Ana Blandiana nasce con il “marchio di Caino”. Figlia di un insegnante reduce
della Grande Guerra, arrestato perché “nemico del popolo”, pubblica il primo
libro, Prima persona plurale, poco più che ventenne, nel 1964. È uno shock. Il
libro, manomesso dai censori, è irriconoscibile.
> “Strofe soppresse, versi aggiunti, titoli cambiati, tantissime parole
> sostituite: questo volume per me rappresenta il simbolo dell’impotenza
> rispetto al sistema e alla sua arroganza, alla sua capacità di manipolazione”.
In una poesia, Ana Blandiana canta la pioggia, “amo la pioggia, amo la pioggia
alla follia”. Quei versi, un acquazzone di gioia, fendono il grigiore della
Romania ‘sovietica’: pur mutilato, il libro ha successo, alla figlia di un
nemico dello Stato è aperto l’accesso all’università.
Sarà l’inizio di una lotta incessante contro gli orrori del regime.
L’importanza di Ana Blandiana nella Romania comunista è pari, per aristocrazia
d’ingegno, a quella di Anna Achmatova in Unione Sovietica. I suoi versi,
proibiti, vengono imparati a memoria, spacciati clandestinamente nei sottoscala
come gesti di ribellione, come atti d’amore. La poesia di Ana Blandiana,
vertiginosa – ora raccolta da Bompiani in Raccolto d’angeli, a cura di Mauro
Barindi –, rigurgita di creature celesti. Ci sono angeli sporchi di fuliggine,
angeli “che hanno indossato abiti d’uccello” e “vecchi angeli maleodoranti/ con
puzzo di rancido nelle penne umidicce,/ nei radi capelli,/ nella pelle che si
squama in isole di psoriasi”. Ci sono angeli, in questa lirica apocalisse, che
“presto saranno processati”.
Nel 1988, già riconosciuta come uno dei più potenti poeti al mondo, la Romania
di Ceaușescu ordina che i libri di Ana Blandiana “vengano proibiti e tolti dalle
biblioteche, perfino quelli in cui è citato anche solo il suo nome” (Barindi).
In Italia, Andrea Zanzotto guida un appello contro le persecuzioni perpetrate ai
danni della poetessa rumena. In seguito al rovesciamento del regime, Ana
Blandiana viene cooptata dal Fronte di Salvezza Nazionale di Ion Iliescu; se ne
allontana appena avverte i sintomi della solita politica, deformata dal virus
della vendetta, della perversione ideologica.
In uno degli ultimi testi, raccolti in Variazioni su un tema dato (2018), Ana
Blandiana ritorna all’epoca della catastrofe comunista.
> “Se avessimo come un tempo i microfoni nascosti in casa, le spie in ascolto,
> mentre mi registrano, mi considererebbero senz’altro una pazza, mentre ti
> parlo di ogni sorta di cose… dicendoti ti amo, così, al presente, e
> augurandoti buona notte prima di spegnere la luce”.
Il potere è terrorizzato – sempre – dal poeta che, svergognatamente, ama. La
poesia, ha scritto Iosif Brodskij, il grande poeta ribelle ai diktat sovietici,
“sollecita nella persona il senso della propria individualità, unicità,
separatezza”, trasforma ogni volto – perfino il più perfido, il più infido – in
qualcosa di umano. Già. Il poeta ha l’audacia di amare, di aprire uno spazio di
bellezza – per quanto angusto, per quanto modesto – mentre tutto intorno è
orrore.
Che rapporto c’è tra la poesia e il potere? O meglio: il potere della parola
poetica che cosa può contro i potenti?
Stranamente, mentre nelle democrazie il potere politico è in maniera assoluta
indifferente alla poesia e alla letteratura, come pure ai loro autori, i
dittatori hanno dimostrato in numerose occasioni di essere addirittura
ossessionati dal potere della parola e di coloro che lo detengono. Come si è
visto nell’incredibile conversazione tra Putin e il leader cinese, i dittatori
sono preoccupati dall’immortalità e dalla posterità, di cui i poeti sono per
tradizione i detentori. Da qui deriva la testardaggine dei dittatori di volerli
assoggettare, comprandoli o mettendoli in prigione, al fine di ottenere qualche
buona referenza nell’eternità. In questo senso il comportamento di Stalin è ben
noto e la dice lunga sulla sua paura riguardo al potere dei poeti che non
possono essere prezzolati, perché la loro protesta non è riferita solo al
presente ma anche al futuro.
Che rapporto c’è tra la poesia e il potere?
