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“E rimpastar col pianto la polve, e ravvivarla a nuova vita”. Per un canone avverso della poesia italiana
Una maestria che non sempre si dimostra nelle vie maestre.  A chi, d’altronde, piace seguire i conseguiti sentieri, senza dare in oltraggio, senza percorrere il fuorivia, l’impercorribile? Così è della canea del ‘canone’: una volta collocati i titani, i poeti-colonnato, i poeti al comando, il nostro Himalaya, si può scollinare altrove. I poeti-torcia sono sempre con noi, è ovvio – Dante, Petrarca, Tasso, Leopardi, Manzoni, Foscolo, Pascoli etc etc –; a volte occorre bivaccare con gli oscuri. A volte – questo è Leopardi nel Parini – le imperfezioni di Lucano, un poeta-Bacon, un poeta-Quentin Tarantino, sono preferibili alla lingua perfetta e ben tornita di Virgilio; a volte – a volte, in voluttà d’ingegno – sfogliamo Omero, Cicerone, Petrarca e ci capita di “non sentirmi muovere da quella lettura in alcun modo”.  È quello il momento di andare nei fuorivia, tra i fuorilegge del linguaggio.  Da cosa dipende questo stare ai margini del canone, appena sussurrati, appena sputacchiati, già erosi dall’oblio? Intanto, l’opera. A tratti involuta, parziale, senza la parsimonia di darsi ai posteri, a tratti monotona (esistono poeti-centometristi che riescono benissimo in una manciata di poesie; la lunga distanza li strema). Poi, la fortuna. Incapacità di stare ai patti del tempo, solitudine, infimo potere, azione in luoghi alieni alle grandi corti e alle grandi città – che vuol dire: macinare un italiano assai poco illustre, che non dà lustro, che giova in epigoni ed eredi –; una sorta di carattere barbarico e lunare, a zanne piene. Poi, il caso: le astuzie della vita, i princìpi del potere (principati, stati, nazioni hanno bisogno, tutti, del poeta vessillo, pronto da sguainare per una paludata idea di ‘unità’ patria). Inoltre, il sesso. Se sei femmina è raro insidiare il canone. C’è poi l’avversità – quando non: l’avversione – a stare nei dogmi del sistema cultuale-culturale del proprio tempo. C’è chi scrive per passatempo, chi per rabbia, chi lottando contro il resto del mondo – chi restando nell’aureo andito dell’io, senza conforto di confronto, latitante, ai lati.  Affascinante è il caso, ad esempio, di Barbara Torelli. Nobildonna emiliana, fu data a Ercole Bentivoglio, condottiero bolognese già al servizio dei Medici, poi di papa Giulio II, amico di Machiavelli, abile nel massacro e nel sopruso. Quando morì, Barbara poté unirsi a Ercole Strozzi, letterato ferrarese, già confidente di Lucrezia Borgia: i disegni dell’epoca lo mostrano superbo in volto, con lunghi scarmigliati capelli, apollineo. Tre mezze lune su fondo rosso costituivano il suo stemma nobiliare. Glielo uccisero nel giugno del 1508, in assalto notturno, vili, in Ferrara; Barbara, rovinata dal dolore, compilò l’unico sonetto che gli è ascritto, questo: > Spenta è d’Amor la face, il dardo è rotto, > e l’arco e la faretra e ogni sua possa, > poi che ha Morte crudel la pianta scossa, > a la cui ombra cheta io dormia sotto. > Deh, perché non poss’io la breve fossa > seco entrar, dove l’ha il destin condotto, > colui che appena cinque giorni e otto > Amor legò pria de la gran percossa? > Vorrei col foco mio quel freddo ghiaccio > intepidire, e rimpastar col pianto > la polve, e ravvivarla a nuova vita: > e vorrei poscia, baldanzosa e ardita, > mostrarlo a lui, che ruppe il caro laccio, > e dirgli: Amor, mostro crudel, può tanto. Sopravvisse alle figlie – Costanza e Ginevra – avute dal Bentivoglio, Barbara Torelli: optò per la vita nascosta; di lei è ignota data di morte, ignoto il luogo del sepolcro. Si può far parte della storia della letteratura con un testo appena? Un tempo, il sonetto della Torelli era inciso nei diari delle belle, cucito sulle loro vesti come un orizzonte del destino, come uno sfrecciare.  