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La musica non ama le parole, non ama le inutili ciance, il chiacchiericcio, il futile trastullo salottiero
La solerzia con cui spesso si attribuiscono alla musica virtù che naturalmente le sono estranee, induce molte menti deboli a produrre lavori o a esprimere giudizi di una scandalosa e sconcertante vacuità. Il brusio molesto di certe considerazioni fatte a piena voce o il grafismo isterico di anonimi e sedicenti teorici, sovente dimenticano l’aspetto più importante della faccenda: la musica non ama le parole. Dopotutto è la smania interpretativa ad alimentare la fastidiosa chiacchiera che di volta in volta nasce intorno a un’opera d’arte o a un concerto. Senza un così chiassoso stimolo, questa imbarazzante pratica finirebbe motu proprio. Ma per fortuna, l’opera è chiusa, serrata su sé stessa, fortemente protetta da un’impenetrabile solitudine. Così, tra la musica e la parola agisce una considerevole distanza. Piedi, miglia, incalcolabili chilometri le separano. Come per le Vite parallele di Plutarco, è solo la circostanza artistico-letteraria a renderle affini, null’altro le lega, niente le tiene insieme. E una solenne estraneità ne celebra il mistero. La musica non ama le parole se non sono canto. Non ama l’insolenza del parlato o di qualsiasi discorso che intenda sottrarle lo scettro regale col quale essa impone le sue diaboliche leggi. La musica tollera soltanto il verso misurato di un refrain, la sillaba pronunciata in accordo con i suoni, il soffio sottile di un’ugola leggera. Come un violento sbuffo di maestrale essa ci rammenta i suoi severi comandamenti dinanzi ai quali timidamente chiniamo il capo. La parola le si affida con lo stesso candore con cui il discepolo segue il maestro. E come gli antichi pitagorici, spesso non fa domande. La musica non ama le parole se non sono canto. Non ama le inutili ciance, il chiacchiericcio, il futile trastullo salottiero. Come ogni spasimo d’amore è flatus vocis, così l’introduzione al concerto, la didascalia o il programma di sala non sono che ridicoli esercizi di stile, vuoti accademismi, ékphrasis. Tuttavia qui la parola non accampa pretese, fa quello che deve e ritorna in silenzio da dov’era venuta. Si dice che Beethoven componesse a parole, che sul suo taccuino, anziché note, scrivesse frasi. Così qualcuno chiedeva perplesso: «Cosa fa?», e mentre il maestro continuava i suoi nervosi appunti, un altro rispondeva: «Compone musica». Ma Beethoven amava un solitario grafismo. Scriveva parole di canti immaginari o per una musica che soltanto lui ormai sentiva. I taccuini erano il suo nervo acustico e sostituivano le sue orecchie malate. Con la scrittura cercava di rievocare suoni che aveva perso per sempre. Adesso ascoltava soltanto con gli occhi. Antonio Donghi, Strumenti musicali, 1935 Dicendo che il poeta – un musico in potenza – conosce il segreto della parola e il suo insondabile mistero, non si afferma nulla di nuovo. La rima, l’enjambement, l’anafora, l’ossimoro assecondano lo stupore e annullano la frustrazione che il parlato quotidianamente imprime alla voce ma, bisogna dirlo, la poesia non è ancora musica in senso assoluto. I sussulti del tenace Rousseau per le opere di Pergolesi sono certo legati ai melodiosi accenti della lingua italiana, eppure qualcosa gli sfuggì. Ciò che egli non comprese mai è che parlare è tutt’altro che scrivere, tutt’altro che cantare. Il suo agognato ritorno alle meravigliose sonorità di una lingua primitiva si sfasciò proprio dinanzi all’impossibilità che il segno linguistico o la parola scritta assomigliassero, una volta per tutte, al canto. Insomma, la sua sfrenata convinzione che il linguaggio fosse nato esclusivamente per esprimere i sentimenti, gli fece trascurare tutto il resto. Cosicché un Da Ponte non compose arie o cavatine semplicemente mettendo insieme endecasillabi o alessandrini. Non intrecciò scene o sgranò versi distillando dello stupido sentimentalismo. Egli, invece, cesellò preziosi monili che il solito Mozart mise in musica divinamente. Ci sono ancora troppe parole sulla musica o nell’amalgama di suoni che proviene da quest’Occidente malato e ormai alla fine. (E non si ricorra al solito Spengler per darmi ragione ma si leggano i nostri Ceronetti o Sgalambro e poi ne riparliamo). Che la musica debba essere spiegata, commentata o discussa, mi annoia. Che qualcuno debba dirmi questo o quello su un quartetto di Haydn o su una sinfonia di Mahler m’immusonisce. È come se dinanzi a L’origine del mondo di Gustave Courbet, dinanzi, cioè, a quella fica pelosa d’altri tempi, dovessimo dire chissà che, invece di rimanere in silenzio o in voluttuosa contemplazione. Non so come dire, ma il commento al Cinque maggio manzoniano o la parafrasi de L’infinito di Leopardi si muovono ancora nel campo dell’adaequatio rei et intellectus. Lo spiegone sul significato delle quattro celebri note all’inizio della Quinta di Beethoven, invece, appartiene alla categoria delle cose vana et futilia o, per così dire, a quella delle chiacchiere da bar. Fintanto che la parola commenta sé stessa, rende un servizio all’umanità. L’esegesi di un testo antico, il commento rabbinico alla Scrittura, la recensione di un romanzo e finanche la postilla giornalistica a un articolo uscito qualche giorno prima rendono il loro apostolato. Ma quando la parola prende il sopravvento e sgomita in ambiti che non le competono o in cui è addirittura esclusa, non si può che subirne l’irritazione. Evaristo Baschenis, Accademia musicale, 1665 ca. In un saggio del 1838, con una sola frase, Robert Schumann dà un’idea della musica e dello stile di Chopin come chiunque dotato di senso della misura dovrebbe fare in questi casi:  > «Chopin – dice costui – ormai non può più scrivere nulla, che alla settima od > ottava battuta non debba farci esclamare: è suo!».  