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In viaggio verso il destino. Da Cioran a Panait Istrati: storia di rumeni straordinari
È una Romania inedita, nascosta, dimenticata quella che Carolina Vincenti rievoca nel suo Fantasmi romeni. Dieci biografie straordinarie (La Lepre edizioni, 2025). Un libro caleidoscopico, una miniera di storie, di vite, di destini. Pieno di pepite e misteri su un’anima romena tra oriente e occidente, mistica e rivoluzione, aristocrazia cosmopolita e spirito popolare. Vincenti – intellettuale nata a Bucarest e cresciuta a Beirut, autrice di numerosi volumi dedicati ai palazzi romani, che ha curato mostre per il Musée du Luxembourg in Francia e ha collaborato con il M.I.U.R. – riannoda i fili di una storia nazionale che intreccia alla memoria personale e familiare, offrendo al lettore una galleria di medaglioni adamantini di esuli, artisti, testimoni. Da Panait Istrati, scrittore di novelle incantate, definito il “Gor’kij dei Balcani”, a Mircea Eliade, il più illustre storico delle religioni del Novecento – ma anche incantevole romanziere e poeta – passando per Ioan Petru Culiano, sapientissimo gnostico ucciso all’apice della gloria accademica da un misterioso assassino, Dimitrie Cantemir, il principe visionario che aveva osservato alla fine del Seicento l’Europa decollare e la mezzaluna del Bosforo declinare ed Elena Ghica, formidabile principessa itinerante, archeologa, botanica, scrittrice e pioniera del pensiero liberale delle élite cosmopolite. Un viaggio, quindi, tra i fantasmi dell’anima romena, i suoi santuari e soprattutto i suoi luoghi nascosti.  Come nasce “fantasmi romeni”? Chi sono i protagonisti di queste dieci biografie? Nasce da un’urgenza personale. Mia madre era di origine romena, ma aveva perso la cittadinanza poco prima che io nascessi. Mio figlio, invece, anni dopo, stava per trasferirsi in Romania, ma quel Paese gli appariva come una terra quasi sconosciuta. Ho sentito il bisogno di raccontargli la Romania che avevo assorbito dai racconti dei miei nonni, dalle memorie degli esuli, dalle figure che avevano attraversato quel mondo e che avevo studiato a lungo. Ho scelto dieci personaggi che hanno vissuto l’esilio come condizione distintiva e la ricerca dell’identità come destino. Sono figure straordinarie, ognuna con un frammento dell’anima di quel paese martoriato da fascismo, comunismo, crolli e ricostruzioni, ma anche ricco di intellettuali e cultura. Questi racconti sono sintesi di lunghe ricerche: testimonianze minori, dettagli, ricordi, luoghi rimpianti. Volevo offrire a mio figlio un piccolo vademecum per capire l’anima romena. La scelta di questi profili è stata immediata o tormentata? Direi che sono stati loro a scegliere me. Il primo è Dimitrie Cantemir: appartiene al mio campo naturale, il Sei-Settecento. Mi ha sedotto il suo essere sospeso tra Oriente e Occidente, principe poliglotta, primo orientalista d’Europa. Da storica dell’arte, il suo sguardo sul declino ottomano mi ha colpito: un Voltaire o un Gibbon nato ai bordi della mezzaluna. Poi Panait Istrati, poeta dell’amicizia e delle anime semplici, degli slanci attivisti e delle piccole cose: è stato un uomo ingenuo e visionario, capace di un entusiasmo rivoluzionario e di un pentimento immediato per quelle speranze mal riposte. Basti pensare che nel 1927 scrive, in anticipo su Gide e i grandi francesi, un j’accuse sul bolscevismo quando nessuno osa ancora farlo, pagandolo sulla sua pelle. Poi ci sono Eliade e Cioran. Eliade ha cambiato la mia prospettiva sul mondo e sulle cose: la sua riflessione sul sacro e sulla necessità umana di miti mi ha parlato profondamente. Di Cioran mi ha colpito invece, dietro il pessimismo apparente, il fatto che nascondesse un’umanità luminosa: faceva ridere, consolava, celebrava l’amicizia. Con una scrittura francese che ha pochi rivali: nitida, chirurgica, lucidissima. Lei parla della storia come forza inafferrabile, viaggio e destino. È un filo che attraversa tutti i suoi protagonisti? Sì. La vicinanza all’Oriente dà loro uno sguardo che definirei “dostoevskiano”: un’umiltà davanti alla storia, la consapevolezza che l’essere umano non ha alcun controllo sugli eventi. Cioran lo esprime in modo radicale. L’epistolario con Eliade è rivelatore: due studiosi del sacro che, allo stesso tempo, ripetono che “la storia non è”. Studiare questi esuli mi ha trasformata. Io venivo da un’educazione francese, molto razionale; loro mi hanno mostrato la fragilità