Vasilij Kamenskij, poeta futurista, “esuberante pioniere del volo”, ossessionato
dalla velocità, scrive che “Majakovskij desiderava recitare i suoi versi in
groppa a un elefante”. Immagine perfetta per indicare l’indole di ‘Vlad’:
domatore di belve, istrione, allo stesso tempo Mangiafuoco e Minotauro. Le
memorie di Kamenskij, reduce di un’epoca inimmaginabile, uscirono nel 1940: il
poeta, sfiancato da un incidente, “afferma con ottimismo straziante di avere
ancora vent’anni” (Angelo Maria Ripellino); Majakovskij, il genio per sempre
giovane, era morto dieci anni prima.
Poeta-agitatore, poeta-poligrafo, poeta-titano, Majakovskij va avvicinato, per
piglio politico ed estro erotico, a Gabriele d’Annunzio più che a Filippo
Tommaso Marinetti. Il Futurismo di Majakovskij – epico e ‘panico’ nella sua
matrice intima – ha a che fare con La pioggia nel pineto più che con Zang Tumb
Tumb; la sua Fiume fu la Rivoluzione russa; la delusione per gli esiti,
esiziali, fu roboante: nel 1919 i Soviet impedirono al Kom-Fut (il “Collettivo
comunista-futurista”) di consolidarsi in partito; due anni dopo, Lenin in
persona intimò alla casa editrice di stato (l’unica ammessa, la Gosizdat) di
limitare le pubblicazioni di Majakovskij “non più di due volte l’anno e in non
più di 1500 copie”. È vero: Majakovskij fa paura, rivolta il peana di partito in
ruggito; Majakovskij va urlato, va suonato, va cantato – lo ha fatto, ad
esempio, il Teatro degli Orrori di Pierpaolo Capovilla, nell’album A sangue
freddo, era il 2009 –; Majakovskij inaugura rivolte, anche i suoi slogan – a
proposito di D’Annunzio… – preludono all’urlo, sovvertono i luoghi verbali
comuni.
Un tempo, mistificandolo, lo si riteneva “un poeta… al megafono” (copy Eugenio
Montale), non proprio un complimento: Editori Riuniti stampava le sue Opere in
otto volumi. Da tempo, grazie al lavoro di Paola Ferretti, sappiamo che “Il
furore del Majakovskij poeta d’amore non è scorporabile da quello del
Majakovskij poeta della rivoluzione” (in: V. Majakovskij, Poesie d’amore
1913-1930, Einaudi, 2023). In particolare, Di questo (Einaudi, 2025) è l’Everest
della poesia ‘amorosa’ di Majakovskij. Il poema fu scritto a partire del
dicembre del 1922: la mitologica amante, Lili Brik, aveva imposto al poeta un
diktat: non si sarebbero visti per un paio di mesi. Majakovskij riscattò il
delirio d’amore in versi di esuberante potenza: lui, il leone dei poeti russi,
si dice “scoiattolo poetico”; il tema d’amore, che “tutti gli altri eclissa”,
che “intenebra il giorno”, lo assale, lo azzanna, “mi accoltella alla gola”.
Quando Lili decise di rompere il veto, invitò Majakovskij ad accompagnarla a
Pietroburgo. È il 28 febbraio del 1923. Majakovskij recitò a Lili il suo poema,
in treno: lei lo sigillò con il pianto, apollineo. La sera ululava, fuori dai
finestrini – i due, di nuovo uniti, ulularono.
Si erano conosciuti sette anni prima, nel 1915, amandosi tra foia e fobia. Lili,
“la musa dell’avanguardia russa” (copy Pablo Neruda), più audace che bella,
cresciuta nei ranghi di una ricca famiglia ebraica, suonava il pianoforte,
parlava con destrezza francese e tedesco, faceva l’attrice, fece perdere la
testa a molti. Aveva sposato Osip Brik nel 1912: il marito accettava di buon
grado i suoi tradimenti. La sorella, Elsa – sposatasi incidentalmente con un
ufficiale francese, André Triolet – farà coppia fissa con Louis Aragon,
dominando, di fatto, per un trentennio, la cultura francese (fu la prima donna a
vincere un Goncourt).
Di questo piacque, tra gli altri, a Carmelo Bene: ne lesse alcuni brani nel
mirabile Spettacolo-concerto Majakovskij ideato nel 1960; ampliato nei testi e
negli autori, andò in onda su Rai 2 e Rai 3 nel 1977 come Bene! Quattro diversi
modi di morire in versi. L’“ufficio stampa della Rai” pubblicò per l’occasione
un “libretto” introdotto da Angelo Maria Ripellino: la poesia di Majakovskij, a
suo dire, “è tutta un groppo di nervi, si aggrinza per smorfie di raccapriccio”,
alternando “scoppi di roso… a singhiozzi e fiotti di lacrime”.