Vissuto pressappoco negli stessi anni di Barbara Torelli, per lo più negli stessi luoghi, tra Modena e il cesenate, Panfilo Sasso (1455 ca. – 1527) è poeta di inquieta potenza. Amico di Ariosto, abitò tra l’altro a Verona, scrisse molto: la prima edizione dei Sonetti e capituli del clarissimo poeta miser Pamphilo Sasso modenese, uscita nel 1500, conta quasi seicento testi, di cui quattrocento sonetti. Teologo, alchimista, amava Dante: il vicario provinciale dei Domenicani, fra’ Tommaso da Vicenza, lo accusò di eresia, scoccava il 1523. Alcuni concittadini lo avevano denunciato al Sant’Uffizio con queste accuse: “Nega l’esistenza del Paradiso, del Purgatorio e dell’Inferno… nega che l’anima sia immortale… in un sonetto nega l’infallibilità della divina scienza e il libero arbitrio”. Sasso avrebbe dovuto abiurare le proprie convinzioni durante un’orazione pubblica: il giorno stabilito, si finse malato. Grazie ad alcune amicizie nella curia, riuscì a scampare dalle grinfie dell’inquisitore: fu nominato governatore del piccolo borgo di Longiano, in Romagna. Insomma, lo confinarono. Poeta sapiente nel sondare le sconfinate ombre del cuore, in Sasso “è spesso presente la ricerca di un linguaggio poetico originale e di notevole complessità… è evidente la presenza di estese aree aperte a una libera e rischiosa inventività verbale e metaforica, che si sarebbe tentati di definire un portato residuo (ma spesso né vacuo né provinciale) della maggiore creatività dantesca” (così Massimo Malinverni). Tra i suoi testi, ci piace questo in cui il poeta dà il senso del proprio orgoglio, indossa il cilicio come una stola da re ed è dal pianto monsonico mutato in fenice, il mitico uccello del fuoco: > Sono eremita de la vita austera: > bevo acqua de canal, mangio radice, > abito una spelonca como fera, > porto el cilicio e dormo a la pendice: > i’ piango dal mattin fin a la sera > e sol sto come passere fenice. > Non che per questo al ciel scender mi spera; > ma per ch’amor mi fa tanto infelice. Altra fortuna hanno avuto le rime di Galeazzo di Tarsia (1520 ca. – 1553), idolatrate da Giambattista Basile, che le riunì in un’edizione complessiva, uscita nel 1617. Per arditezza di stile e genia antipetrarchesca, per la vita disordinata, da alfiere del caos, Galeazzo fu l’idolo dei poeti barocchi, un Marino in miniatura. Nessun mero manierismo, però, nessuna ‘grottesca’ in versi inquinano la sua opera, livida per virtù d’ingegno: “sotto il virtuosismo noi sentiamo presente un serio disdegno del consueto, un’appassionata aspirazione al raro delle analogie che trascorrono fino all’assurdo, a raggiungere una verità intima che importava al Tarsia più della letteratura” (Carlo Muscetta). Poesia, dunque, non più a decoro di corte, ma a dilaniare il proprio cuore, stigma di vivere da assolutisti dell’io. Fu barone di Belmonte Calabro, improntando la propria azione al candore della crudeltà. Tiranneggiò i sudditi, disobbedì ai superiori; la morte della moglie, Camilla Carafa, ne esacerbò le oscurità. Confinato a Lipari – condannato alla perdita del feudo, fu poi graziato dal viceré di Napoli Pedro Álvarez de Toledo –, si impegnò militarmente contro Siena, per conto del viceré. Fu ucciso in circostanze non chiare a poco più di trent’anni; sulla sua vita alligna alloro d’ambiguità. Scrisse poco – una cinquantina di testi – per sovreccitazione. Amò Vittoria Colonna, dedicandole un bestiario in versi; ma l’alta dama fu chiusa alle attenzioni di un simile barbarico amante.  > Io benedico il dì che il cor m’apriste, > man bianche e molli; e te veloce e presta > a legarmoli poi, cresp’aurea testa; > occhi, e più voi che di bel foco empiste > quest’occhi miei, ond’a far poi veniste > che del pianto la torbida tempesta > i vaghi fiori e verd’erbe di questa > falda di monte rese umidi e triste: > poiché il primo desir che di voi m’ebbe, > vestito alfin d’un amoroso lume, > ripiglia qualità più bella e pura, > forse come animal, che a viver ebbe > alcun tempo col manto altra natura, > entrò già verme ed or veste le piume. *In copertina e nel testo: schizzi di Giovanni Francesco Barbieri detto “Il Guercino” (1591-1666) L'articolo “E rimpastar col pianto la polve, e ravvivarla a nuova vita”. Per un canone avverso della poesia italiana proviene da Pangea.
October 21, 2025 / Pangea
“Di Gian Giacomo Menon non sappiamo quasi nulla. Sappiamo solo che è poeta, un vero poeta”
Qualche decennio fa, introducendo la raccolta di Tutte le poesie di Carlo Betocchi, Luigi Baldacci accennò a un “anti-Novecento che, per troppo tempo, una storiografia di comodo ha cercato di mettere tra parentesi”. Citava, l’augusto critico, a mo’ di presunto repertorio, senza troppe spiegazioni, Palazzeschi e Govoni, Umberto Saba, Diego Valeri, Sandro Penna; disse di Betocchi, disse “del secondo Caproni”. Insomma: l’anti-Novecento – una baruffa tra intellettuali – è infine una vicenda tutta interna al ‘canone’, al Novecento, senza particolari evasioni né invasioni di campo. Si tratta di una opzione più che di una rivoluzione, di un bivio più che di una conversione. Davvero negletto dalla storiografia, invece, è un nugolo di poeti che pare abbiano fatto storia a sé. Marginalizzati – per diverse ragioni, a volte patologiche – dal sistema culturale, ignorati dall’editoria imperante, questi poeti hanno perseguito – da perseguitati – una scrittura vertiginosa, solitaria, a tratti maniaca, che ha sbalestrato il linguaggio consegnandocelo rinnovato, in nuova innocenza, al cristallo. Autori di un’operamonstre, senza riserva né misura, pressoché postuma e ancora da scoprire, ci hanno dato – se si lavora per scrematura, per ‘sublimazione’ – alcuni dei testi più folgorati del secolo, di sempre. Non tanto “anti-Novecento” dunque – anche perché qui è tutt’altro che il linguaggio dimesso, da tonache lise e pecore smarrite – ma una specie di canone “avverso”, di canone avversato, che ha qualche remoto padre (l’esoterico Arturo Onofri, il selvatico Dino Campana, il furibondo Giovanni Boine), e che si svolge al di là delle avanguardie e del ‘dibattito’, praticabile soltanto da chi ha fatto della propria ostinata solitudine allo stesso tempo alcova e mattatoio. Linguaggio inclassificabile quello di questi poeti, che non concede carriere accademiche dacché mette in discussione le fondamenta del cosiddetto ‘canone’; poesia che si offre – ostia avvelenata – come rivelazione di un esistere in fiamme, a volte stigmatizzata dalla tragedia.  Di questi avversati, di questi avversari al noto il campione è Lorenzo Calogero, di cui si attende ancora, nonostante sporadici, pur potenti riconoscimenti (da Leonardo Sinisgalli ad Aldo Nove), degna sistemazione dell’opera. Gian Giacomo Menon, nato pochi mesi dopo Calogero (entrambi del 1910, il primo è di novembre, l’altro di marzo), è il fronte ustorio del canone “avverso” – che non è un anti-canone, dacché questi poeti, pionieri dell’ignoto, non sono anti- nulla, a nulla si contrappongono. Nato anch’egli all’estremo emisfero del Paese – Calogero è di Melicuccà, Calabria; Menon di Medea, Gorizia, allora austroungarica –, a differenza di Calogero, Menon ha avuto una vita, si direbbe, in pienezza. Futurista per eccesso di giovinezza – nel 1930 pubblicò a sue spese il nottivago: colse il plauso di Marinetti (“Ingegno indiscutibile… Immagini