Una maestria che non sempre si dimostra nelle vie maestre.
A chi, d’altronde, piace seguire i conseguiti sentieri, senza dare in oltraggio,
senza percorrere il fuorivia, l’impercorribile?
Così è della canea del ‘canone’: una volta collocati i titani, i
poeti-colonnato, i poeti al comando, il nostro Himalaya, si può scollinare
altrove. I poeti-torcia sono sempre con noi, è ovvio – Dante, Petrarca, Tasso,
Leopardi, Manzoni, Foscolo, Pascoli etc etc –; a volte occorre bivaccare con gli
oscuri. A volte – questo è Leopardi nel Parini – le imperfezioni di Lucano, un
poeta-Bacon, un poeta-Quentin Tarantino, sono preferibili alla lingua perfetta e
ben tornita di Virgilio; a volte – a volte, in voluttà d’ingegno – sfogliamo
Omero, Cicerone, Petrarca e ci capita di “non sentirmi muovere da quella lettura
in alcun modo”.
È quello il momento di andare nei fuorivia, tra i fuorilegge del linguaggio.
Da cosa dipende questo stare ai margini del canone, appena sussurrati, appena
sputacchiati, già erosi dall’oblio? Intanto, l’opera. A tratti involuta,
parziale, senza la parsimonia di darsi ai posteri, a tratti monotona (esistono
poeti-centometristi che riescono benissimo in una manciata di poesie; la lunga
distanza li strema). Poi, la fortuna. Incapacità di stare ai patti del tempo,
solitudine, infimo potere, azione in luoghi alieni alle grandi corti e alle
grandi città – che vuol dire: macinare un italiano assai poco illustre, che non
dà lustro, che giova in epigoni ed eredi –; una sorta di carattere barbarico e
lunare, a zanne piene. Poi, il caso: le astuzie della vita, i princìpi del
potere (principati, stati, nazioni hanno bisogno, tutti, del poeta vessillo,
pronto da sguainare per una paludata idea di ‘unità’ patria). Inoltre, il sesso.
Se sei femmina è raro insidiare il canone. C’è poi l’avversità – quando non:
l’avversione – a stare nei dogmi del sistema cultuale-culturale del proprio
tempo. C’è chi scrive per passatempo, chi per rabbia, chi lottando contro il
resto del mondo – chi restando nell’aureo andito dell’io, senza conforto di
confronto, latitante, ai lati.
Affascinante è il caso, ad esempio, di Barbara Torelli. Nobildonna emiliana, fu
data a Ercole Bentivoglio, condottiero bolognese già al servizio dei Medici, poi
di papa Giulio II, amico di Machiavelli, abile nel massacro e nel sopruso.
Quando morì, Barbara poté unirsi a Ercole Strozzi, letterato ferrarese, già
confidente di Lucrezia Borgia: i disegni dell’epoca lo mostrano superbo in
volto, con lunghi scarmigliati capelli, apollineo. Tre mezze lune su fondo rosso
costituivano il suo stemma nobiliare. Glielo uccisero nel giugno del 1508, in
assalto notturno, vili, in Ferrara; Barbara, rovinata dal dolore, compilò
l’unico sonetto che gli è ascritto, questo:
> Spenta è d’Amor la face, il dardo è rotto,
> e l’arco e la faretra e ogni sua possa,
> poi che ha Morte crudel la pianta scossa,
> a la cui ombra cheta io dormia sotto.
> Deh, perché non poss’io la breve fossa
> seco entrar, dove l’ha il destin condotto,
> colui che appena cinque giorni e otto
> Amor legò pria de la gran percossa?
> Vorrei col foco mio quel freddo ghiaccio
> intepidire, e rimpastar col pianto
> la polve, e ravvivarla a nuova vita:
> e vorrei poscia, baldanzosa e ardita,
> mostrarlo a lui, che ruppe il caro laccio,
> e dirgli: Amor, mostro crudel, può tanto.
Sopravvisse alle figlie – Costanza e Ginevra – avute dal Bentivoglio, Barbara
Torelli: optò per la vita nascosta; di lei è ignota data di morte, ignoto il
luogo del sepolcro. Si può far parte della storia della letteratura con un testo
appena? Un tempo, il sonetto della Torelli era inciso nei diari delle belle,
cucito sulle loro vesti come un orizzonte del destino, come uno sfrecciare.