Anteponendo l’ammirazione agli inutili e superflui tentativi di analisi, alle congetture fasulle o addirittura alle chiacchiere, Schumann evita di parlare della musica di Chopin lasciando intendere che quella musica parla già da sé.  Un tempo la musica dovette sopportare l’affronto della notazione. In un attimo il suono si trasformò in segno e, come si è detto, in un grafismo isterico. Così, da un giorno all’altro, dall’orecchio la musica passò all’occhio. Il suo mondo di fluttuanti vibrazioni, alieno dalla scrittura e dalla parola, improvvisamente inciampò nella grossolana ovvietà della grafia. Una mole di ruvida carta stampata oggi sopravanza alla delicata vita dei suoni.  Senza tener conto che ogni parola è un fenomeno extramusicale, Mauricio Kagel si lascia andare a questa dichiarazione che mette i brividi per la sua poca lucidità:  > «L’errore del passato fu credere che la musica non avesse, in quanto arte > autonoma, bisogno di un commento esemplificativo, un’illusione che non > corrispondeva ai fatti. Entrambe, sia l’arte che la musica, non possono fare a > meno della parola per coinvolgere in un costante processo educativo quanti > siano pronti ad accoglierle e percepirle».  > > (Sulla consapevolezza e i compiti dell’artista, 1979) Qui siamo nell’ambito della pedagogia o in quella che, meno sprezzante del solito, Adorno chiamava «musica pedagogica». Si vuole che la musica diletti, che intrattenga e, quando non lo fa o non ci riesce, quando cioè il pubblico si annoia o, come spesso accade, “non capisce”, si ricorre alla parola «in un costante processo educativo». Educare è compito della scuola (quando ci riesce), delle parrocchie e, in extremis, di quelli che una volta si chiamavano Istituti di correzione e pena. All’arte sia lasciato il piacere di stupire, di meravigliare e infine di sabotare il mondo. Alla musica, invece, sia ridato ciò che le spetta: l’acustica delle cattedrali e il silenzio memorabile dell’ascolto. È vero, si è detto che la musica non ama le parole se non sono canto. Ma del resto, per il canto, non ci sono già gli usignoli? Vincenzo Liguori *In copertina: Hendrick ter Brugghen, Donna che suona il liuto, 1624 ca. L'articolo La musica non ama le parole, non ama le inutili ciance, il chiacchiericcio, il futile trastullo salottiero proviene da Pangea.
October 28, 2025 / Pangea
Dante, l’insuperabile. Ecco perché la poesia italiana è una parrocchia periferica zeppa di epigoni
Ci sono millanta poeti oggi che millantano la loro poesia: troppi, per permettersi il lusso di continuare a brucare la terra polverosa e non alzare il capo al Sommo Poeta, pronto a falcidiarci. Dante, l’insuperabile. Chi non accetta di scoprire la gola, chi nicchia e cerca di sgamarla, come lo studente che fa lo struzzo e abbassa gli occhi per non essere interrogato, non è poeta e non ama la poesia. Chi non accetta la morte non sarà mai immortale. Che poi il giochino viene facile: Dante è laggiù in fondo, nel mito, nel passato, in un mondo che non c’è più, pigolano i poetini. Oggi siam tanti e gli spazi di festa son pochi, stai fresco se dobbiamo confrontarci con i classici (ma stiamo pure all’altroieri: Montale Luzi Zanzotto Sanguineti Caproni e compagnia briscola). E qui scatta la mannaia di ogni avanguardia, neoavanguardia, postavanguardia, non-avanguardia-ma-ricerca et similia: fare tabula rasa. E potrebbe persino essere la volta buona, crollati tutti i punti di riferimento, per cui si salvi chi può. Chi attraversa la selva oscura della contemporaneità con cognizione di causa? Accidenti, mi sono tirata la zappa sui piedi: di poetini che danno la mano, e forse non solo quella, al loro presunto Virgilio d’oggidì ce ne sono fin troppi. Ma mica si prestano ad attraversare l’inferno: cercano subito l’ascensore per i piani alti, per gli open space con vista sui laghetti artificiali. Epperò gli editori pubblicano ciò che vendono, della poesia non si occupano davvero più, così gli specchi diventano specchietti per allodole, giusto per ricordarci del settore, dell’angolino in basso in fondo alle librerie, quello spazietto da riempire tra i classici latini e il teatro. Del resto si diventa editori per fare affari, e le scadenze sempre più immediate impediscono di imbastire piani non si dica nemmeno stalinianamente quinquennali, ma berlusconianamente trimestrali (cento giorni, via). Figurarsi se i manager della carta stampata pensano al capitale simbolico da accumulare nel corso dei decenni, al prestigio, alla rendita quando un autore finirà nei manuali scolastici. I quali, poi, o restano cautamente fermi alla compagnia briscola di cui sopra o tentano sortite con logiche sempre più vaghe, confondendo le idee ai già confusi. Che dite? Il compito di riconoscere i valori in campo spetterebbe ai critici? No, per carità, smettetela di credere a babbo Natale. I critici non esistono più. Oppure esistono in queste sottocategorie inutili e perniciose:  a) i critici militanti, i partigiani di una particolare idea di poesia, che poi resta vaga perché va bene sia la prosa sia il sonetto, sia il testo iper-retorico sia quello tendente al grado zero dello stile, sia l’approccio pop sia l’impegno civile, qualsiasi cosa insomma purché si faccia parte di quella nuvola di scrittori-insetti che continuano a ronzare intorno al capo del capo. L’importante è che la poesia non sia sincera esposizione delle proprie entraglie. E ci mancherebbe; b) critici del post. No, non è questione di post-poesia, non ancora. E