audaci”), ma l’autore lo sconfessò, “rastrellò, facendole sparire, tutte le copie in circolazione” – Menon fu straordinario professore al liceo classico ‘Stellini’ di Udine, in grado di sedurre ed egualmente intimidire legioni di studenti. Leggeva Pascal, Schopenhauer e i Sofisti, amava Giuseppe Rensi, “filosofo solitario e inattuale per eccellenza”, tra i poeti preferiva Rimbaud, Valéry e Sergej Esenin. Scrisse moltissimo, pressoché per sé, Menon: dagli undici agli ottantacinque anni, scrive lui, “più di 100000 poesie, dicendo 10 versi l’una in tutto più di 1 milione di versi”; attività che esaspera in vecchiaia (hanno contato “almeno 14mila poesie” scritte fra il 1993 e il ’99, cioè all’incirca cinque poesie al giorno). In vita, uscirono un mannello di poesie – diciassette – su “La Fiera Letteraria”, nel 1966, e un librettino, I binari del giallo, edito da Campanotto nel 1998, con prefazione di Carlo Sgorlon, che riteneva Menon “filosofo del nulla e poeta assoluto”. Morì poco dopo, il poeta, nel dicembre del 2000; nel 1945 aveva sposato la ex allieva Silvia Sanvilli: non ebbero figli perché lui non ne voleva; per tutta la vita inseguì le jeunes filles, amori rubati all’ombra di un androne. Ormai anziano, aveva “‘fatto amicizia’ con un uccellino che tutti i giorni veniva a posarsi sul terrazzo dell’appartamento di via Carducci”. In molti ricordano il suo carisma, l’impeccabile nitore del dire, le feroci conclusioni. Alcuni hanno ravvisato nella sua opera, magmatica, indifesa e difforme, la petroglifica nitidezza di Paul Celan.  Ciò che resta, appunto, è una poesia che va per lapidazioni e lacerazioni, che spezza, sempre, l’occasione in stato d’assedio, che rimpolpa la parola di un bestiario nuovo, di esseri zodiacali, con le zanne; questa, ad esempio: > dentro di noi come uova di mosca > dileguarsi con i congegni per le madri astrali > stabiliti su acque icarie nelle frazioni del vento > sbarrati e neri nei sai > quando il tempo delle città apre le sue botole > un calcolo reticolato sulla sinistra dei codici > profilo di cifre marginali > e l’uomo con le ascelle fiorite > esperto di addii al livello dei grani > abbandonato alla legge > piomba nelle orine animali impastate di erba > e altri dopo con ossature di tela > il cuore sospeso all’aperto > un chilometro più lungo della vita > scattano oltre i canali sui denti della neve > a risvegliare le controcorrenti dei pesci > la contesa dei corni > e altri azzurri di punta con occhi di metallo > annotano la fuga ostile dei giorni > al seguito dei cani gonfiati dalla luna > dentro di noi covare la nostra profezia > spiarci brevi nell’uncino e nell’elitra > all’orlo dei cieli domestici > insicuri sui nettari sulle croste del sangue > predatori da gioco > barattare con le lacrime l’insolenza delle parole Passò la vita, lunga, ad annientarsi, Menon, “praticamente tappato in casa… accuratamente nascosto agli occhi dei più, sfuggendo ogni anche pur minimo coté sociale” (Cesare Sartori, qui come nelle precedenti citazioni). Non ci è riuscito – chi è fuoco finisce per sfamare incendio, per richiamare accoliti. Da anni, uno dei talentuosi allievi di Menon, Cesare Sartori – friulano, di formazione filosofo, giornalista professionista per una vita –, che abbiamo chiamato al dialogo, lavora, pressoché in solitaria, per ‘sistemare’ l’immensa mole di scritti del poeta. Finora, ha curato tre libri – Poesie inedite 1968-1969 per Aragno, 2013; Qui per me ora blu per KappaVu, 2013; Geologia di silenzi e altre poesie per Anterem, 2018 – una plaquette – non più di un bisbiglio nella pena dell’essere, per le leggendarie edizioni pulcinoelefante, 2017 – e un sito meravigliosamente ben fatto, http://www.giangiacomomenon.it.  