È ormai difficile capire cosa intendesse José Bergamín per analfabetismo.
L’analfabeta è stato sostituito dall’ignorante, l’alfabetizzato dal regime del
logaritmo, dalle ragioni del risultato, dai legionari dell’io. Fiero di non
leggere, leggiadro in ipocrisia, l’ignorante ostenta la gioia di essere mondano
– non certo di essere al mondo, di questo mondo –, il genio pratico – l’opposto
del dotarsi di una pratica – il corrispondere ai desideri del proprio intestino,
l’unico interiore che contempli. Né anima né animale, l’ignorante di oggi è come
l’intellettuale di ieri: l’uomo alfabetico, che costringe ogni fatto in dimora
di misura, si diletta in statistiche, celebra il proprio status, bieco figlio
dell’istituzione – sentendosi, naturalmente, libero, bonificato dallo Stato,
anarca nel proprio ano, anodino.
L’analfabeta – cioè: il bambino, il popolo, l’apostolo, dunque il poeta – pare
scomparso. La logica algoritmica, che crea umani-manovali, umani-replicanti,
umanoidi mercenari dell’ego, in fondo, un’appendice del proprio portafogli,
sembra aver finalmente ucciso l’analfabeta, l’uomo lordo di vita, lordo di Dio,
in pieno possesso dell’essere mondo, dell’essere qui.
L’analfabeta non classifica le piante, le conosce; l’analfabeta non entra in
contatto con gli animali ma con le anime; sa la pericolosità della bestia e la
sua salvezza, e la riproduce in sé, nelle fattezze del viso e dell’agire. Così,
l’uomo analfabeta, ostile ai nomi e alle definizioni, è corvo e volpe, è larice
e airone, è luccio e luce, è acero e acerrimo nemico di chi alla persona
sostituisce la personalità, l’ennesima menzogna.
L’analfabeta non comprende – apprende per apprensione, per trasalimento e
assalto. Apprende per tradimento. L’analfabeta non conosce il linguaggio dacché
è verbo.
Allo stesso modo, l’analfabeta assoluto, il poeta, non stuzzica la retorica, la
stravolge; non sta al gioco del retore ma alla ferocia del re; non è al passo
coi tempi e coi poseur, autentico passeur, trapper tra i regni; è incauto, fuori
tono, scurrile, scomodo, senz’arte né parte, idiota ai più. È l’inosservato
assoluto, perché non ha niente da dire e nulla da dare – è il dato di fatto, il
dono, il detto e la contraddizione. Tutt’altro che incolto, il poeta legge
divorando, legge sottraendosi – mentre l’intelligenza algoritmica procede per
accumulo (norma bulimica, in cui non è contemplato l’eccedente, l’eccezionale,
l’eccesso che non offre via di accesso), il poeta opera per sottrazione: toglie
toglie toglie fino alla parola suprema, alla parola-stalattite, alla
parola-stilita. Parola che non dice ma agisce.
L’analfabeta, il mago. L’analfabeta, il perpetuo orante. Analfabeta: altro modo
di dire, vocazione. Essere chiamati; dunque: invasione di voci. Non vocalizzo,
non vocalità. Restare veritieri alla voce. Il che implica: impunità da serpe,
impurità, putridume nel dire. Allora: la vocale diventa angelo e a noi resta
l’eccomi, il sì come si assiste alla cosa sgozzata, alla cosa benedetta, alla
cosa cosmica.
Tommaso Scarponi, che figura tra i sapienti – leggete Distruzione e analogia,
Castelvecchi, 2025 – mi volta un brano tratto dal memorabile scritto di José
Bergamín. Eccolo:
> Quando Gesù era fanciullo analfabeta o analfabeta come un fanciullo (ché
> analfabeta fu sempre: come fanciullo, come uomo e come Dio), quando era
> fanciullo, Gesù si smarrì e fu trovato nel tempio. Lì insegnava ai dottori
> della legge, dottori della legge scritta, della lettera legale (gli stessi che
> poi lo avrebbero crocifisso per questo: perché era analfabeta); lì insegnò
> loro la dottrina spirituale dell’ignoranza, che essi non ascoltarono e non
> intesero. Perciò, quando poi lo condannarono a morte come analfabeta, lo
> crocifissero letteralmente, cioè a piè della lettera o delle lettere,
> collocando sulla sua testa un cartello o insegna su cui il letterato Pilato
> fece scrivere appositamente: Io sono il Re dei Giudei; fece scrivere ciò per
> mostrare a tutti che avevano preso alla lettera le parole di Cristo e che lo
> avevano crocifisso prendendolo così, letteralmente. Sotto questo INRI
> letterale, Cristo rese lo spirito a Dio; “dando un gran grido”, dice
> l’apostolo: divinamente e umanamente analfabeta. Lo spirito muore sempre
> crocifisso a piè della lettera. Ma muore per resuscitare.