nemmeno di post sui social, anzi. E non parlo nemmeno dei post-critici (in merito leggetevi la Postcritica di Mariano Croce: vi farà bene). I critici del post sono quelli che vivono della morte stessa della critica, ma continuano ad abitarne le spoglie. Sono i critici postumi, quelli che fanno salotto attorno al ring dove i poeti se la danno di santa ragione, pronti a intervenire solo dopo, per premiare i vincitori. Sono quelli che ripetono ciò che si sa già (tipo: Montale è il maggior poeta del Novecento – verità che tra l’altro sarebbe ora di ridiscutere, ma questo un’altra volta), che non si occupano dei contemporanei perché non è in caso di compromettersi e di rendersi responsabili, maieuticamente, di ciò che di buono potrebbe anche venir fuori. Prima si faccia il canone (con quali criteri: l’amichettismo e i giochi di potere? Io se ci sono non guardo non vedo non sento non parlo, gesticola il suddetto), poi il critico del post arriverà a incoronare il poeta e qualunque poesia proponga (tali critici non hanno gusti difficili, anzi, non hanno gusti punto);  c) i critici accademici che, se animati dalle migliori intenzioni contro “la cultura in scatola” (leggetevi adesso lo splendido Universitaly di Federico Bertoni), restano comunque schiacciati dalla pila di libri che si accumula sulle loro scrivanie e alla fine vanno un po’ a caso, pescando una volta a destra e una volta a sinistra, una volta in alto e una volta in basso; se invece ferocemente addestrati alle logiche del loro mondo, evitano la menoma contaminazione col presente e preferiscono dedicarsi alla raccolta delle lettere dell’ultimo riesumato futurista di turno, tanto loro sono accademici quindi patentati e schifiltosi di qualsiasi immersione nella Palus Putredinis oggidiana, in cui, francamente, non saprebbero affatto destreggiarsi: forse meglio così, giacché farebbero soltanto danni maggiori;  d) i critici para accademici, che sono indubbiamente accademici e quindi guai a presentarli con il titolo sbagliato, ma sono anche scrittori e intellettuali ruspanti, scattanti di fronte a ogni possibile comparsata in tivvù, scattosi nei social dove danno vita ai loro avatar, con cui non vanno confusi (studiosi del dadaismo che si travestono e ballano il dadaumpa su TikTok), scazzati nei loro stessi corsi di scrittura creativa, giacché di tesine scritte con l’IA ne han già piene le balle o le ovaie, figurarsi di romanzi purtroppo scritti senza l’IA;  e) i critici massimalisti, che possono sentenziare su chiunque, da Dante compreso in giù, e affrontare qualsiasi argomento con la stessa reboante loquacità di Cacciari, tanto i testi li guardano sempre con il binocolo, mica impiccano lì le loro teorie, mica arrotano i versi come coltelli: qualunque autore è una brodaglia insulsa, se solo non si adegua completamente al loro imperscrutabile gusto. Trovatemene uno che sappia ridimensionare qualche poeta maggiore di oggi, non dietro l’anonimato di una giuria di premio condivisa con altri, ma con saggi acuti, con analisi testuali, necessari altresì per addestrare lettori competenti. Tabula rasa, allora, dicevamo, poiché editori e critici non fanno filtro. “E se ci pensassero i poeti stessi?” – filtra l’ultima bava di ottimismo da qualche irriducibile novecentista caduto nel secolo sbagliato. Prendere atto: quei pochi poeti che possono permetterselo, appunto perché arrivano fin qui con il prestigio dovuto alle ultime onde del millennio scorso, di essere padri o madri letterariamente non ci pensano nemmeno (e forse anche biologicamente arrancano: intervenga il sociologo a indagare). Loro esercitano con compiacimento il potere di scegliere, e scelgono con contezza di promuovere i mediocri, per meglio evidenziare la loro statura letteraria e il loro potere editoriale. Fosse per loro, applicherebbero la damnatio memoriae sistematicamente su chiunque rivendicasse diritto di eredità (mica soldi, neh, si parla sempre di poesia) per più antico lignaggio o per altra, irregolare, intrusione nella casata. Niente bastardi, insomma. (Vallo a spiegare ai tali che la damnatio memoriae, appena lasceranno la poltrona, toccherà a loro). Ah, il malseme di Dante. Sommo poeta, pensaci tu. * Ma che significherebbe, oggi, tornare a volgere lo sguardo a Dante? Puro atto di masochismo, verrebbe da sentenziare, poiché Dante è insuperabile per ovvie ragioni: egli è la massima espressione di un mondo che non c’è più, capace di portare a sintesi un’intera cultura. Dopo di lui, con impressionante rapidità (già Petrarca è moderno) la sintesi si disgrega e passo dopo passo lirica, economia, politica, scienza, medicina, filosofia e via elencando vanno specificandosi iuxta propria principia, lungo una serie di rivoluzioni che hanno portato dritti all’irreversibile agonia del tedio contemporaneo. Copernico, Darwin e Freud sono i picconatori dell’antropologia occidentale, a cui aggiungere volendo gli altri filosofi del sospetto per apparecchiarci alle catastrofi novecentesche. Come non bastasse, appena riemersi dalle apocalissi storiche e ideologiche, ecco l’avvento del digitale e l’intelligenza artificiale adesso a consegnarci a una condizione che taluni già definiscono postumana. Come guardare ancora a Dante, su quali fronti la sua grandezza ci interpella? Tre questioni su tutte porrei come cartelli sulla strada di chi vorrebbe, da poeta, tentare almeno di uscire dal labirinto della buona, patinata, mediocre letteratura che inebetisce, e imbruttisce, l’epoca: l’ampiezza di registro espressivo, il poema e l’esilio.  