Stranamente, mentre nelle democrazie il potere politico è in maniera assoluta
indifferente alla poesia e alla letteratura, come pure ai suoi autori, i
dittatori hanno dimostrato di essere ossessionati dal potere della parola e da
coloro che lo detengono. Come si è visto nell’incredibile conversazione tra
Putin e il leader cinese, i dittatori sono preoccupati dall’immortalità e dalla
posterità, di cui i poeti sono per tradizione i detentori. Da qui deriva la
testardaggine dei dittatori di volerli assoggettare, comprandoli o mettendoli in
prigione, al fine di ottenere qualche buona referenza nell’eternità. In questo
senso il comportamento di Stalin è ben noto e la dice lunga sulla sua paura
riguardo al potere dei poeti che non possono essere prezzolati, perché la loro
protesta non è riferita solo al presente ma anche al futuro.
Cosa significa scrivere sotto le cesoie della censura?
La differenza tra la parola ‘libera’ e la parola che riesce a essere pronunciata
sotto censura è che quest’ultima ha un’importanza molto maggiore per coloro ai
quali arriva. La prima grande scoperta che ho fatto dopo il 1989 è stata che la
libertà di parola ha diminuito l’importanza della parola stessa. Quando è
libero, l’orecchio di chi ascolta è disattento, indifferente; sotto censura chi
ascolta affila l’udito per cogliere la minima allusione, la più sottile tendenza
alla resistenza. Non erano le parole a spaventare il regime, ma la solidarietà
degli uomini legati ad esse.
Perché ha scelto la poesia (o è stata scelta dalla poesia)?
Ho iniziato a disporre e ad abbinare tra loro le parole fin dalla prima
infanzia, prima ancora di saper leggere e scrivere; poi, dopo aver scoperto la
lettura, ho composto versi ispirandomi a ogni poeta di cui mi innamoravo, e
così, durante l’adolescenza, ho scalato i gradini della storia letteraria fino
ad arrivare a me stessa. Ovviamente, non può trattarsi della scelta di un
destino, ma sono troppo modesta per affermare che sia stato lui a scegliere me.
Cosa significa per un poeta “prendere posizione”? Il poeta è sempre un ribelle:
alle norme del mondo come a quelle del linguaggio?
Vorrei che non si esagerasse il carattere di protesta della mia poesia. È vero
che è accaduto in alcuni casi, diventati celebri (sotto forma di samizdat), ma
in generale, nonostante la mia costante tendenza a ribellarmi come essere umano,
come cittadino, la mia poesia ha sempre posseduto degli anticorpi che hanno
fatto da scudo al coinvolgimento politico, all’impegno legato a un preciso
momento. La prova risiede nel fatto che ha superato le barriere della storia.
Ci sono tanti angeli nella sua poesia: perché?
Se accetta l’idea che la poesia è ostinazione nell’esprimere l’inesprimibile,
allora capirà e sentirà che gli angeli sono strumenti, a volte disperati, di
questa ostinazione.
In cosa crede? Insomma, esiste qualcosa dopo la morte oppure non è che il
niente?
Per me non esiste prova più semplice e chiara dell’esistenza di Dio del non
sentirmi mai sola. Sì, credo che ci sia qualcosa dopo la morte, qualcosa che fa
parte del mistero scoperto dai grandi fisici che hanno studiato la struttura
della materia e dell’universo, diventando quasi mistici. Del resto, Einstein
parlava quasi come Dante dell’«Amor che move il sole e l’altre stelle» e si
considerava scientificamente irrealizzato, perché non era stato in grado di
trovare la formula matematica di questa forza.
Che senso ha la poesia oggi, in un’epoca lacerata dall’orrore, dalla violenza
senza mediazioni?
Il senso della speranza. Una volta ho tenuto una conferenza dal titolo “La
poesia può salvare il mondo?”. La mia risposta era sì e raccontavo delle
migliaia di poesie composte e trasmesse tramite l’alfabeto Morse (senza carta né
penna, oggetti proibiti) nelle prigioni comuniste della Romania degli anni
Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, a dimostrazione del fatto che quando
sentono minacciata la loro stessa essenza, gli uomini ricorrono alla resistenza
attraverso la poesia.
A cosa serve la poesia: a vivere, a sopravvivere, a morire, a restare felici, a
trovare se stessi (o a perdere il senso del sé)?