dell’individuo di fronte ai movimenti della storia. È una lezione che ho assorbito pagina dopo pagina. Elena Ghica, detta Dora d’Istria, è forse la più sorprendente. Come ha incontrato questa Mary Shelley d’oriente? Per caso. In un piccolo libro francese trovato in una minuscola libreria. In vita era famosissima: a Firenze la definivano la donna più intelligente della città. A Mosca stupiva tutti con il suo pensiero progressista, al punto da doversene andar via. Era amica di Garibaldi, figlia e nipote di Voivoda, quindi parte della grande aristocrazia fanariota. Mi ha affascinato la sua ascendenza bizantina: molte grandi famiglie romene hanno radici bizantine: questa stratificazione culturale dice molto della Romania, paese che porta nel nome stesso il legame con Roma. Era archeologa, filologa, botanica, scalatrice, antropologa, proto-femminista. Una matrioska inesauribile. Raccontarla significava restituire una luminosità ingiustamente dimenticata. Nel libro trova spazio anche Panait Istrati di cui abbiamo già in parte parlato. Che cosa la colpisce della sua vicenda? La sua vita sembra scritta da un romanziere. Poverissimo, parte dal delta del Danubio, una terra immensa e sospesa, e cammina nel mondo con una valigia minuscola e desideri sterminati. Tenta il suicidio; in tasca ha una lunga lettera destinata a Romain Rolland. La lettera arriva però all’autore per puro caso, perché Rolland aveva cambiato indirizzo. Rolland la legge, si mette sulle sue tracce, lo trova, gli dice: “Scrivi e ti pubblico”. Nasce Chira Chiralina, un successo enorme. L’Unione degli scrittori lo manda in Russia per il decennale della Rivoluzione. Per lui è l’incontro col sogno e con l’utopia da cui invece esce deluso e tradito. È la prova che il destino è un intreccio di caso, tenacia e soprattutto fragilità.  Nikos Kazantzakis entra in scena quasi come testimone. Che rapporto aveva con Istrati? Un rapporto intenso. Kazantzakis descrive Istrati in modo fulminante: “I suoi bagagli dieci chili per fare il giro del mondo, il suo appartamento un letto, ma i suoi desideri un universo intero.” È un ritratto perfetto. Istrati era un vagabondo dell’anima, un uomo che veniva da un porto cosmopolita, Breila, popolato da etnie e culture diverse. Una Romania che oggi sembra lontanissima. La sua povertà non era miseria: era leggerezza, apertura totale al mondo. C’è qualche grande assente che avrebbe voluto includere? Sì. Il primo è Ionesco. Me lo hanno fatto notare: manca. Ma sono meno interessata al teatro rispetto alla poesia o alla prosa. Altri assenti: Tristan Tzara, e due giganti come Paul Celan e Fondane. Celan l’ho evitato perché non parlo tedesco: affrontarlo senza lingua mi sembrava un tradimento. Ho preferito restare fedele alla mia onestà intellettuale. Ho incluso invece una figura non prestigiosa: la tata dei piccoli comunisti. È stata anche la mia tata. Ebrea, donna di una forza rara. Era la mia chiave per raccontare la comunità ebraica rumena, che fu vastissima — 750.000 persone — e che come tutte le comunità ebraiche balcaniche costituì il vero “sale” dell’Europa orientale. Raccontare lei significava raccontare un mondo, un modo di vivere, un modo di stare nella storia. Se dovesse indicare il filo rosso che lega tutti questi fantasmi romani? Direi: la ricerca dell’identità e il confronto con l’esilio. È l’accettazione della fragilità dell’essere umano davanti agli eventi. Ci si incammina alla ricerca di un’identità che si trova in maniera plurale e multiforme. Questi personaggi lo confermano. Lo stesso Eliade è un non credente che indaga il nucleo delle religioni e lo fa come pochi. Sono personaggi che hanno vissuto in transito, tra lingue, imperi, culture. Si sono interrogati su che cosa significhi appartenere, radicarsi, sognare in una lingua o in un’altra. E rappresentano un paese che troppo spesso non conosciamo, ma che ha prodotto pensatori e scrittori di straordinaria grandezza. Raccontarli è stato un modo per dare voce a ciò che resta di quella Romania: una grandezza intellettuale che sopravvive nelle storie che hanno lasciato. 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December 12, 2025 / Pangea
“Ostinata nell’esprimere l’inesprimibile”. Dialogo con Ana Blandiana