Qui, soffermiamoci sulla prima. * Varrà la pena ricordare ai versificatori meno avvezzi alla letteratura italiana che Dante Alighieri non è il modello vincente della nostra tradizione. Ben presto abbiamo tradito sì gran padre (anche se in tal caso il crimine non è solo il parricidio letterario di generazioni successive, considerato il trattamento riservatogli dai fratelli concittadini: del resto i luoghi comuni dell’intellettuale che non sarà mai profeta in patria e del poeta destinato solo a gloria postuma in qualche parte hanno radice). Ha vinto, semmai, Petrarca. Come spiegano quelli bravi, Petrarca ha azzerato Dante (già frastornato dall’improvviso revival del latino) e, con il beneplacito di quel curiale grammatico del Bembo, la lirica italiana ha trovato nell’autore del Rerum vulgarium fragmenta (volgarmente, il Canzoniere) la matrice del proprio vocabolario. La ragione è elementare: costruire un dizionario della lingua italiana sul repertorio vastissimo della Divina commedia (capace di aprirsi e abbracciare tutti e tre gli stili: l’umile, il medio e il sublime) era impraticabile. La soluzione ottimale, invece, era già pronta all’uso: la lingua vaga, elegante, sufficientemente generica e allusiva, ma soprattutto circoscritta, del Canzoniere. Perfetta per imbalsamare l’italiano (scritto) per secoli, fino almeno a Leopardi, a sua volta capace del prodigio, giunti ormai al secolo decimonono, di rispolverarlo e farlo suonare persino sorgivo. Roba da necrofili prestidigitatori. Che poi, certo, in quello stesso secolo Dante torni prepotentemente in auge in virtù degli umori romantici e risorgimentali è vero, ma abbiamo dovuto re-inoculare la lingua sperimentale di Dante recuperandola dalla finestra, via Eliot (senza dimenticare, tuttavia, l’edizione critica delle Rime dovuta al giovane e talentuoso Contini: ma qui si è nutrita ancora primariamente la vena lirica, attraverso lo stilnovismo mutante assorbito da Montale. Del resto la Commedia in quei decenni veniva tagliuzzata da Croce intento a separare l’oro della poesia dall’ottone della struttura, manco fosse lui il miglior fabbro del parlar materno).  Dante paradisiaco secondo Moebius Fatto sta che i conti con Dante si sono riaperti in fondo soltanto di recente. Ma a giudicare dalla medietà patinata (aurea mediocritas?) e dal lirismo di cui è ancora impregnato quanto meno il sottofondo comune del diffuso poetare nel Belpaese, rinomata terra popolata di poeti a ogni latitudine, l’apertura alare del Sommo all’interno della lingua materna ci relega al ruolo di pulcini in ombra.  Oh, certo, di sperimentatori e di avanguardie si fa ricco il Novecento, ma l’impressione è che vengano alla fine sempre spinti ai margini del canone, mentre risultano vincenti ancora gli autori riconoscibili e brandizzabili, dallo stile complessivamente monocorde, costante dall’inizio alla fine, che procede al più per piccoli, equilibrati adattamenti. Facile, troppo facile motivare questa tendenza, qualora fosse verificata (o storicamente, anche per pigrizia, avallata): l’identità di un poeta si costruisce attorno all’autenticità di una voce e per mezzo dell’abbandono di ogni orpello retorico, di ogni posa, di ogni “canto” oggi insostenibile. Siamo nell’epoca del tono basso, dell’assenza di pubblico, del poeta che si rivolge a un tu (in cui spesso si rispecchia sé stesso). Siamo nell’epoca del relativismo, del pensiero debole, del male di vivere. E siamo perciò rassegnati ai mugugni, pronti semmai a puntellare le nostre rovine. Di costruire altre cattedrali non se ne parla nemmeno. Diverrebbero in breve tempo chiese sconsacrate da riempire di libri insulsi, non più in grado di consolare la carne triste dell’umanità inebetita sui display.  Siamo nell’infinita fine occidentale. Se mai passasse di qui un nuovo poeta visionario, lo spediremmo subito all’esilio, spernacchiandolo a dovere. Dante, più che insuperabile, è irraggiungibile. Lo si innalza, per imbalsamarne il busto e rimuoverlo nella sua aura di perfezione. Italia, terra non solo di poeti, ma anche di santi, ricordi che cosa scriveva Joseph Roth nella Cripta dei cappuccini? > “La Chiesa romana […] in questo marcio mondo è l’unica ormai in grado di dare, > di conservare una forma. Anzi, si può dire, di dispensare una forma. In quanto > racchiude nella dogmatica, come in un palazzo di ghiaccio, l’elemento > tradizionale delle cosiddette ‘antiche usanze’, procura e concede ai suoi > figli tutt’intorno, fuori di questo palazzo di ghiaccio che ha un ampio e > spazioso vestibolo, la libertà di coltivare l’indolenza, di perdonare > l’illecito, e anzi di commetterlo. Mentre statuisce i peccati, già li perdona. > Non ammette assolutamente uomini perfetti: questo è il suo contenuto > eminentemente umano. I suoi figli perfetti essa li santifica. Con questo > ammette implicitamente l’imperfezione umana. Anzi, ammette l’inclinazione al > peccato nella misura in cui non considera più come umani quegli esseri che al > peccato non sono soggetti: questi diventano beati o santi. Con ciò la Chiesa > romana dà testimonianza della sua fondamentale propensione al perdono, alla > remissione. […]”. Ridotta a parrocchia periferica zeppa di epigoni, la poesia italiana innalza Dante e concede plenaria indulgenza a sé stessa. Così, tra nani svetta chi ha la sigla editoriale più spessa, e per ciò stesso si potrà legittimamente autoinserire nelle antologie, mentre rigira per l’ennesima volta la frittata dei propri versicoli strascicati. Ahi, serva Italia. Andrea Temporelli *In copertina: William Blake, The Circle of Corrupt Officials: The Devils Tormenting Ciampolo, 1825 ca. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Dante, l’insuperabile. Ecco perché la poesia italiana è una parrocchia periferica zeppa di epigoni proviene da Pangea.