A tutto questo e, oltre a questo, alla certezza che, essendo così difficile da
capire e da definire, la poesia fa parte di quella realtà in cui gli antichi
greci riponevano la loro fiducia e che chiamavano “kalokagathìa”, una parte che
non potrà mai essere sconfitta perché fondata sul masochismo dei buoni. Del
resto, questo è anche il punto di continuità con il cristianesimo.
Ritagli una manciata di versi dalla sua opera che, in modo delicato e feroce
assieme, la descrivono.
“Perché sono in grado di capire,
e sono colpevole di tutto ciò che capisco”*
«Pentru că sunt în stare să înțeleg,
De tot ce înțeleg sunt vinovată»
* versi tratti dalla poesia Fără un gest (“Senza un gesto”) contenuta nella
raccolta Arhitectura valurilor (“L’architettura delle onde”) del 1990.
*In copertina: Ana Blandiana fotografata da Emilio Fraile
L'articolo “Ostinata nell’esprimere l’inesprimibile”. Dialogo con Ana Blandiana
proviene da Pangea.
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Vergogna, modestia, umiliazione o persino narcisismo; dissolversi per durare è
un gesto antico e modernissimo che cela un desiderio paradossale. D’altronde, se
anche l’autore del creato è l’innominato per eccellenza, allora tacere il
proprio nome è, in fondo, un atto teologico; una restituzione al divino
dell’atto di creare.
> “Là dove il nome tace, parla lo spirito.”
>
> Meister Eckhart
Tutto comincia quando l’autore si ritira. È allora che la voce dell’opera
diventa più nitida, che tutto si distrugge e resta soltanto la parola, sospesa,
come un respiro senza volto. Lungi dall’essere una semplice mancanza di firma,
l’anonimato letterario è stato un dispositivo di libertà, censura e
sopravvivenza, e, nonostante possa apparire come un mero residuo arcaico, forse
è l’ultimo atto di libertà possibile.
Nel Settecento europeo, di fatto epoca di censura e illuminazione, si fece
dell’anonimato una pratica necessaria e quasi stilistica. In Italia, il nome
poteva divenire condanna. La firma, un azzardo politico. Nel mondo editoriale
del tempo, la scelta di non apparire non era sempre dettata da modestia, ma da
una prudenza colta, da un senso di difesa intellettuale.
Michel Foucault ha scritto – in Che cos’è un autore?,1969 – che
> “L’autore non è più che una funzione del discorso.”
Eppure, proprio quando il nome scompare, la voce si amplifica. Molti dei
repertori bibliografici nati tra Sette e Ottocento sono, infatti, tentativi
di restaurare il nome perduto, di restituire una biografia all’ombra. Lì dove il
frontespizio tace, i filologi cercano indizi, sigle, dediche, scaglie di
calligrafia; una sorta di archeologia del soggetto.
Inizialmente, le opere anonime appartenevano a generi precisi. Le grammatiche,
gli abbecedari, i manuali di divulgazione scientifici; testi utili, collettivi,
spesso di larga circolazione. Ancora più importanti però sono i viaggi, i
romanzi, i testi satirici e teatrali; generi più insidiosi, dove l’io autoriale
poteva essere compromettente.
> “L’uomo raggiunge la sua vera grandezza quando scompare dietro ciò che crea.”
>
> Antoine de Saint-Exupéry, Terra degli uomini
Soprattutto nella frammentata Italia pre-unità, tra censura, inquisizione e
gelosie accademiche, il nome poteva essere una ghigliottina. Il monaco Norberto
Caimo, ad esempio, nel 1761 pubblica le Lettere d’un vago italiano ad un suo
amiconascondendo il proprio nome e perfino il luogo di stampa, indicando
l’inesistente città di Pittburgo. Qui si descrivevano i viaggi dell’autore in
Spagna, Portogallo, Inghilterra, Belgio e Francia tra il 1755 e il 1756 in
un anonimato etico, figlio della vocazione religiosa ma anche di una sensibilità
politica; il religioso che scrive, osserva, giudica, ma che non può esporsi.
Una sorte ben diversa tocca a Saverio Bettinelli: gesuita e critico fu
richiamato all’ordine dopo aver firmato le Lettere virgiliane. Quando pubblica
le Lettere inglesi, è costretto a scegliere il buio; una rinuncia al nome per
salvare la voce.
Vi sono poi i casi in cui l’anonimato diventa maschera politica, come
per Ludovico Bianconi, medico bolognese che nel 1764 pubblica a Lucca, in un
contesto di scontro feroce tra censura ecclesiastica e libertà ducale,
le Lettere al marchese Filippo Hercolani. Qui, osservando la vita tedesca, egli
annota con finezza i contrasti tra protestanti e cattolici, e l’omissione
tipografica diventa, così, una scappatoia etica e politica; pubblicare altrove,
fingere.
