Un dannato della vita. Non trovo definizione migliore per riferirmi a Edgar
Allan Poe (1809-1849). La sua fu un’esistenza breve, tormentata, trascorsa tra
il disordine e gli eccessi, segnata da una compagna fedele e inseparabile:
un’angoscia assoluta. Sul piano sentimentale ebbe una vita, per usare un
eufemismo, complessa; il matrimonio, celebrato due volte a distanza di otto
mesi, con una tredicenne che per di più era sua cugina la dice lunga al
riguardo. Però, nonostante, mi correggo, grazie a questo grande guazzabuglio, lo
scrittore americano ci ha lasciato una serie di racconti straordinari. Tra i
tanti il mio preferito resta sempre Un uomo tra la folla, anche perché, secondo
me, incarna nel modo migliore il suo autore. A tutti gli effetti è un
autoritratto di Poe.
Si svolge a Londra ed è la storia di un uomo che, dopo una lunga malattia, esce
per la prima volta e si mette a osservare la folla da dietro le vetrate di un
caffè. Comincia a guardare i passanti prima in modo impersonale, poi a poco a
poco, attraverso i vestiti, il modo di incedere, l’espressione dei volti, cerca
di capire a quale categoria sociale appartengano. A un tratto un vecchio
dall’aspetto cupo e singolare cattura la sua attenzione e, spinto da un bisogno
irrinunciabile di saperne di più su quella figura, l’uomo esce dal caffè e si
mette a seguirlo attraverso le strade della città. Da lì ha inizio una furibonda
cavalcata che dura tutta una notte e una giornata intera, con il vecchio sempre
immerso tra la folla e terrorizzato all’idea di rimanere anche per pochi istanti
da solo. L’inseguimento è tanto assillante quanto vano e terminerà senza nessun
risultato se non la consapevolezza dell’impossibilità di capire il segreto
dell’uomo della folla.
> «Annientato dalla fatica com’ero, al cader della seconda sera, affrontai
> risolutamente lo sconosciuto e lo fissai negli occhi. Ma egli fece la vista di
> non accorgersene. E riprese, d’un subito la sua solenne andatura, mentre io
> rimanevo immobile a guardarlo, e a seguirlo non mi bastava più l’animo.
> ‘Questo vecchio – dissi allora a me stesso – è il genio caratteristico del
> delitto più efferato. Egli non vuole rimanere solo, è l’uomo della folla.
> Sarebbe invano che io continuassi a seguirlo, giacché non riuscirei a sapere
> di lui e delle sue azioni nulla più di quanto egli già non mi abbia fatto
> sapere’.»
Il significato del racconto è evidente: l’impossibilità di arrivare a una vera
conoscenza e testimonia come il percorso della vita sia lungo, tortuoso,
faticoso e ahimé senza alcun risultato perché alla fine non ci sarà nessuna
scoperta della verità. Ma, come tutte le storie di Poe, anche questa è una fonte
inesauribile di riflessioni. Prima di tutto pensiamo a quella smisurata folla, a
tutti gli effetti la vera protagonista del racconto, così opprimente da togliere
il fiato e in mezzo alla quale ci rendiamo tragicamente conto di essere immersi
anche noi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Proprio come il vecchio del
racconto, tutti sembriamo avere un bisogno coattivo della folla; una condanna
tanto primitiva quanto incomprensibile che ci portiamo sulle spalle come le
lumache con la loro conchiglia. Usciamo al mattino e andiamo al lavoro
incolonnati insieme a una moltitudine di nostri simili; appena abbiamo un
momento libero corriamo a distrarci in luoghi pieni di gente, sia un locale
pubblico, uno stadio o un cinema; quando arrivano le vacanze ci muoviamo tutti
insieme per poi ritrovarci ancora una volta in posti affollati da una
moltitudine di nostri simili. Siamo perennemente nello stesso tempo uomini tra
la folla e uomini sempre più soli, del tutto estranei a noi stessi come agli
altri.
Con il suo racconto Poe dimostra di essere ben consapevole del destino crudele e
beffardo a cui sembra costretta in modo inesorabile l’esistenza umana. Una folle
corsa in fondo alla quale cerchiamo disperatamente di scorgere un barlume di
luce, ma che invece ci vede già condannati in partenza alla sconfitta. Poe parla
al nostro cuore. La sua angoscia non può non essere anche la nostra. A questo
serve la letteratura. Quella vera si intende. Come il protagonista di Un uomo
tra la folla siamo spinti da forze misteriose e a noi del tutto sconosciute a
muoverci, ad agire, a parlare, ad andare sempre avanti senza sosta sotto la
spinta inesorabile della nostra perenne ansia, piccole rotelline di un
meccanismo infernale di cui non riusciamo a capire né l’origine né la fine.
Per tornare alla vita di Poe di cui si diceva all’inizio, va detto che anche la
sua fine fu tragica e misteriosa, avvolta in una imperscrutabile miserevole
grandezza, una scena che sembra uscire da uno dei suoi racconti. La mattina del
3 ottobre 1849 un uomo in preda al delirium tremens venne trovato in una lurida
stanza di un alberghetto da due soldi di Baltimora. Nessuno lo conosceva, venne
trasportato d’urgenza all’ospedale della città dove morì dopo qualche giorno
senza riprendere conoscenza. Le ipotesi sulla causa della morte sono tutto un
programma: cardiopatia, epilessia, sifilide, meningite, colera e, tanto per non
farsi mancare niente, rabbia. Era Edgar Allan Poe, un uomo tra la folla.
Silvano Calzini
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