October 20, 2025 / Pangea
La letteratura ai tempi dei robot. Su libri, intelligenze artificiali e editor
C’è un racconto di Roald Dahl – Lo Scrittore Automatico, contenuto in Il libraio che imbrogliò l’Inghilterra (Guanda Editore, traduzione di Massimo Bocchiola) – in cui un aspirante scrittore inventa una macchina che scrive racconti e romanzi in modo automatico. Deluso dai continui rifiuti degli editori, il protagonista decide di vendicarsi proponendo a tutti gli scrittori del mondo di smettere di scrivere prestando il loro nome alla sua macchina, che dunque scriverà al posto loro. I primi due autori a cui si rivolge, nei quali non è difficile riconoscere Hemingway e Faulkner, rifiutano l’offerta, ma poi qualcuno accetta e pian piano lo fanno tutti, perché economicamente è conveniente e anche il risultato finale è migliore, al punto che lo stesso autore del racconto – Roald Dahl – scrive:  > “In questo preciso momento, mentre sto qui seduto ad ascoltare il rantolo dei > miei nove figli nella stanza attigua, sento la mia mano strisciare sempre più > vicino a quel contratto dorato che mi aspetta all’altra estremità della > scrivania…”  Giorgio Manganelli diede una volta una definizione perfetta di Roald Dahl: per lui Dahl era un malvagio. La malefica idea di un mondo letterario che rinuncia alla sacralità dell’espressione artistica affidando la scrittura a una macchina non poteva che uscire dalla sua penna. E oggi il racconto è ancora più attuale, in tempi di intelligenza artificiale e di editing tirannici. Naturalmente è anche un’idea di difficile o impossibile realizzazione, visto che ogni autentico scrittore ha o dovrebbe avere un proprio stile e dunque la macchina immaginata da Dahl dovrebbe non soltanto scrivere racconti e romanzi da sé ma anche saper pasticciare o imitare gli scrittori ai quali intende sostituirsi. Cosa che tuttavia l’intelligenza artificiale sembra essere capace di fare; se chiediamo a ChatGPT di scrivere un paragrafo alla maniera di Hemingway o di Faulkner nel giro di un battito di ciglia ce ne propone uno. Poco importa se da un punto di vista letterario il risultato è indigesto: l’AI spaccia dei pessimi falsi con grande sicurezza di sé. Forse la tracotanza fa parte del suo fascino. Ma non voglio scrivere di intelligenza artificiale; non sono abbastanza preparato al riguardo, né intendo prepararmi. Passo quindi a un altro spunto che in qualche modo indirizzerà questo mio articolo vagabondo. È tratto da un romanzo di Jonathan Franzen, Libertà (Einaudi, 2011), nella traduzione di Silvia Pareschi, la quale ha per inciso dedicato un intero capitolo di un suo libro (Fra le righe, Laterza, 2024) proprio all’intelligenza artificiale.  La situazione è questa: Joey tira fuori un romanzo di Ian McEwan, Espiazione, e tenta di leggere, di “interessarsi alle descrizioni di stanze e giardini”, scrive Franzen e traduce Pareschi, però non ci riesce e pensa a un sms che gli hanno appena spedito. Si tratta di una piccola e divertente chiosa letteraria. Qualche anno dopo, interrogato al riguardo, Franzen rivelerà di essersi voluto vendicare di McEwan, il quale aveva detto che dopo la morte di John Updike Philip Roth era l’ultimo grande scrittore americano rimasto, ignorando completamente la generazione di Franzen.  Bene, credo che pensare a un personaggio di Franzen che ha difficoltà a leggere un romanzo di McEwan ci dia una buona indicazione di dove si stia indirizzando la letteratura contemporanea. Ciò ha a che fare anche con la deriva dell’intelligenza artificiale e – temo – persino con gli editor.  L’editoria odierna esige quasi sempre la massima leggibilità. Il pubblico deve essere padrone dei libri che legge, e poco importa se per ottenere tale risultato bisogna appiattire alcuni stili considerati “difficili” – è il caso del McEwan di Espiazione? – o magari passare la riscrittura delle opere attraverso una sorta di collettivismo editoriale che ha ben poco a vedere con l’espressione artistica e fin troppo con il mercato. Il lettore non deve faticare. Lo stile di chi scrive è quasi sempre un impaccio; deve essere invisibile o assente, altrimenti i personaggi di Franzen (che poi siamo noi stessi) pensano agli sms che hanno appena ricevuto e non a ciò che stanno leggendo. Lo scrittore contemporaneo deve innanzitutto saper intrattenere il lettore, servirlo, forse addirittura mettersi ai suoi piedi.  In un articolo del 1999 (ripreso in Meglio star zitti?, Mondadori, 2019) Giovanni Raboni riportava queste parole di Elena De Angeli, una consulente editoriale: “Se oggi, in Italia, capitasse sul mercato un autore come Carlo Emilio Gadda, non troverebbe un editore disposto a pubblicarlo.” Questo quasi trent’anni fa, e secondo Raboni l’unico rimedio era la creazione di un’editoria pubblica, finanziata dallo Stato. Un’operazione possibile? Auspicabile? O sarebbe una rovina? Possibile che la grande letteratura – o comunque un certo tipo di grande letteratura – non possa ormai che rivolgersi a un’editoria a perdere?  Il lettore non deve faticare, dicevo poc’anzi. Molti editor appiattiscono stili e rovinano opere con la stupida pretesa della leggibilità, sebbene i libri sui quali tanto si accaniscono continuino spesso a non vendersi, il che sarebbe divertente se non fosse purtroppo triste. D’altronde l’editoria (ma anche molti autori!) oggi non esiterebbe a ricorrere alla macchina immaginata da Roald Dahl pur di procacciarsi qualche lettore in più.  Venderemo dunque l’anima al Diavolo? Il Mercato riscriverà i nostri libri e si inchinerà al sacro Dio della scorrevolezza? In una lettera a John Hamilton Reynolds del 1818, tre anni prima di morire, Keats scriveva che non poteva fare a meno di considerare il pubblico un “Nemico” – le maiuscole sono sue –, di rivolgersi a lui con “Ostilità”. Forse dovremmo riflettere su queste parole.  Ma non ne verremo mai a capo. La prima regola di scrittura di Jonathan Franzen fa invece così: “The reader is a friend, not an adversary, not a spectator.” Il lettore è un amico, non un avversario, non uno spettatore. Chissà cosa ne direbbe Keats. Chissà cosa ne penserebbe Gadda. Quanto a me, da lettore, preferisco i difetti di una scrittura reale alla mancata perfezione di una scrittura artificiosa.  Edoardo Pisani L'articolo La letteratura ai tempi dei robot. Su libri, intelligenze artificiali e editor proviene da Pangea.