José Bergamín scrive La decadencia del analfabetismo nel 1933, pubblicando sulla
rivista appena fondata, “Cruz y Raya”. Si premurava di far conoscere al mondo
l’opera di Federico García Lorca, uno dei rari ‘analfabeti’; quattro anni dopo
avrebbe guidato la delegazione spagnola del “II Congreso Internacional de
Escritores para la Defensa de la Cultura” (tra i tanti, erano convenuti André
Malraux e Wystan H. Auden, Pablo Neruda e Octavio Paz). Tradotto in italiano nel
1972, da Rusconi, riprodotto da Bompiani nel 2000, Decadenza
dell’analfabetismo è un libro uscito dai ranghi del consesso editoriale come
altri testi di José Bergamín. Nel 2003, Marco Dotti usò brandelli di Decadenza
dell’analfabetismo – insieme a testi di Céline e di Artaud – come ‘manifesto’
per il “Primo festival della letteratura resistente dedicato agli scrittori
analfabeti”, in atto a Pitigliano. Si reagiva – as usual – al “nuovo regime
culturale, blindato ed escludente, intento solo a perpetuare se stesso a
discapito di ogni scampolo di novità e impulso al rinnovamento” (così Marcello
Baraghini autore della deliziosa antologia, La vita si scrive, per Stampa
Alternativa).
Alla dinamica natura vs. cultura, José Bergamín ne pone un’altra, a vertigine,
sacro vs. letterale. La lettera uccide il sacro, la legge fa massacro del cuore.
Al linguaggio babelico – algoritmico – che fermenta burocrazia, si oppone il
brigantaggio del linguaggio, il verbo nel roveto, l’annuncio, il miracolo. Al
poeta cortigiano si preferisce il poeta ladro, il poeta in caccia aperta. Al
poeta impegnato si sostituisca il poeta impari, il paria assoluto. Al linguaggio
dell’istituzione, costituito dai vocabolari, il vocabolo onnivoro, parola che
vive tra le piante e le pietre, vivo dire dei mari, parola vespertina che si
sorseggia a colpo d’ala, insoluto sole.
L’attacco di Decadenza dell’analfabetismo – “Tutti i bambini, finché sono tali,
sono analfabeti” – pare memore del Fanciullino di Pascoli: “È dentro noi un
fanciullino… ma noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi
un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia”.
Pascoli mirava all’anonimato, al sovvertimento dei nomi (“Quando fioriva la vera
poesia; quella, voglio dire, che si trova, non si fa, si scopre, non s’inventa;
si badava alla poesia e non si guardava al poeta; se era vecchio o giovane,
bello o brutto, calvo o capelluto, grasso o magro: dove nato, come cresciuto,
quando morto”); scriveva che il poeta “non deve avere, non ha altro fine… che
quello di riconfondersi nella natura, donde uscì”. Ma noi temiamo il selvaggio,
la via senza ancoraggio di gloria o di nomea, così i poeti vengono stivati nelle
storie della letteratura, inermi, come strane bestie in formaldeide, per lo più
innocue. Parole sotto vuoto, parole disinnescate. E dei grandi autori che hanno
operato verso il ritorno all’analfabetismo, cioè verso i modi della mania
lirica, l’unica – chessò, Benjamin Fondane, Ted Hughes, Robinson Jeffers… – non
si dice, si traduce a sprazzi, li si imbraga tra criteri accademici, tra erbari
e mostre di lepidotteri.
Tra l’incolto che si bea della propria arrogante ignoranza e l’elegante istrione
che si muove tra cadaverici tomi, non c’è differenza: entrambi sono i sacerdoti
di un mondo morto; entrambi, alieni da un’eccezionalità individuale, erigono
santuari intorno al proprio io, si credono i migliori, gli scaltri, i pronti a
tutto. Di tutto privo, detto depravato dai doge di questo tempo, il poeta – se è
tale e non la sua maschera, l’infame implume – è l’unica creatura libera,
liberata: ripete le sue parole al vento – e se ne ritrae, perché nulla è invano
e tutto opera secondo la scia dell’angelo e dell’agnello.
