Chirone,
un poeta-sciamano che sa auscultare le viscere e le stelle.
Di ogni poeta, d’altronde, non cerchiamo l’anima, ma il dire animalesco.
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La madre adottiva del cervo
La vecchia siede davanti alla porta, su una panca,
litiga con la megera figlia, pallida, depressa.
Una volta, passando di lì, l’ho vista ridere, sola, al sole:
mi raccontò di quando si era appena sposata,
stava in una vecchia fattoria in cima al Garrapatas Canyon.
(Ora quella casa è vuota: il tetto crollato
muraglie di tronchi tra le vive pietre; le sequoie
sono state abbattute ma le querce reggono ancora;
il luogo è più solitario che mai).
“Allattavo il mio secondo figlio; mio marito
trovò un cerbiatto nascosto in un bosco di felci;
era giorno, me lo portò, gli misi il muso al seno;
piuttosto che lasciarlo morire di fame, pensai: avevo
latte a sufficienza per tre bimbi. Come succhiava
quel piccolo frugolo: affondava i piccoli zoccoli
nel mio stomaco come fossero aculei.
Mi ha dato più gioia lui di tutti gli altri”.
Il viso, deformato dall’età, sembra una strada
disfatta dai carri, è roso dalla meschinità e dall’incuria.
Cella di pelle secca, pura superficie che molto presto
si staccherà dalle palpebre della terra: eppure,
ha avuto anche lei la sua primavera, ha vissuto nelle arterie
che fecondano il mondo, nella musica della montagna.
Robinson Jeffers
*In copertina: Jean-Léon Gérôme, La Baccante, 1853
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