October 20, 2025 / Pangea
“Continuare a inseguire l’arcobaleno”. Carlo Bo e Giovanni Spadolini: appunti di cultura politica
Autorevole, serioso, taciturno. Per noi, poveri studenti, incontrarlo era un problema: “Saluto o non saluto”, il dilemma. Un cenno rapido del capo era la risposta a chi osava salutare. Questo il mio ricordo di Carlo Bo, il Rettore Magnifico che ha cambiato tra il 1947 e il 2001 le sorti di una città, Urbino, e della sua Università che ora debitamente porta il suo nome. Che sapevamo di lui? Che era un critico letterario di grande rilievo, un senatore a vita per meriti culturali e ben poco altro. Solo dopo la laurea la curiosità mi aveva spinto a leggere almeno Letteratura come vita.  Oggi il suo nome ritorna accostato a quello di Giovanni Spadolini grazie ad Anna T. Ossani. Una duplice straordinaria sorpresa: Anna T. Ossani legge gli scritti di Bo su Spadolini, prefandoli e annotandoli e aggiunge in appendice le lettere di Spadolini a Bo in un corposo volume pubblicato da Raffaelli editore Rimini come dodicesimo volume della Collana “Quaderni della Fondazione Bo” e intitolato Carlo Bo, Giovanni Spadolini “Uno storico che è uno scrittore”, a cura, appunto, di Anna T. Ossani. Il volume è già in libreria. Duplice sorpresa per il nome della curatrice, una dei docenti preferiti dei miei tempi universitari e perché i saggi si muovono tra letteratura, storia politica restituendoci un panorama storico-politico-letterario che va dagli anni ’60 alla morte di Spadolini nel ’94 (cinque i saggi di Bo pubblicati dopo la morte di Spadolini, compresi nel volume). Il saggio introduttivo, “Continuare a inseguire l’arcobaleno senza fermarsi” mi ha affascinato subito, sin dal titolo; gli avant-propos ai singoli testi di Bo danno la misura della competenza di chi scrive.  Oggi incontro Anna T. Ossani, la professoressa che mi ha insegnato ad amare il teatro e parlo con lei della recentissima pubblicazione. Sono stato uno studente impertinente e vorrei fare una impertinente prima domanda, posso?  “Sentiamo quanto è impertinente”. È vero che nella tua ricca biblioteca ci sono scaffali pieni di libri di storia e di politica, oltre che di letteratura, teatro, musica, ma tu sei un’italianista, ci hai insegnato a leggere i testi, ad amare il teatro. Come mai questa scelta che mi sembra quasi estravagante rispetto alla tua storia, alla tua carriera? “Estravagante proprio no. Sin dalla tesi di laurea dedicata a Giuseppe Mazzini, a come si coniugava nella sua opera il rapporto tra letteratura e politica, divenuto poi il mio primo libro, sin dal secondo, Mario Morasso, agli studi su Futurismo e Fascismo, Tommaso Monicelli, Francesco Meriano, la prima linea di ricerca è stata quella. Poi ragioni accademiche hanno fatto il resto”.  Insisto: perché proprio Spadolini e Bo, anzi Bo che legge Spadolini e attraverso le sue recensioni, i suoi elzeviri, le sue note sul politico toscano ci fa capire il rapporto di amicizia, di vera e propria sodalità nato tra loro in più di trent’anni di frequentazioni? “Amo le intersezioni: e qui le intersezioni non stavano solo tra un critico letterario che legge uno storico, tra un cattolico che legge un laico, ma nell’oggetto stesso della ricerca. Da subito sfogliando le lettere di Spadolini e leggendo i saggi di Bo, la connessione era evidente: Storia, Letteratura, Politica; culture intrecciate; passato e presente; la grande Firenze dell’umanesimo civile e la Firenzina di oggi; il destino dell’Italia e un’Italia e un’Europa che non sono state in grado di compiersi. Stupefacenti, attualissime e concordanti le posizioni di entrambi. Bo non è stato solo uno straordinario critico letterario, ma anche un commentatore libero, anzi un libero commentatore di ragioni di attualità. Bargellini lo aveva invitato a  scrivere per i giornali; e Bo negli anni Cinquanta non può non avere curiosità per quel giovanissimo storico che  già aveva terremotato  gli studi non solo con un approccio diverso alla materia storica (condotto attraverso documenti filologicamente probanti spiegati al lettore, panorami amplissimi e folgoranti ritratti, restituiti magari con pennellate rapide, ironia toscana, lingua smaltata), ma perché da cattolico leggeva con attenzione e condivisione le parole di un laico su Giolitti e i cattolici, L’opposizione cattolica, ad esempio, e capiva soprattutto di trovarsi di fronte ad un abilissimo comunicatore che spiazzava il lettore sin dai titoli dei suoi libri (penso al Papato socialista, alle Due Rome,Il Tevere più largo, eccetera). Un libro dal titolo Il Papato socialista non può non incuriosire, forse da subito spiazza. Non solo: la distanza tra un cattolico ligure taciturno, ombroso, che vive – diceva Spadolini – “ai confini e oltre i confini del dubbio”, e un laico dall’oratoria fluente che ostenta una quasi olimpica serenità è solo apparente. Li accomuna l’amore per la lettura che è per entrambi una continuo riconoscersi, un continuo esame di coscienza, la bibliofilia, l’onestà intellettuale, la cultura, l’attenzione al lettore sempre coinvolto, l’apertura all’Europa, a discipline diverse, a culture diverse, il rifiuto degli sgambetti, dei magheggi della politica, delle divisioni interne ai singoli partiti che continuavano (forse è meglio usare il presente) a rallentare un vero processo unitario del paese e l’invito continuo ad ascoltare la ragione e il dialogo tra le parti. Saranno allora i grandi fondi di Bo negli anni delle aspre polemiche sul divorzio a cementare la loro sodalità contro una “guerra di religione”, come Bo scriveva sul “Corriere della sera” diretto, tra il 1968 e il 1972, proprio da Spadolini. Spadolini e Bo hanno accompagnato