***
Da Decadenza dell’analfabetismo
Ciò che un popolo serba del bambino, e ciò che l’uomo serba del popolo, ovvero
ciò che in lui è ancora bambino, è l’analfabetismo. Analfabetismo è la
denominazione poetica di uno stato autenticamente spirituale. Possiamo assistere
al processo di decadenza dell’analfabetismo nelle nostre vite come in quelle dei
popoli più colti, i più letterati. Guai a noi – guai a loro – se accettassimo
superstiziosamente come ineluttabile il monopolio del letterale, del letterario,
della cultura!
Esiste una cultura letterale. Esiste una cultura spirituale.
La prima perseguita l’analfabetismo, il suo nemico. Ed è oggi – non ieri né
domani – la più diffusa. È quella che ha disordinato il mondo: quella che ha
disordinato le cose e ha soppresso le gerarchie. Quando il senso delle gerarchie
è razionalmente perduto, tutto deve essere disposto in ordine alfabetico.
L’ordine alfabetico, però, è un ordine falso. L’ordine alfabetico è il disordine
spirituale: quello dei dizionari, dei vocaboli letterali, più o meno
enciclopedico, in cui la cultura letterale tenta di ridurre l’universo.
Il monopolio letterale della cultura ha disordinato le cose disorganizzando le
parole, che sono anch’esse cose, non lettere; e poiché sono cose (cose di idee o
idee di cose, cose della ragione, cose del gioco) sono pura realtà razionale o
poetica, realtà autenticamente spirituale o analfabeta.
*
C’è stata una sistematica esibizione stilistica della poesia. Attraverso questi
sottili lambicchi, la poesia viene sterilizzata: sterilizzazione immaginativa
del pensiero. La poesia distillata, lambiccata, sterilizzata, non è pura poesia:
è poesia letterata, letteralizzata. La poesia diventa letterata, alfabetica,
cercando la musica in una vocalizzazione esclusivamente letterale. Esiste
un’intera letteratura lirica che ha testi e musicalità, ma è priva di poesia.
*
La poesia pura è semplicemente la più impura: poesia analfabeta. La poesia è
analfabetismo integrale perché integra spiritualmente ogni cosa. La poesia è il
campo analfabeta della gravitazione universale di tutte le costruzioni
spirituali dell’uomo.
*
Lo stato poetico è uno stato del desiderio infantile o popolare: un desiderio di
analfabetismo; desiderio paradisiaco dello stato dell’uomo puro. Il poeta anela
all’ignoranza, all’infanzia, all’innocenza, all’ignoranza analfabeta che ha
perduto; anela all’analfabetismo perduto: pura ragione spirituale della sua
opera.
*
La parola, la viva parola, non si conforma nell’ordine alfabetico: perché la
vita accade tramite la parola, non la parola tramite la vita; così come la
verità è tramite la parola e non viceversa: tramite la parola divina. (In
principio era il Verbo e il Verbo era Dio e il Verbo era in Dio… così attacca
Giovanni nel suo Vangelo poetico, che è il Vangelo dell’analfabetismo spirituale
più puro).
*
Al termine del primo libro sulla Dotta ignoranza, che è dottrina spirituale
dell’analfabetismo, Nicola Cusano scrive che la verità risplende
incomprensibilmente nell’oscurità della nostra ignoranza. Il potere
dell’oscurità della nostra ignoranza, il potere spirituale dell’analfabetismo, è
quello di far risplendere incomprensibilmente in noi la precisione della verità.
Non esiste poesia che non richieda tale lucidità spirituale, rintracciabile
soltanto nell’oscurità della nostra ignoranza, approfondendo, direbbe Giordano
Bruno, la profondità della nostra ombra.
*
Il declino dell’analfabetismo è la decadenza della cultura spirituale quando la
cultura letterale la perseguita e la distrugge. Tutti i valori spirituali si
sbriciolano quando la lettera o le morte lettere sostituiscono la parola, che si
esprime tramite vive voci. Il valore spirituale di un popolo è inversamente
proporzionale al declino del suo analfabetismo pensante e parlante. Perseguitare
l’analfabetismo significa proseguire strisciando nel retro del pensare:
perseguire le tracce luminose e poetiche della parola. Le conseguenze letterali
di questa persecuzione è la morte del pensiero.