Anche questo accomuna gli autori del canone “avverso”: chiedono di essere raccolti più che capiti. Bisbigliano. Pretendono il tu-per-tu. Prendono il viso del lettore a due mani, come fosse una brocca. Non puoi trovarli nelle antologie scolastiche perché troppo sottile, troppo feroce è il loro segreto. Pretendono l’audacia chiamata dedizione.   La mania e il nascondimento. Intendo dire: come si spiega la scrittura fluviale, compulsiva, ‘maniaca’ di Menon con la totale ritrosia a pubblicare, una sorta di spudorato pudore? Bello e azzeccato quello «spudorato pudore»! Menon aveva piena consapevolezza di essere totalmente dedito alla poesia essendo la poesia il più grande, fedele, immutabile, ossessivo e probabilmente unico vero amore della sua vita. Ma coerentemente con la sua «decisione di assenza» dal mondo e dal circuito sociale presa prima dei cinquant’anni (a parte l’attività di insegnante al liceo classico ‘Stellini’ di Udine e le uscite da casa per inseguire dei suoi amori) non faceva niente per promuovere o far conoscere i suoi versi. Aveva anche consapevolezza del valore della sua poesia («Di Gian Giacomo Menon – scrisse nell’agosto 1966 la “Fiera Letteraria” pubblicandogli 17 poesie – non sappiamo quasi nulla. Sappiamo solo che è un poeta, un vero poeta, ed è questa l’unica cosa che conti»), ma non si sarebbe mai ridotto a pietire ascolto e accoglienza dagli editori bussando come un mendicante alle loro porte. A parte il nottivago, il libretto con versi di ispirazione futurista uscito nel 1930, Menon non ha pubblicato praticamente niente in vita nonostante una produzione abnorme: come lui stesso dichiara in un appunto autografo che ho ritrovato tra le sue carte di aver scritto dagli undici anni in poi oltre centomila poesie, più di un milione di versi (che ha in gran parte distrutto prima di morire). La pubblicazione sulla «Fiera letteraria» si deve all’iniziativa di altri: il critico letterario Mario Schettini, lo scrittore Antonio Barolini… Ci furono poi, negli anni ’60, tentativi di contatto con Feltrinelli ed Einaudi dei quali si occupò l’amico antropologo Carlo Tullio Altan, risoltisi però in un nulla di fatto. E poi a due anni dalla morte la pubblicazione a Udine per i tipi di Campanotto di una scelta di versi per iniziativa e su pressante insistenza di Carlo Sgorlon dopo che era andato a vuoto un mezzo impegno che il romanziere friulano aveva strappato, se non ricordo male, a Marsilio. Da dove viene la poesia di Menon? Intendo: cosa leggeva, cosa lo affascinava della letteratura italiana ed europea? È possibile tracciare una ‘poetica’ di Menon? Menon ha un grande debito – da lui stesso più volte dichiarato – con i simbolisti francesi: Mallarmé in primis, Rimbaud («Non so quanto e come capito» ha scritto tre anni prima di morire) e Baudelaire, quindi Valery e il russo Sergej Esenin. Sono questi i suoi numi tutelari. Gli esponenti principali dell’ermetismo italiano invece Menon li ha nominati poco o punto. Ho ritrovato soltanto un’annotazione manoscritta del ’97 dove sostiene: «Più (ma molto poco) Quasimodo che Montale». In terza liceo (1967-’68) ci parlò a lungo e con ammirazione di Lorenzo Calogero del quale erano usciti tra il 1962 2 il 1966 i due volumi di Opere poetiche nella leggendaria e prestigiosa collana con le copertine rosse di Roberto Lerici: un poeta, come si sta sempre più confermando, che per ragioni esistenziali, stilistiche e linguistiche appare per Menon come un ‘fratello gemello separato alla nascita’. «Della mia poesia – ha annotato Menon nell’ottobre 1997 – non bisogna preoccuparsi dei contenuti né dei messaggi o dei racconti ma di strutturazione delle parole, dei ritmi, degli incastri, degli accostamenti, travestimenti, tradimenti». E puntualizza: «La mia poesia è tutta basata sul ricordo, sulla memoria e sulla trasfigurazione simbolica della realtà» e ne fissa le caratteristiche fondamentali: «Prosodia, metonimia (la figura retorica principale delle mie poesie, una parola per dire altro, una parola simbolo di altro), simbolismo, nominalismo, scomposizione». E così, trasfigurando e inventando, Menon riesce a compiere la titanica impresa di rinominare il mondo, la vita vissuta, il presente e i ricordi. Forzando il lessico ai limiti dell’indicibile, Menon sembra aver fatto suo il lapidario appello di Paul Celan (poeta che a scuola, curiosamente, non ricordo che abbia mai nominato) per una lingua «a nord del futuro». E ancora:  > «Poesia è silenzio di poeta, poeta rompe silenzio inventando parole, poeta non > crede alle sue parole, fa credere le sue parole al lettore, poeta non sogna, > poeta inventa sogni per gli altri, poesia non è fanciullezza, è alta maturità; > è vita solo l’invenzione, il sogno inventato, non per crederci, non per > sognare ma per fare sognare gli altri, per imbrogliare gli altri, ad esempio > la poesia».  Ma nel ’97 rivendica orgogliosamente:  > «Io non ho avuto idoli, non mi occorrono maestri, io ho quello che mi occorre. > Ogni uomo è sé, nessun paragone tra uomini, solitudine essenziale, un > disincanto disperato e lì io nudo, solo, impaurito». Che valore ha avuto il pellegrinaggio giovanile nel Futurismo nella vita lirica di Menon? Beh, credo che l’esperienza futurista a Gorizia (suo sodale e amico era l’aeropittore Tullio Crali; insieme firmarono un manifesto futurista e misero in scena una provocatoria pièce teatrale) tra i 18 e i 25-26 anni abbia lasciato in lui segni duraturi. Istrionico e provocatore, attore consumato e Gran Narciso (credo che le maiuscole nel suo caso siano obbligatorie) ma comunque bisognoso di un uditorio, Menon amava colpirti provocando stupore e sorpresa. Così riusciva (o sperava di riuscire) a catturare l’attenzione dei suoi studenti. Il suo modo di fare lezione era intrigante, suggestivo, affascinante: un seduttore quasi irresistibile. Trasgressivo, controcorrente, mai banale, a volte feroce, elitario (quelli, pochi, che stavano dentro il cerchio e quelli, molti, che non ci stavano). Spesso ci fece ridere. Come ben ricordano tutti coloro che lo hanno avuto come insegnante, l’elenco delle sue stranezze e bizzarrie comportamentali è lungo. Eppure, se ripenso a quelle sue stramberie, a quegli sberleffi di ex futurista ogni volta gli vedo spuntare sulla faccia un sorrisino tra l’ironico e il beffardo, vedo balenargli negli occhi un lampo di arguzia malandrina e sorniona. Sogghignava, il provocatore, godendosi il nostro sconcerto, se la spassava tra sé e sé spiando «l’effetto che fa». Mi racconti un aneddoto, un frammento di vita che ci aiuta a capire il ‘personaggio’ Menon. Ne scelgo uno fra i tanti perché mi pare tuttora emblematico e significativo per capire meglio Menon. Soli, in un’aula vuota, una volta mi raccontò di quando, sotto Natale, lui se ne stava rincantucciato nel buio di un portone a fare la posta a una donna. «Mi vengono incontro due uomini – sillabò –, forse erano cacciatori; parlano ridendo del gneur (la lepre in lingua friulana) che hanno preso e di come se lo sarebbero sbafato in salmì con la polenta. Le lacrime hanno cominciato a scendermi sul viso». Se il canto delle sirene della vita è ammaliante e irresistibile per ognuno di noi, paradossalmente lo era a maggior ragione per lui: quante volte mi ha confessato il rammarico e il rimpianto di non poter essere come gli altri, di non potersi accucciare nella consolatoria e stordente «normalità» della massa. Anche lui era alla ricerca di un nido. Mi indichi una poesia a suo giudizio