Ana Blandiana nasce con il “marchio di Caino”. Figlia di un insegnante reduce della Grande Guerra, arrestato perché “nemico del popolo”, pubblica il primo libro, Prima persona plurale, poco più che ventenne, nel 1964. È uno shock. Il libro, manomesso dai censori, è irriconoscibile. > “Strofe soppresse, versi aggiunti, titoli cambiati, tantissime parole > sostituite: questo volume per me rappresenta il simbolo dell’impotenza > rispetto al sistema e alla sua arroganza, alla sua capacità di manipolazione”. In una poesia, Ana Blandiana canta la pioggia, “amo la pioggia, amo la pioggia alla follia”. Quei versi, un acquazzone di gioia, fendono il grigiore della Romania ‘sovietica’: pur mutilato, il libro ha successo, alla figlia di un nemico dello Stato è aperto l’accesso all’università.  Sarà l’inizio di una lotta incessante contro gli orrori del regime.  L’importanza di Ana Blandiana nella Romania comunista è pari, per aristocrazia d’ingegno, a quella di Anna Achmatova in Unione Sovietica. I suoi versi, proibiti, vengono imparati a memoria, spacciati clandestinamente nei sottoscala come gesti di ribellione, come atti d’amore. La poesia di Ana Blandiana, vertiginosa – ora raccolta da Bompiani in Raccolto d’angeli, a cura di Mauro Barindi –, rigurgita di creature celesti. Ci sono angeli sporchi di fuliggine, angeli “che hanno indossato abiti d’uccello” e “vecchi angeli maleodoranti/ con puzzo di rancido nelle penne umidicce,/ nei radi capelli,/ nella pelle che si squama in isole di psoriasi”. Ci sono angeli, in questa lirica apocalisse, che “presto saranno processati”.  Nel 1988, già riconosciuta come uno dei più potenti poeti al mondo, la Romania di Ceaușescu ordina che i libri di Ana Blandiana “vengano proibiti e tolti dalle biblioteche, perfino quelli in cui è citato anche solo il suo nome” (Barindi). In Italia, Andrea Zanzotto guida un appello contro le persecuzioni perpetrate ai danni della poetessa rumena. In seguito al rovesciamento del regime, Ana Blandiana viene cooptata dal Fronte di Salvezza Nazionale di Ion Iliescu; se ne allontana appena avverte i sintomi della solita politica, deformata dal virus della vendetta, della perversione ideologica.  In uno degli ultimi testi, raccolti in Variazioni su un tema dato (2018), Ana Blandiana ritorna all’epoca della catastrofe comunista. > “Se avessimo come un tempo i microfoni nascosti in casa, le spie in ascolto, > mentre mi registrano, mi considererebbero senz’altro una pazza, mentre ti > parlo di ogni sorta di cose… dicendoti ti amo, così, al presente, e > augurandoti buona notte prima di spegnere la luce”. Il potere è terrorizzato – sempre – dal poeta che, svergognatamente, ama. La poesia, ha scritto Iosif Brodskij, il grande poeta ribelle ai diktat sovietici, “sollecita nella persona il senso della propria individualità, unicità, separatezza”, trasforma ogni volto – perfino il più perfido, il più infido – in qualcosa di umano. Già. Il poeta ha l’audacia di amare, di aprire uno spazio di bellezza – per quanto angusto, per quanto modesto – mentre tutto intorno è orrore.   Che rapporto c’è tra la poesia e il potere? O meglio: il potere della parola poetica che cosa può contro i potenti? Stranamente, mentre nelle democrazie il potere politico è in maniera assoluta indifferente alla poesia e alla letteratura, come pure ai loro autori, i dittatori hanno dimostrato in numerose occasioni di essere addirittura ossessionati dal potere della parola e di coloro che lo detengono. Come si è visto nell’incredibile conversazione tra Putin e il leader cinese, i dittatori sono preoccupati dall’immortalità e dalla posterità, di cui i poeti sono per tradizione i detentori. Da qui deriva la testardaggine dei dittatori di volerli assoggettare, comprandoli o mettendoli in prigione, al fine di ottenere qualche buona referenza nell’eternità. In questo senso il comportamento di Stalin è ben noto e la dice lunga sulla sua paura riguardo al potere dei poeti che non possono essere prezzolati, perché la loro protesta non è riferita solo al presente ma anche al futuro.    Che rapporto c’è tra la poesia e il potere?  Stranamente, mentre nelle democrazie il potere politico è in maniera assoluta indifferente alla poesia e alla letteratura, come pure ai suoi autori, i dittatori hanno dimostrato di essere ossessionati dal potere della parola e da coloro che lo detengono. Come si è visto nell’incredibile conversazione tra Putin e il leader cinese, i dittatori sono preoccupati dall’immortalità e dalla posterità, di cui i poeti sono per tradizione i detentori. Da qui deriva la testardaggine dei dittatori di volerli assoggettare, comprandoli o mettendoli in prigione, al fine di ottenere qualche buona referenza nell’eternità. In questo senso il comportamento di Stalin è ben noto e la dice lunga sulla sua paura riguardo al potere dei poeti che non possono essere prezzolati, perché la loro protesta non è riferita solo al presente ma anche al futuro.    