il lavoro storico, il lavoro letterario, quello giornalistico e quello politico seguendo una precisa idea di Cultura che mancava e manca nel Palazzo; che è anche un modo nuovo di guardare gli avvenimenti, di cercarne le ragioni, non di fare chiasso attorno ai fatti. Ed è il primo grande merito del giornalista Spadolini e di Bo giornalista: testimoni lucidi e distaccati interpreti. Non solo: dai 26 testi che ho pubblicato e annotato emerge un comune destino che per entrambi ha origine a Firenze (l’uno perché vi è nato, l’altro perché vi ha studiato e letto a San Miniato, nel 1938, Letteratura come vita, involontario manifesto dell’Ermetismo), ma finirà per svolgersi altrove: a Bologna, a Milano, a Roma per Spadolini, a Urbino, Milano e Roma per Bo. Entrambi sono due scrittori, due costruttori”. Carlo Bo (1911-2001) Fermati un attimo: cosa significa quando dici due scrittori, due costruttori? “Non basta scrivere bene per essere scrittori. Spadolini non ha solo lucida consapevolezza del tempo in cui vive, ma un’ipotesi progettuale, una responsabilità etica e un messaggio da offrire al lettore. Insomma, si tratta di cultura, di politica culturale da leggersi sia sul piano intellettuale che su quello pratico, concreto. Ecco perché parlo di due costruttori. Non è stato, il loro, “Un vivere di carta”, ma l’unica possibilità di vivere durante il Fascismo. Sono stati ‘costruttori di ponti’, di relazioni, operatori culturali nel senso gobettiano del termine ma anche concretamente operativi: cosa è stata la Fondazione se non il voler riportare a Firenze una nuova cultura e anche tramite la Nuova Antologia darle nuova vita e slancio? Firenze riportata culturalmente a una nuova grandezza. Urbino rivoluzionata nelle sue strutture universitarie, nelle sue facoltà, nei suoi docenti. E per entrambi, da Roma, dal Senato un lungo inflessibile monito a dire basta alle partigianerie, alle miserie quotidiane, entrambi testimoni e interpreti di una nuova cultura anche politica”. Come hai insegnato, comincio dalle soglie del testo. Cosa significa il titolo del tuo intervento introduttivo: “Continuare a inseguire l’arcobaleno senza fermarsi”? “Una delle accuse mosse a Spadolini durante la lunga carriera politica è stata quella di essere sì un mediatore ma di non avere coraggio, di essere fragile. Accuse mosse prima e dopo la morte di Spadolini all’interno dell’agone politico ma anche fuori di esso. Ebbene: Bo respinge fortemente questa tesi e la frase di Calamandrei, amico del padre, grande uomo di cultura e grande politico, l’ha assunta come monito per tutta la vita. Avere un progetto di vita e cercare di portarlo sino alla sua conclusione senza fermarsi anche se l’arcobaleno non si raggiunge mai, se si sposta anche il tuo obiettivo e si accresce e si allarga nonostante le batoste. Per questo dico che Bo e Spadolini sono stati due costruttori: di ‘ponti’, per riprendere titolo della rivista di Calamandrei; ponti tra culture, tradizioni, momenti storici, posizioni politiche dissimili, ponti da costruire tra partiti, nazioni, culture nel segno di un’Europa che deve portare ancora a compimento il sogno del Manifesto di Ventotene, di un Mediterraneo che deve porsi come luogo di incontro e non di scontro tra civiltà. Consiglio vivamente ai politici di oggi di leggere certe pagine dei Bloc-Notes (anche sul Manifesto di Ventotene). Mauriac e oltre Mauriac, scrive Bo. Basterebbe pensare a Spadolini che ha istituito il Ministero per i Beni culturali, a che cosa ha fatto nella breve durata di questo incarico per capire cosa significa essere dei costruttori”.  Giovanni Spadolini (1925-1994) Cosa pensava Bo di Spadolini giornalista e cosa pensava Spadolini di Bo giornalista? “Bo distingue subito Spadolini dagli altri giornalisti quando ancora Spadolini era il direttore del Resto del Carlino per il suo essere un uomo di cultura: ciò lo distinguerà, secondo Bo, anche dagli uomini del Palazzo che ‘rodomonteggiano’ per inutili problemi, ‘tacciono’ per cose gravissime. Sono parole di Bo: gravi, pesanti. Ognuno le legga come vuole o come può. Grandissimo giornalista Spadolini per Bo, capace di cogliere l’essenza del problema, del fatto, in poche righe, di tenere il discorso e di far pensare. Quando Bo inizia a scrivere per il Corriere della sera e poi arriva la direzione Spadolini, la collaborazione tra i due si fa più stretta; la libertà del giornalista si accompagna alla sapienza del direttore consapevole di avere accanto non solo un grande critico, ma anche un grande commentatore di ragioni di attualità. Gli interventi di Bo sul “Corriere della sera” vanno in entrambe le direzioni”. Quale è il sotterraneo intento di questo libro? “Nessun intento sotterraneo. Volevo leggere pagine di Bo mai lette, volevo leggere un po’ di più di Spadolini che conoscevo in parte come politico, poco come storico. La sua scrittura ha un fascino che avvolge, nutre, ti costringe a pensare. E Bo, con la sua linea curva, con il suo procedimento ‘aggirante’, con i suoi giudizi non dati, con il suo bulino incide poco a poco e mette a nudo l’uomo segreto, lo scrittore segreto del Capanno di Pian dei giullari e lo storico straordinario, almeno per me, dei Bloc-Notes dove puoi capire perché ci troviamo, oggi, in questa dolorosa situazione culturale, prima ancora che politica. Una preveggenza che affascina e stupisce. Bo lo ha scoperto subito e ce lo ha restituito in tutta la sua grandezza come storico, come politico e soprattutto come uomo”. Alessandro Carli *In copertina: J.M.W. Turner, L’arcobaleno, 1817 L'articolo “Continuare a inseguire l’arcobaleno”. Carlo Bo e Giovanni Spadolini: appunti di cultura politica proviene da Pangea.