Chiunque si allontani dal gioco poetico del pensare è perduto, irrimediabilmente
perduto, perché abbandona la verità della vita, che è l’unica vera vita – quella
della fede, della poesia – per la menzogna della morte. Prendere tutto alla
lettera, confidando in essa: ma ciò che è letterale è morto.
Il declino dell’analfabetismo è, semplicemente, il declino della poesia. È il
declino del nostro pensiero da quando abbiamo perso la fede nella poesia, da
quando siamo diventati alfabetizzati: non abbiamo fede quando siamo orfani della
vera ragione, la ragione pura, quando sradichiamo dal nostro pensare la poesia.
*
La ragione poetica del pensare dell’uomo è la fede. La poesia appartiene sempre
agli uomini di fede, mai a quelli di lettere, ai letterati. Gli apostoli, in
quanto uomini di fede e dunque analfabeti, hanno dato la più perfetta
espressione poetica alla vita di Cristo. Confrontate i loro testi, poeticamente
puri, con una qualsiasi delle innumerevoli vite letterarie o da letterati di
Gesù Cristo: quella di Renan, di Strauss, di Papini… o qualsiasi altra (tranne
le visioni analfabete ed extra-letterarie dei mistici come Anna Katharina
Emmerick). Quelle vite letterate di Cristo contengono pagine e pagine di
letteratura vaga, amena, senza una parola di verità: non una sola parola di
verità né di menzogna perché ciò che pronunciano non sono parole ma lettere; la
parola può essere pronunciata soltanto come l’hanno pronunciata gli apostoli e i
santi: poeticamente. Non tutti gli analfabeti sono santi, ma tutti i santi
devono essere analfabeti.
*
Per apprendere il vero timore di Dio bisogna varcare la soglia poetica
dell’analfabetismo; l’altro, il timore letterale della morte – o della vita –,
il timore alfabetico del vuoto, non è timore di Dio: è terror panico.
Terror panico, cioè panteismo letterario, cioè letteralità del divino: la
confusione di Dio con il Demonio non è, letteralmente, altro che confusione
infernale, confusione di tutti i demoni; pandemonio, come lo fu la confusione
letterale di Babele, ma senza un dono illetterato delle lingue a succedergli:
senza Pentecoste spirituale redentrice.
*
L’ordine alfabetico internazionale della cultura, nato dagli enciclopedisti –
specie di mortale anticipazione dell’Inferno – è giunto, come logica e naturale
conseguenza, a trasformare per noi la rappresentazione totale del mondo e del
cosmo in un enorme Dizionario Enciclopedico Generale, alfabeticamente
organizzato. La progressiva alfabetizzazione della cultura ha agito sulla vita
umana come una progressiva paralisi del pensiero.
*
La lettera uccide lo spirito.
L’analfabeta ha dei diritti spirituali da difendere contro la dominazione
alfabetica di qualsiasi cultura, più o meno letterale o alfabetizzata. Se
parliamo dei diritti del bambino come possiamo ignorare i diritti
dell’analfabeta che sono, in origine, quelli del bambino, i più puri interessi
spirituali dell’infanzia? Diritti sacri perché esprimono l’unica indiscutibile
libertà sociale: quella dello spirito, quella del linguaggio creativo, quella
del pensiero immaginativo. L’analfabetismo spirituale e creativo dei popoli è
ciò che i popoli hanno in comune con i bambini, la loro infanzia permanente.
*
Se i bambini e i popoli cessano di essere analfabeti, cosa diventeranno? Se i
bambini e i popoli vengono privati dell’analfabetismo – quella vita spirituale
immaginativa del loro pensiero che chiamiamo analfabetismo – cosa resta di loro?
Un bambino e un popolo si snaturano quando vengono alfabetizzati, cominciano a
corrompersi, a cessare di essere; a cessare di essere ciò che sono: bambini,
popoli.
*
L’alfabetizzazione, o alfabetizzazione culturale è il nemico mortale del
linguaggio in quanto tale, nella misura in cui il linguaggio è spirito, è
parola. L’alfabetizzazione è il nemico giurato di ogni linguaggio spirituale,
cioè, in ultima analisi, della poesia.
José Bergamín
*Traduzione di Compiuta Donzella
In copertina: José Bergamín (1895-1983)
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