> “Il nome è la più antica catena dell’uomo.”
>
> Elias Canetti, Massa e potere
Ci fu anche, però, chi il proprio nome lo volle difendere. Carlo Goldoni, nella
Venezia delle tipografie e dei plagi, capì che la vera censura non era quella
del doge, ma quella degli stampatori e direttori di teatro (in questo caso
Giuseppe Bettinelli e Girolamo Medebach). Le sue commedie – “sfigurate,
scorrette, ad onta mia” – gli sfuggivano di mano. Così la firma divenne per lui
un’arma, un atto di proprietà, quasi un testamento.
Ogni prefazione, ogni ritratto inciso in frontespizio erano un modo per dire “io
sono questo volto, questa voce”. Nel suo teatro la lotta per la verità non è
solo drammatica, è editoriale.
Scrivere significava difendersi dal furto, dal silenzio, dall’oblio. Il suo
teatro è un tribunale dove l’autore, l’editore e lo spettatore si contendono il
diritto alla verità.
> “Chi avrà coraggio di por mano nelle opere mie?”
>
> Carlo Goldoni
Goldoni è il primo autore italiano moderno, perché intuisce che il nome, in
fondo, è già una maschera. E che ogni maschera, prima o poi, diventa
necessaria. Il nome proprio, diceva, non designa un uomo, ma una certa modalità
dell’esistenza dei discorsi. Eppure, siamo certi che comunicare non significa
per forza trasmettere; un nome vende, un concetto insegna.
Naturalmente, però, la società evolve, il tempo scorre, e nel XX secolo,
l’anonimato non è più soltanto difesa o prudenza, bensì esperimento, gioco,
filosofia. Samuel Beckett, durante una conferenza nel 1969:
> “Cosa importa chi parla?”
La voce, non il volto, è ciò che conta. L’opera deve bastare a se stessa. Lo
stesso Foucault, citandolo, immaginava una cultura “in cui i discorsi
circolerebbero nell’anonimato del mormorio”, come se la letteratura potesse
finalmente liberarsi dal peso dell’identità.
A questa dissoluzione partecipano anche gli autori che scelgono di
moltiplicarsi: Italo Calvino, ad esempio, gioca con la maschera dell’autore, con
l’idea di un io che si disgrega e si ricompone nella pagina, fino a farsi pura
voce narrativa. Ancora più radicale è stato il portoghese Fernando Pessoa, che
ha fatto della scissione il proprio metodo creativo:Ricardo Reis, Álvaro de
Campos, Bernardo Soares, Alberto Caeiro – quattro volti, tra le miriadi, per un
solo silenzio.
L’anonimato moderno, dunque, non nega il sé, lo moltiplica. È un paradosso
produttivo, una dissimulazione che genera nuove voci, nuovi corpi testuali.
Barthes, nella sua celebre formula, ne sancisce la fine apparente – la morte
dell’autore – ma in realtà ne proclama la trasfigurazione. L’autore che si
dissolve nel testo, nel lettore, nel linguaggio stesso.
E cosa resta oggi di quel gesto antico, nell’epoca dei profili e degli
algoritmi?
Nel mondo digitale, l’anonimato non è più un atto di modestia né di difesa,
bensì un campo di tensione. Da un lato, è la maschera libertaria dell’individuo
che sfugge al controllo, dall’altro, è lo strumento della dissimulazione, del
falso, del moltiplicarsi dei sé. L’anonimato come simulacro.
Ogni commento senza firma, ogni voce che si dissolve nella rete, ripete in forma
tecnologica l’antico gesto del monaco o del filosofo. Ma oggi la sottrazione non
coincide più con la purezza. Si tratta di un rumore di fondo, un eccesso di
presenza spacciato per assenza.
Eppure, anche qui, in questo nuovo paesaggio, sopravvive il nucleo originario
del gesto anonimo, la sua nostalgia di non appartenere a nessuno.
> “I miei libri, la mia opera […] Il lato grottesco di questi possessivi. Tutto
> si è guastato da quando la letteratura ha smesso di essere anonima. La
> decadenza risale al primo autore.”
>
> Emil Cioran, Confessioni e anatemi, 1987
Forse solo chi tace il proprio nome può ancora pronunciare parole vere. Forse
ogni opera, anche la più firmata, tende segretamente all’anonimato, a quel punto
in cui il linguaggio non ha più bisogno di padrone. Scrivere senza nome
significa non dover più difendere nulla, né un’identità, né una carriera, né una
vanità. È l’esperimento più radicale di sincerità; in fondo, non si puo’ morire
se non si ha un corpo da seppellire.