April 9, 2025 / Pangea
Diffidare dei poeti vivi
Dei poeti vivi diffido – sono a mio agio coi defunti. I poeti morti. Che ti spezzano il cuore. Come recita la canzone.  Atto disumano, umanizzare la poesia. Rivelare il volto del poeta. Se non è velare due volte. Se non l’ha in dote – il volto da poeta.  * Ho scritto a un poeta vivo. L’editoria lo vuole poeta morto – sostiene. Traduco, anni addietro, un drappello di suoi versi. Afferiscono – e fioriscono, feriscono – a una raccolta che ha l’avvenenza efferata di un salmo. Ne fantastico la pubblicazione. Il poeta vivo – paria in patria – mi scrive. E il suo fervore è umano, troppo umano – per me. Mi disorienta. Disarciona i pensieri. Il lirico si fa uomo. Il poeta è vivo – e m’inquieta.    * Ho conosciuto un poeta vivo. Dita, porporate, stringono un Rilke a mo’ di breviario. Poesia e preghiera. Poesia è preghiera. Asserisce – senza articolare verbo. Serrato nella muta liturgia dei gesti. Pare estraneo alla terra. Ma prossimo al deserto. Ho incrociato, dapprima, la sua poesia. Votata all’uomo, consacrata a Dio. Invisibile nel visibile. Il poeta scandaglia il mondo con iride sacro. Il poeta è un profeta – vivo.  * Ho parlato a un poeta vivo. Occhi da sioux dominano il volto increspato di versi – corpo d’albero, mani da capo dei lupi. Capelli inargentati – a ornare il cranio come penne d’aquila. Ebbro, l’estro – pare un Dylan Thomas etrusco – e caratura da divo del cinema, a slegarne la posa. Poesia, la sua, di parole-cannibali – inaccessibili, sfuggenti –, avviluppano letali, fetali, fatali. A divorare la poesia per la poesia. Poeta di capodogli e capitani, linee d’ombra e marinai, foglie d’erba e Frankenstein. Compone e traduce, rotea il verbo in un’ellisse – è un poeta-Ulisse. * Ho osservato dei poeti vivi. Nel loro vivere da poeti. Alle opere, di solito, antepongo le biografie. Stavolta, il canone si rivolta. Prima la poesia – dirompe educata. Poi il poeta. A volto scoperto – velato e ri-velato, al contempo, dalla parola. Il poeta è vivo, il suo verso vivido.  Ordinata torma di poeti urbani mi si staglia fra le ciglia, di vocazione corsara e cortese, composta ed opposta – eterogeneo, l’universo dei versi, traversi. Scorgo poeti di mondo, scevri dal mondano. Un motivo beat batte sul crinale nord dell’Urbe. Capitolino, il salotto-librario si fa giungla di lettere – capitola, il poeta per il poeta. Selezione naturale del verbo metropolitano.  Così reali, questi poeti vivi, da assurgere a una guglia metafisica. La tangibilità nel poeta pare massima nella sua assenza. L’autenticità degli individui mi spiazza – l’inautenticità della poesia mi conforta. Non c’è verità nella poesia. Per fortuna. Nella sua forma rarefatta, è artefatta. In questo esile consesso fungo da intruso, sono il refuso di questo ritrovo. Ad animarne le fila, scopro, è Edoardo Piazza – poeta di Esperidi e civette urbane –, a margine, illumina sul senso dell’incontro, questione di necessità, per dare ‘una casa alla poesia, un approdo concreto’. Ho sempre contemplato l’ala immateriale della poesia. Eppure – banale a dirsi – a dimorarvi dietro è l’uomo, e dietro l’uomo palpita un’urgenza d’identità, di patria. Una patria poetica. Questa dislocazione fisica del verso appare cosa ordinaria – non lo è. Ho l’impressione che salti davvero ogni schema. Che il poeta resti privo del suo guscio. Pare sdrucciolevole, il terreno ‘corporeo’ della poesia – scivolare nel buonismo, nell’empatia di foggia deteriore, è un attimo. Ma la poesia, in fondo, vive solo nella forma della poesia. È armata contro la basica spontaneità del mondo. In cui tutti scrivono poesie. Tutti si dicono poeti. Vivi.  * Un poeta vivo è morto. Apprendo, aprendo le notizie, giorni fa. È giovane – per sempre, adesso. Non lo conosco, ma lo conosco, ma non rammento. Il dispositivo social che dispone di me, si premura di ricordarmi i miei ricordi. Un libro nero, minuto, estraneo al ramo commerciale dell’editoria, è giunto fino ai suoi occhi di poeta. Un carteggio a senso unico, ossessivo, Cristina Campo verso Alejandra Pizarnik – l’abbiamo pubblicato tempo fa. Ha la delicatezza di scriverne, di scrivermi. Riporta, in calce, a mo’ di orazione, La Tigre assenza – riletta, è già presenza. Un poeta morto è vivo.  * Ascolto un poeta vivo. Mentre passeggio, flâneur fra i dedali di Roma – città-lupa che pasce il dolore di tutti. Canta i poeti vivi e i poeti morti. In dote, ha il volto da poeta – caratura da cantautore, tono da angelo inquieto, voce di quarzo. Ne usucapisco la leggerezza tenace dei versi, l’umorismo arrotato della romanità.  > I poeti morti ti spezzano il cuore > I poeti morti non tagliano il pane  > Non portano il cane, non hanno tatuaggi > I poeti vivi hanno gli aggettivi > Per gratificare i nuovi primitivi * Dei poeti vivi diffido – ai poeti vivi mi affido.  Fabrizia Sabbatini *Il 16 marzo alle ore 16.30, a Roma, presso il Caffè letterario Horafelix, si terrà l’incontro “Poesia corsara”, con la partecipazione di Pangea (per info: horafelixroma@gmail.com)  *In copertina e nel testo: fotografie di mani di Alfred Stieglitz L'articolo Diffidare dei poeti vivi proviene da Pangea.
March 12, 2025 / Pangea