esemplare del lavoro incessante di Menon. Ah, che domanda difficile! Sarebbe come chiedermi di scalare il Cervino con gli infradito e in pantaloncini corti! Una su centomila! Bon, me la caverò così, citando i versi pubblicati dall’amico Alberto Casiraghy in un suo «pulcinoelefante» e pochi altri estrapolati da un paio di sue poesie: «nido del sagittario un grillo ha cantato non più di un bisbiglio nella pena dell’essere (…) coltivatore di ansie uomo solo vado con bagagli di vento, speranze di infanzia, i segni lasciati sul cuore dalla tua mano (…) terra lenta dell’erpice fatiche di una vita si scardina il sasso dalla zolla nello spavento della locusta invidia di più forti ali e l’erba resta sospesa nel vento questa stagione di prove non si appoggia a stelle matematiche impotenti nei giri assegnati contro il caldo furore del sangue che tira il grido dalla sua parte e ogni perdizione non confondermi nell’istante della resa non giudicarmi se l’occhio si fa vetro sulla parete offesa dalla rinuncia tutto umano è il piede che incontra il suo ostacolo il braccio che decide di abbassare lo scudo». Quando e perché ha cominciato a dedicare forze e spirito a Menon? E poi: cosa ci resta da scoprire di Gian Giacomo Menon? Era il 2010, ero andato in pensione dal giornale dove ho lavorato per trent’anni (“La Nazione” di Firenze) e ho deciso di fare qualcosa perché il velo dell’oblio non cadesse inesorabile a coprire il ricordo di Menon come insegnante e come poeta. Perché l’ho fatto? Per il debito, il grande debito di riconoscenza e di gratitudine che ho sempre avuto – e continuo ad avere – nei confronti del “fatale professore”. Ricorda l’indimenticabile professor Keating dell’Attimo fuggente, quello di «Oh Capitano, mio Capitano»? La Giulia Terzaghi dell’Ora di lezione di Massimo Recalcati? O quell’imperdibile libro che è La lezione dei maestri di George Steiner? I motivi, il perché li trova lì. Menon aveva alcuni doni che riversava generosamente intorno a sé. Intanto il carisma (χάριςμα), quell’attributo che significa grazia, autorevolezza, prestigio, dottrina, saggezza, sapienza, fascino… e che, come il coraggio di don Abbondio, uno se non ce l’ha difficilmente se lo può dare. Poi aveva il λόγος, polisemica parola greca che vuol dire tante cose: parola, discorso, intelligenza; ragione universale e pensiero divino secondo Eraclito; ragione generatrice che conferisce ordine e vita a tutte le cose per gli stoici; quel qualcosa che contiene in sé il bello, il buono e il giusto stando a Plotino… Terzo, Menon fu un impareggiabile pontifex, letteralmente un costruttore di ponti tra culture e discipline diverse, ponti gettati verso e sul mondo per sfuggire alle ristrettezze culturali e mentali della piccola provincia udinese; un «insegnante-testimone capace di aprire mondi attraverso la potenza erotica della parola e del sapere che essa sa vivificare» (Recalcati). Per lui non eravamo «vasi vuoti da riempire, ma fiaccole da accendere» (Plutarco). Che poi, a ben vedere, è lo stesso atteggiamento, volutamente provocatorio, che Socrate adotta nei confronti del giovane Agatone nella scena iniziale del Simposio. Gian Giacomo Menon (1910-2000) in una rara posa ‘mondana’ Chi ha avuto Menon come insegnante ha avuto una fortuna: quella di trovarsi a contatto con il riverbero di una mente sopraffina e di alto livello. Tutti i suoi allievi hanno sperimentato direttamente la ‘minaccia’ che tale contatto costituiva, ne sono stati in qualche modo ‘infettati’ perché è noto che l’eccellenza può dimostrarsi spesso brutale e che confrontarsi con essa è un agòn, un pòlemos. A scuola come nella vita. Dopo quel contatto, però, molti di loro non hanno più potuto dimenticare né quella luminosità né quel riverbero