
Il poeta a brandelli. Vladimir Majakovskij, o del delirio d’amore
Pangea - Monday, October 13, 2025Vasilij Kamenskij, poeta futurista, “esuberante pioniere del volo”, ossessionato dalla velocità, scrive che “Majakovskij desiderava recitare i suoi versi in groppa a un elefante”. Immagine perfetta per indicare l’indole di ‘Vlad’: domatore di belve, istrione, allo stesso tempo Mangiafuoco e Minotauro. Le memorie di Kamenskij, reduce di un’epoca inimmaginabile, uscirono nel 1940: il poeta, sfiancato da un incidente, “afferma con ottimismo straziante di avere ancora vent’anni” (Angelo Maria Ripellino); Majakovskij, il genio per sempre giovane, era morto dieci anni prima.
Poeta-agitatore, poeta-poligrafo, poeta-titano, Majakovskij va avvicinato, per piglio politico ed estro erotico, a Gabriele d’Annunzio più che a Filippo Tommaso Marinetti. Il Futurismo di Majakovskij – epico e ‘panico’ nella sua matrice intima – ha a che fare con La pioggia nel pineto più che con Zang Tumb Tumb; la sua Fiume fu la Rivoluzione russa; la delusione per gli esiti, esiziali, fu roboante: nel 1919 i Soviet impedirono al Kom-Fut (il “Collettivo comunista-futurista”) di consolidarsi in partito; due anni dopo, Lenin in persona intimò alla casa editrice di stato (l’unica ammessa, la Gosizdat) di limitare le pubblicazioni di Majakovskij “non più di due volte l’anno e in non più di 1500 copie”. È vero: Majakovskij fa paura, rivolta il peana di partito in ruggito; Majakovskij va urlato, va suonato, va cantato – lo ha fatto, ad esempio, il Teatro degli Orrori di Pierpaolo Capovilla, nell’album A sangue freddo, era il 2009 –; Majakovskij inaugura rivolte, anche i suoi slogan – a proposito di D’Annunzio… – preludono all’urlo, sovvertono i luoghi verbali comuni.
Un tempo, mistificandolo, lo si riteneva “un poeta… al megafono” (copy Eugenio Montale), non proprio un complimento: Editori Riuniti stampava le sue Opere in otto volumi. Da tempo, grazie al lavoro di Paola Ferretti, sappiamo che “Il furore del Majakovskij poeta d’amore non è scorporabile da quello del Majakovskij poeta della rivoluzione” (in: V. Majakovskij, Poesie d’amore 1913-1930, Einaudi, 2023). In particolare, Di questo (Einaudi, 2025) è l’Everest della poesia ‘amorosa’ di Majakovskij. Il poema fu scritto a partire del dicembre del 1922: la mitologica amante, Lili Brik, aveva imposto al poeta un diktat: non si sarebbero visti per un paio di mesi. Majakovskij riscattò il delirio d’amore in versi di esuberante potenza: lui, il leone dei poeti russi, si dice “scoiattolo poetico”; il tema d’amore, che “tutti gli altri eclissa”, che “intenebra il giorno”, lo assale, lo azzanna, “mi accoltella alla gola”. Quando Lili decise di rompere il veto, invitò Majakovskij ad accompagnarla a Pietroburgo. È il 28 febbraio del 1923. Majakovskij recitò a Lili il suo poema, in treno: lei lo sigillò con il pianto, apollineo. La sera ululava, fuori dai finestrini – i due, di nuovo uniti, ulularono.

Si erano conosciuti sette anni prima, nel 1915, amandosi tra foia e fobia. Lili, “la musa dell’avanguardia russa” (copy Pablo Neruda), più audace che bella, cresciuta nei ranghi di una ricca famiglia ebraica, suonava il pianoforte, parlava con destrezza francese e tedesco, faceva l’attrice, fece perdere la testa a molti. Aveva sposato Osip Brik nel 1912: il marito accettava di buon grado i suoi tradimenti. La sorella, Elsa – sposatasi incidentalmente con un ufficiale francese, André Triolet – farà coppia fissa con Louis Aragon, dominando, di fatto, per un trentennio, la cultura francese (fu la prima donna a vincere un Goncourt).
Di questo piacque, tra gli altri, a Carmelo Bene: ne lesse alcuni brani nel mirabile Spettacolo-concerto Majakovskij ideato nel 1960; ampliato nei testi e negli autori, andò in onda su Rai 2 e Rai 3 nel 1977 come Bene! Quattro diversi modi di morire in versi. L’“ufficio stampa della Rai” pubblicò per l’occasione un “libretto” introdotto da Angelo Maria Ripellino: la poesia di Majakovskij, a suo dire, “è tutta un groppo di nervi, si aggrinza per smorfie di raccapriccio”, alternando “scoppi di roso… a singhiozzi e fiotti di lacrime”.
