C’è un racconto di Roald Dahl – Lo Scrittore Automatico, contenuto in Il libraio
che imbrogliò l’Inghilterra (Guanda Editore, traduzione di Massimo Bocchiola) –
in cui un aspirante scrittore inventa una macchina che scrive racconti e romanzi
in modo automatico. Deluso dai continui rifiuti degli editori, il protagonista
decide di vendicarsi proponendo a tutti gli scrittori del mondo di smettere di
scrivere prestando il loro nome alla sua macchina, che dunque scriverà al posto
loro. I primi due autori a cui si rivolge, nei quali non è difficile riconoscere
Hemingway e Faulkner, rifiutano l’offerta, ma poi qualcuno accetta e pian piano
lo fanno tutti, perché economicamente è conveniente e anche il risultato finale
è migliore, al punto che lo stesso autore del racconto – Roald Dahl – scrive:
> “In questo preciso momento, mentre sto qui seduto ad ascoltare il rantolo dei
> miei nove figli nella stanza attigua, sento la mia mano strisciare sempre più
> vicino a quel contratto dorato che mi aspetta all’altra estremità della
> scrivania…”
Giorgio Manganelli diede una volta una definizione perfetta di Roald Dahl: per
lui Dahl era un malvagio. La malefica idea di un mondo letterario che rinuncia
alla sacralità dell’espressione artistica affidando la scrittura a una macchina
non poteva che uscire dalla sua penna. E oggi il racconto è ancora più attuale,
in tempi di intelligenza artificiale e di editing tirannici. Naturalmente è
anche un’idea di difficile o impossibile realizzazione, visto che ogni autentico
scrittore ha o dovrebbe avere un proprio stile e dunque la macchina immaginata
da Dahl dovrebbe non soltanto scrivere racconti e romanzi da sé ma anche saper
pasticciare o imitare gli scrittori ai quali intende sostituirsi. Cosa che
tuttavia l’intelligenza artificiale sembra essere capace di fare; se chiediamo a
ChatGPT di scrivere un paragrafo alla maniera di Hemingway o di Faulkner nel
giro di un battito di ciglia ce ne propone uno. Poco importa se da un punto di
vista letterario il risultato è indigesto: l’AI spaccia dei pessimi falsi con
grande sicurezza di sé. Forse la tracotanza fa parte del suo fascino.
Ma non voglio scrivere di intelligenza artificiale; non sono abbastanza
preparato al riguardo, né intendo prepararmi. Passo quindi a un altro spunto che
in qualche modo indirizzerà questo mio articolo vagabondo. È tratto da un
romanzo di Jonathan Franzen, Libertà (Einaudi, 2011), nella traduzione di Silvia
Pareschi, la quale ha per inciso dedicato un intero capitolo di un suo libro
(Fra le righe, Laterza, 2024) proprio all’intelligenza artificiale.
La situazione è questa: Joey tira fuori un romanzo di Ian McEwan, Espiazione, e
tenta di leggere, di “interessarsi alle descrizioni di stanze e giardini”,
scrive Franzen e traduce Pareschi, però non ci riesce e pensa a un sms che gli
hanno appena spedito. Si tratta di una piccola e divertente chiosa letteraria.
Qualche anno dopo, interrogato al riguardo, Franzen rivelerà di essersi voluto
vendicare di McEwan, il quale aveva detto che dopo la morte di John Updike
Philip Roth era l’ultimo grande scrittore americano rimasto, ignorando
completamente la generazione di Franzen.
Bene, credo che pensare a un personaggio di Franzen che ha difficoltà a leggere
un romanzo di McEwan ci dia una buona indicazione di dove si stia indirizzando
la letteratura contemporanea. Ciò ha a che fare anche con la deriva
dell’intelligenza artificiale e – temo – persino con gli editor.
L’editoria odierna esige quasi sempre la massima leggibilità. Il pubblico deve
essere padrone dei libri che legge, e poco importa se per ottenere tale
risultato bisogna appiattire alcuni stili considerati “difficili” – è il caso
del McEwan di Espiazione? – o magari passare la riscrittura delle opere
attraverso una sorta di collettivismo editoriale che ha ben poco a vedere con
l’espressione artistica e fin troppo con il mercato. Il lettore non deve
faticare. Lo stile di chi scrive è quasi sempre un impaccio; deve essere
invisibile o assente, altrimenti i personaggi di Franzen (che poi siamo noi
stessi) pensano agli sms che hanno appena ricevuto e non a ciò che stanno
leggendo. Lo scrittore contemporaneo deve innanzitutto saper intrattenere il
lettore, servirlo, forse addirittura mettersi ai suoi piedi.
In un articolo del 1999 (ripreso in Meglio star zitti?, Mondadori, 2019)
Giovanni Raboni riportava queste parole di Elena De Angeli, una consulente
editoriale: “Se oggi, in Italia, capitasse sul mercato un autore come Carlo
Emilio Gadda, non troverebbe un editore disposto a pubblicarlo.” Questo quasi
trent’anni fa, e secondo Raboni l’unico rimedio era la creazione di un’editoria
pubblica, finanziata dallo Stato. Un’operazione possibile? Auspicabile? O
sarebbe una rovina? Possibile che la grande letteratura – o comunque un certo
tipo di grande letteratura – non possa ormai che rivolgersi a un’editoria a
perdere?
Il lettore non deve faticare, dicevo poc’anzi. Molti editor appiattiscono stili
e rovinano opere con la stupida pretesa della leggibilità, sebbene i libri sui
quali tanto si accaniscono continuino spesso a non vendersi, il che sarebbe
divertente se non fosse purtroppo triste. D’altronde l’editoria (ma anche molti
autori!) oggi non esiterebbe a ricorrere alla macchina immaginata da Roald Dahl
pur di procacciarsi qualche lettore in più.
Venderemo dunque l’anima al Diavolo? Il Mercato riscriverà i nostri libri e si
inchinerà al sacro Dio della scorrevolezza? In una lettera a John Hamilton
Reynolds del 1818, tre anni prima di morire, Keats scriveva che non poteva fare
a meno di considerare il pubblico un “Nemico” – le maiuscole sono sue –, di
rivolgersi a lui con “Ostilità”. Forse dovremmo riflettere su queste parole.
Ma non ne verremo mai a capo. La prima regola di scrittura di Jonathan Franzen
fa invece così: “The reader is a friend, not an adversary, not a spectator.” Il
lettore è un amico, non un avversario, non uno spettatore. Chissà cosa ne
direbbe Keats. Chissà cosa ne penserebbe Gadda. Quanto a me, da lettore,
preferisco i difetti di una scrittura reale alla mancata perfezione di una
scrittura artificiosa.
Edoardo Pisani
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