Cosa significa scrivere sotto le cesoie della censura?  La differenza tra la parola ‘libera’ e la parola che riesce a essere pronunciata sotto censura è che quest’ultima ha un’importanza molto maggiore per coloro ai quali arriva. La prima grande scoperta che ho fatto dopo il 1989 è stata che la libertà di parola ha diminuito l’importanza della parola stessa. Quando è libero, l’orecchio di chi ascolta è disattento, indifferente; sotto censura chi ascolta affila l’udito per cogliere la minima allusione, la più sottile tendenza alla resistenza. Non erano le parole a spaventare il regime, ma la solidarietà degli uomini legati ad esse. Perché ha scelto la poesia (o è stata scelta dalla poesia)?  Ho iniziato a disporre e ad abbinare tra loro le parole fin dalla prima infanzia, prima ancora di saper leggere e scrivere; poi, dopo aver scoperto la lettura, ho composto versi ispirandomi a ogni poeta di cui mi innamoravo, e così, durante l’adolescenza, ho scalato i gradini della storia letteraria fino ad arrivare a me stessa. Ovviamente, non può trattarsi della scelta di un destino, ma sono troppo modesta per affermare che sia stato lui a scegliere me.  Cosa significa per un poeta “prendere posizione”? Il poeta è sempre un ribelle: alle norme del mondo come a quelle del linguaggio? Vorrei che non si esagerasse il carattere di protesta della mia poesia. È vero che è accaduto in alcuni casi, diventati celebri (sotto forma di samizdat), ma in generale, nonostante la mia costante tendenza a ribellarmi come essere umano, come cittadino, la mia poesia ha sempre posseduto degli anticorpi che hanno fatto da scudo al coinvolgimento politico, all’impegno legato a un preciso momento. La prova risiede nel fatto che ha superato le barriere della storia.  Ci sono tanti angeli nella sua poesia: perché?  Se accetta l’idea che la poesia è ostinazione nell’esprimere l’inesprimibile, allora capirà e sentirà che gli angeli sono strumenti, a volte disperati, di questa ostinazione. In cosa crede? Insomma, esiste qualcosa dopo la morte oppure non è che il niente?  Per me non esiste prova più semplice e chiara dell’esistenza di Dio del non sentirmi mai sola. Sì, credo che ci sia qualcosa dopo la morte, qualcosa che fa parte del mistero scoperto dai grandi fisici che hanno studiato la struttura della materia e dell’universo, diventando quasi mistici. Del resto, Einstein parlava quasi come Dante dell’«Amor che move il sole e l’altre stelle» e si considerava scientificamente irrealizzato, perché non era stato in grado di trovare la formula matematica di questa forza. Che senso ha la poesia oggi, in un’epoca lacerata dall’orrore, dalla violenza senza mediazioni? Il senso della speranza. Una volta ho tenuto una conferenza dal titolo “La poesia può salvare il mondo?”. La mia risposta era sì e raccontavo delle migliaia di poesie composte e trasmesse tramite l’alfabeto Morse (senza carta né penna, oggetti proibiti) nelle prigioni comuniste della Romania degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, a dimostrazione del fatto che quando sentono minacciata la loro stessa essenza, gli uomini ricorrono alla resistenza attraverso la poesia. A cosa serve la poesia: a vivere, a sopravvivere, a morire, a restare felici, a trovare se stessi (o a perdere il senso del sé)? A tutto questo e, oltre a questo, alla certezza che, essendo così difficile da capire e da definire, la poesia fa parte di quella realtà in cui gli antichi greci riponevano la loro fiducia e che chiamavano “kalokagathìa”, una parte che non potrà mai essere sconfitta perché fondata sul masochismo dei buoni. Del resto, questo è anche il punto di continuità con il cristianesimo.  Ritagli una manciata di versi dalla sua opera che, in modo delicato e feroce assieme, la descrivono. “Perché sono in grado di capire, e sono colpevole di tutto ciò che capisco”* «Pentru că sunt în stare să înțeleg,  De tot ce înțeleg sunt vinovată» * versi tratti dalla poesia Fără un gest (“Senza un gesto”) contenuta nella raccolta Arhitectura valurilor (“L’architettura delle onde”) del 1990. *In copertina: Ana Blandiana fotografata da Emilio Fraile L'articolo “Ostinata nell’esprimere l’inesprimibile”. Dialogo con Ana Blandiana proviene da Pangea.
October 22, 2025 / Pangea