Intorno ai versi 690-700 del poemetto (p.45 dell’edizione italiana) c’è un ragazzo che si uccide per amore. “Fino a che punto/ mi somiglia!”, sussulta il poeta. Il biglietto d’addio improvvisato dal tizio (“Io muoio…/ Addio…/ Non incolpate nessuno”) ricorda terribilmente quello scritto, sette anni dopo, da Majakovskij: “Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi”.
Nel suo studio su Majakovskij (un tempo edito da il Saggiatore), Viktor Šklovskij scrisse che il poeta “era un uomo fortissimo”, scrisse che agli occhi di tutti era “l’eterno vincitore”. Eppure, si rivelò il poeta più fragile, di vitrea onnipotenza. “Nel caricatore c’era una sola pallottola. Non ci fu un amico abbastanza premuroso da togliere quella pallottola, da andare a trovare il poeta, da telefonargli”, scrisse Šklovskij, incolpando se stesso, incolpando un’intera generazione. Alcuni dissero che Majakovskij si era ucciso per colpa di Lili. “Lili, amami”, scrive Vladimir nel biglietto definitivo. Lili era a Berlino; da tempo il poeta frequentava la giovanissima – e gelosissima – Veronika. Boris Pasternak, anni dopo, disse che “Majakovskij si è sparato per orgoglio, per aver condannato qualcosa in sé o attorno a sé”; all’impronta, in quell’aprile mai così grigio del 1930, abbozzò una poesia, Morte d’un poeta, dalla chiusa leggendaria: “Il tuo sparo fu come un’Etna/ in un pianoro di vigliacchi”. Con la morte di Majakovskij muore l’epica della Rivoluzione russa.

Majakovskij era ossessionato dall’immortalità. Verso il finale di Di questo – un poema che è, in fondo, un esorcismo: imita Oscar Wilde e tende a Puškin per volgersi agli sciamani siberiani – il poeta implora, per tre volte, “Risuscitami”, “Risuscitami” perché “la voglio vivere tutta, la mia quota!”; parlava a viso aperto al XXX secolo. Roman Jakobson ricorda che Majakovskij era affascinato dalle teorie di Einstein e dalle nuove, spaventose, scoperte della scienza:
“allora con un’ostinatezza ipnotizzante, che certamente è nota a tutti quelli che hanno conosciuto più da vicino Majakovskij, il poeta disse, serrando le mascelle, ‘Io sono assolutamente convinto che la morte non ci sarà. I morti saranno risuscitati’”.
Le fotografie del suo cadavere, di cinematografica bellezza – viso in sempiterno splendore, una floreale macchia rossa, non troppo vasta, sul petto –, finirono per diventare un simbolo. Fu sepolto a Mosca, il poeta; i funerali finirono per essere un evento, l’ennesima messa in scena: vi parteciparono quasi duecentomila persone. Più che alle folle, tuttavia, Majakovskij parlava alle stelle – anche questo ricordano i suoi amici. Per questo continuiamo a leggere i suoi versi, ribelli all’era delle passioni tenui, delle passioni tristi: per addestrare un cuore-toro, un cuore mohicano.
*
Da Di questo
L’ultima morte
Con piú scrosci
di un rovescio, piú vigore
di un tuono, ciglio
a ciglio, all’unisono,
da tutti i fucili,
da tutte le batterie,
da ogni Mauser e da ogni Browning,
da cento passi,
da dieci,
da due,
a bruciapelo,
una scarica via l’altra.
Tirano fiato un momento
e ancora spargono piombo.
Per lui è la fine!
Il piombo è in cuore!
Che non ci sia neppure un brivido!
Alla fin fine
– tutto ha fine.
Perfino i brividi.
Ciò che è rimasto
Compiuto è il massacro.
Gorgoglia gaiezza.
Gustando i dettagli, si sperdono lenti.
Solo, sul Cremlino,
brindelli di poeta
scintillano al vento – rosso vessillo.
Il cielo,
come un tempo,
è trapunto di lirica.
Riguarda
stupito l’ammasso di stelle –
l’Orsa Maggiore trovatoreggia. Perché?
Tra le regine di poesia
sgomita?
Col mestolo-arca,
lungo ere-Ararat,
nel cielo del diluvio,
Maggiore, trascinami!
A bordo
della nave spaziale,
da fratello dell’orsa,
rintrono il creato di versi.
Presto!
Presto!
Presto!
Nello spazio!
Lo sguardo piú fisso!
Il sole irraggia i monti. I giorni
dalla banchina sorridono.
Da Vladimir Majakovskij, Di questo, a cura di P. Ferretti, Einaudi, Torino 2025.
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