Intorno ai versi 690-700 del poemetto (p.45 dell’edizione italiana) c’è un
ragazzo che si uccide per amore. “Fino a che punto/ mi somiglia!”, sussulta il
poeta. Il biglietto d’addio improvvisato dal tizio (“Io muoio…/ Addio…/ Non
incolpate nessuno”) ricorda terribilmente quello scritto, sette anni dopo, da
Majakovskij: “Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente
pettegolezzi”.
Nel suo studio su Majakovskij (un tempo edito da il Saggiatore), Viktor
Šklovskij scrisse che il poeta “era un uomo fortissimo”, scrisse che agli occhi
di tutti era “l’eterno vincitore”. Eppure, si rivelò il poeta più fragile, di
vitrea onnipotenza. “Nel caricatore c’era una sola pallottola. Non ci fu un
amico abbastanza premuroso da togliere quella pallottola, da andare a trovare il
poeta, da telefonargli”, scrisse Šklovskij, incolpando se stesso, incolpando
un’intera generazione. Alcuni dissero che Majakovskij si era ucciso per colpa di
Lili. “Lili, amami”, scrive Vladimir nel biglietto definitivo. Lili era a
Berlino; da tempo il poeta frequentava la giovanissima – e gelosissima –
Veronika. Boris Pasternak, anni dopo, disse che “Majakovskij si è sparato per
orgoglio, per aver condannato qualcosa in sé o attorno a sé”; all’impronta, in
quell’aprile mai così grigio del 1930, abbozzò una poesia, Morte d’un poeta,
dalla chiusa leggendaria: “Il tuo sparo fu come un’Etna/ in un pianoro di
vigliacchi”. Con la morte di Majakovskij muore l’epica della Rivoluzione russa.
Majakovskij era ossessionato dall’immortalità. Verso il finale di Di questo – un
poema che è, in fondo, un esorcismo: imita Oscar Wilde e tende a Puškin per
volgersi agli sciamani siberiani – il poeta implora, per tre volte,
“Risuscitami”, “Risuscitami” perché “la voglio vivere tutta, la mia quota!”;
parlava a viso aperto al XXX secolo. Roman Jakobson ricorda che Majakovskij era
affascinato dalle teorie di Einstein e dalle nuove, spaventose, scoperte della
scienza:
> “allora con un’ostinatezza ipnotizzante, che certamente è nota a tutti quelli
> che hanno conosciuto più da vicino Majakovskij, il poeta disse, serrando le
> mascelle, ‘Io sono assolutamente convinto che la morte non ci sarà. I morti
> saranno risuscitati’”.
Le fotografie del suo cadavere, di cinematografica bellezza – viso in sempiterno
splendore, una floreale macchia rossa, non troppo vasta, sul petto –, finirono
per diventare un simbolo. Fu sepolto a Mosca, il poeta; i funerali finirono per
essere un evento, l’ennesima messa in scena: vi parteciparono quasi duecentomila
persone. Più che alle folle, tuttavia, Majakovskij parlava alle stelle – anche
questo ricordano i suoi amici. Per questo continuiamo a leggere i suoi versi,
ribelli all’era delle passioni tenui, delle passioni tristi: per addestrare un
cuore-toro, un cuore mohicano.
*
Da Di questo
L’ultima morte
Con piú scrosci
di un rovescio, piú vigore
di un tuono, ciglio
a ciglio, all’unisono,
da tutti i fucili,
da tutte le batterie,
da ogni Mauser e da ogni Browning,
da cento passi,
da dieci,
da due,
a bruciapelo,
una scarica via l’altra.
Tirano fiato un momento
e ancora spargono piombo.
Per lui è la fine!
Il piombo è in cuore!
Che non ci sia neppure un brivido!
Alla fin fine
– tutto ha fine.
Perfino i brividi.
Ciò che è rimasto
Compiuto è il massacro.
Gorgoglia gaiezza.
Gustando i dettagli, si sperdono lenti.
Solo, sul Cremlino,
brindelli di poeta
scintillano al vento – rosso vessillo.
Il cielo,
come un tempo,
è trapunto di lirica.
Riguarda
stupito l’ammasso di stelle –
l’Orsa Maggiore trovatoreggia. Perché?
Tra le regine di poesia
sgomita?
Col mestolo-arca,
lungo ere-Ararat,
nel cielo del diluvio,
Maggiore, trascinami!
A bordo
della nave spaziale,
da fratello
dell’orsa,
rintrono il creato di versi.
Presto!
Presto!
Presto!
Nello spazio!
Lo sguardo piú fisso!
Il sole irraggia i monti. I giorni
dalla banchina sorridono.
Da Vladimir Majakovskij, Di questo, a cura di P. Ferretti, Einaudi, Torino 2025.
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