né quella ‘minaccia’. Forse sono inattivi e silenti quei germi, quegli agenti dell’infezione, ma sono sempre lì, in agguato, annidati in loro e pronti a balzar fuori. E molti ex allievi ancora oggi sono fieri di essere ‘sopravvissuti’ alle sue lezioni. Quando sei stato esposto a quel virus – anche Menon trasmetteva quella contagiosa ‘malattia’ che Melanie Klein ha chiamato epistemofilia, la libido sciendi, la brama di sapere –, non importa quanto a lungo, te ne rimarrà sempre un riverbero, uno stigma. Per il resto della tua carriera e della tua vita privata, magari del tutto normali, magari banali e prive di distinzione, avrai sempre, come avverte George Steiner, «una protezione contro il vuoto». Chi scrive considera un privilegio l’essere stato uno dei suoi allievi e ai suoi figli, quando hanno fatto il loro ingresso alle superiori (quella fase che corrisponde probabilmente alla più importante, formativa e magica stagione della vita), ha augurato soprattutto una cosa: di avere nella loro vita scolastica almeno un insegnante, fosse pure uno solo, come la Giulia Terzaghi, il John Keating o… il professor Menon della sezione A del liceo classico ‘Stellini’ di Udine. Come il vecchio Dencombe di quello stupendo racconto di Henry James che è Mezza età, anche Menon «ha fatto vibrare qualcuno» che è la cosa che più conta quando tiri le somme della tua vita. Oh, sì, Menon ci ha fatto vibrare, ne ha fatti vibrare molti: di desiderio di sapere. «In una classe quanti allievi pensi che debbano seguire con partecipazione le mie lezioni perché io mi ritenga soddisfatto?», mi chiese una volta. «Mah, non so – risposi –, la metà, un terzo…». «Uno, me ne basta uno per classe!», rispose. Anche ai veri cabalisti e a certi maestri eremiti era concesso un solo discepolo; Nietzsche ebbe un unico allievo. I dialoghi platonici, le lettere di Seneca a Lucilio, la scuola di Tagore sono lì a dimostrare che non è importante soltanto che cosa si insegna, ma anche come si insegna. Lo sanno bene gli insegnanti e lo sa anche chi insegnante non è, che si può insegnare in tanti modi, ma che l’unico modo per insegnare con grandezza e lasciando un segno davvero duraturo è suscitare dubbi e domande negli allievi, promuovere e sollecitare il loro senso critico, aprire e far ‘sorgere’ per loro mondi nuovi, inattesi, sconosciuti, inaspettati, allenarli al dissenso, prepararli al distacco: «Ora lasciatemi», ordina Zarathustra; Empedocle prega il suo discepolo di lasciarlo solo sul ciglio del cratere. A suo avviso, come si colloca Menon nella poesia italiana del Novecento e cosa manca perché il suo nome compaia nei repertori antologici della letteratura del nostro paese? Non lo so. Non sono un accademico né un critico letterario, non ho la competenza per esprimere giudizi se non dire che a me la poesia di Menon piace. La poesia è un mistero, come l’amore. Se i versi che stai leggendo non risuonano dentro di te, se non ti cantano dentro non c’è barba di esegesi critica che possa farlo. Posso però dire perché la poesia di Menon è ancora in larghissima parte sconosciuta o misconosciuta nonostante il sottoscritto da quindici anni ci provi a diffonderla, a farla conoscere: distrazione, pigrizia, scarsa propensione ad accogliere il nuovo e a lavorarci sopra… Oh, sì ho incassato riconoscimenti e attestazioni di stima anche autorevoli, ma Menon non ha ancora sfondato a livello nazionale come invece, secondo me e secondo alcuni altri lettori molto competenti, meriterebbe. Ma la speranza è dura a morire! Provare, fallire, provare ancora, fallire meglio… Io di certo non mi arrendo! L'articolo “Di Gian Giacomo Menon non sappiamo quasi nulla. 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August 30, 2025 / Pangea