Vissuto pressappoco negli stessi anni di Barbara Torelli, per lo più negli
stessi luoghi, tra Modena e il cesenate, Panfilo Sasso (1455 ca. – 1527) è poeta
di inquieta potenza. Amico di Ariosto, abitò tra l’altro a Verona, scrisse
molto: la prima edizione dei Sonetti e capituli del clarissimo poeta miser
Pamphilo Sasso modenese, uscita nel 1500, conta quasi seicento testi, di cui
quattrocento sonetti. Teologo, alchimista, amava Dante: il vicario provinciale
dei Domenicani, fra’ Tommaso da Vicenza, lo accusò di eresia, scoccava il 1523.
Alcuni concittadini lo avevano denunciato al Sant’Uffizio con queste accuse:
“Nega l’esistenza del Paradiso, del Purgatorio e dell’Inferno… nega che l’anima
sia immortale… in un sonetto nega l’infallibilità della divina scienza e il
libero arbitrio”. Sasso avrebbe dovuto abiurare le proprie convinzioni durante
un’orazione pubblica: il giorno stabilito, si finse malato. Grazie ad alcune
amicizie nella curia, riuscì a scampare dalle grinfie dell’inquisitore: fu
nominato governatore del piccolo borgo di Longiano, in Romagna. Insomma, lo
confinarono. Poeta sapiente nel sondare le sconfinate ombre del cuore, in Sasso
“è spesso presente la ricerca di un linguaggio poetico originale e di notevole
complessità… è evidente la presenza di estese aree aperte a una libera e
rischiosa inventività verbale e metaforica, che si sarebbe tentati di definire
un portato residuo (ma spesso né vacuo né provinciale) della maggiore creatività
dantesca” (così Massimo Malinverni). Tra i suoi testi, ci piace questo in cui il
poeta dà il senso del proprio orgoglio, indossa il cilicio come una stola da re
ed è dal pianto monsonico mutato in fenice, il mitico uccello del fuoco:
> Sono eremita de la vita austera:
> bevo acqua de canal, mangio radice,
> abito una spelonca como fera,
> porto el cilicio e dormo a la pendice:
> i’ piango dal mattin fin a la sera
> e sol sto come passere fenice.
> Non che per questo al ciel scender mi spera;
> ma per ch’amor mi fa tanto infelice.
Altra fortuna hanno avuto le rime di Galeazzo di Tarsia (1520 ca. – 1553),
idolatrate da Giambattista Basile, che le riunì in un’edizione complessiva,
uscita nel 1617. Per arditezza di stile e genia antipetrarchesca, per la vita
disordinata, da alfiere del caos, Galeazzo fu l’idolo dei poeti barocchi, un
Marino in miniatura. Nessun mero manierismo, però, nessuna ‘grottesca’ in versi
inquinano la sua opera, livida per virtù d’ingegno: “sotto il virtuosismo noi
sentiamo presente un serio disdegno del consueto, un’appassionata aspirazione al
raro delle analogie che trascorrono fino all’assurdo, a raggiungere una verità
intima che importava al Tarsia più della letteratura” (Carlo Muscetta). Poesia,
dunque, non più a decoro di corte, ma a dilaniare il proprio cuore, stigma di
vivere da assolutisti dell’io.
Fu barone di Belmonte Calabro, improntando la propria azione al candore della
crudeltà. Tiranneggiò i sudditi, disobbedì ai superiori; la morte della moglie,
Camilla Carafa, ne esacerbò le oscurità. Confinato a Lipari – condannato alla
perdita del feudo, fu poi graziato dal viceré di Napoli Pedro Álvarez de Toledo
–, si impegnò militarmente contro Siena, per conto del viceré. Fu ucciso in
circostanze non chiare a poco più di trent’anni; sulla sua vita alligna alloro
d’ambiguità. Scrisse poco – una cinquantina di testi – per sovreccitazione. Amò
Vittoria Colonna, dedicandole un bestiario in versi; ma l’alta dama fu chiusa
alle attenzioni di un simile barbarico amante.
> Io benedico il dì che il cor m’apriste,
> man bianche e molli; e te veloce e presta
> a legarmoli poi, cresp’aurea testa;
> occhi, e più voi che di bel foco empiste
> quest’occhi miei, ond’a far poi veniste
> che del pianto la torbida tempesta
> i vaghi fiori e verd’erbe di questa
> falda di monte rese umidi e triste:
> poiché il primo desir che di voi m’ebbe,
> vestito alfin d’un amoroso lume,
> ripiglia qualità più bella e pura,
> forse come animal, che a viver ebbe
> alcun tempo col manto altra natura,
> entrò già verme ed or veste le piume.
*In copertina e nel testo: schizzi di Giovanni Francesco Barbieri detto “Il
Guercino” (1591-1666)
L'articolo “E rimpastar col pianto la polve, e ravvivarla a nuova vita”. Per un
canone avverso della poesia italiana proviene da Pangea.