Tommaso Filippucci
*In copertina: gli “sfregi” di Nicola Samorì
L'articolo Sfigurare il nome. Solo chi è nessuno può dire la verità: discorso
sull’immortalità dell’anonimato proviene da Pangea.
Parigi chiede a Bruxelles di agire contro le ingerenze di Musk
Prima Elon Musk, poi Mark Zuckerberg. Quasi una manovra a tenaglia. Il primo
destabilizza l'Europa prendendo di mira capi di Stato e di governo nei suoi post
e spinge i movimenti di estrema destra, il secondo - sull'onda di una
conversione tardiva al trumpismo - si scaglia contro l'eccessiva
regolamentazione dell'Unione Europea ed evoca persino la censura.
Link all'articolo originale qui
Come riporta l'Ansa, Facebook ha fortemente limitato la capacità delle agenzie
di stampa palestinesi di raggiungere il pubblico durante la guerra tra Israele e
Gaza.
In un'analisi completa dei dati di Facebook, Bbc ha scoperto che le redazioni
nei territori palestinesi (a Gaza e in Cisgiordania) hanno subito un forte calo
del coinvolgimento del pubblico dall'ottobre 2023.
Nel corso dell'ultimo anno, i giornalisti palestinesi hanno espresso il timore
che i loro contenuti online siano stati sottoposti allo shadow ban da parte di
Meta, ovvero che il numero di persone che li visualizzano sia stato limitato.
Meta è stata già in passato accusata dai palestinesi e dai gruppi per i diritti
umani di non aver moderato equamente l'attività online.
Un rapporto indipendente del 2021 commissionato dall'azienda ha affermato che
ciò non era intenzionale, ma dovuto alla mancanza di competenze di lingua araba
tra i moderatori. Parole e frasi venivano interpretate come offensive o
violente, quando in realtà erano innocue.
Rispondendo alla ricerca della BBC, Meta ha ammesso di aver adottato "misure
temporanee sui prodotti e sulle politiche" nell'ottobre 2023, per affrontare una
sfida nel bilanciare il diritto alla libertà di parola con il fatto che Hamas
era sanzionato dagli Stati Uniti e allo stesso tempo considerato
un'organizzazione pericolosa dalle politiche dello stesso Meta.
Qui la notizia completa sul sito della BBC.
Puntata di domenica 8 dicembre. La prima parte della puntata è dedicata alle
variegate malefatte dei soliti noti: Google e Meta.
Prima parliamo della situazione di Google con l'antitrust, che vede avvicinarsi
il verdetto anche per quanto riguarda il settore pubblicità. Avevamo già parlato
della questione del motore di ricerca, ma questa è un'altra storia.
Passiamo poi ai legami tra grandi aziende e militarismo:
* Google continua a negare i suoi rapporti con l'apparato militare israeliano,
ma i dati sono sempre più chiari
* Meta si lancia apertamente nelle applicazioni militari dell'intelligenza
artificiale generativa
* Hannah Byrne ha lavorato per anni nel gruppo "antiterrorismo e organizzazioni
pericolose", si è licenziata nel 2023, e racconta alcuni dei motivi per cui
crede che la selezione dei contenuti fatta da Meta sia sbagliata fin dalla
radice
Chiudiamo infine rimandando un audio andato in onda recentemente su Data Center,
consumo di energia e di acqua.
Ascolta l'audio sul sito di Radio Onda Rossa
Un breve documentario di Al Jazeera.
Meta ha un problema con la Palestina. Se usate Facebook o Instagram,
probabilmente avete visto voi stessi la censura. Dena Takruri scopre una cultura
interna di censura, intimidazione e paura all'interno di Meta, la società madre
di Instagram e Facebook.
Parla con i dipendenti di Meta che hanno cercato di risolvere il problema o di
far sentire la propria voce e che hanno detto di essere stati messi a tacere o
addirittura licenziati. L'autrice indaga anche sui profondi legami dei leader di
Meta con Israele, che potrebbero spiegare perché Meta sopprime e censura i
contenuti palestinesi per miliardi di utenti in tutto il mondo.
L’infrastruttura grazie alla quale miliardi di persone comunicano realizza i due
sogni del potere: sapere chi parla con chi e influenzare le conversazioni
L’arresto in Francia del fondatore di Telegram sta provocando forti reazioni,
anche a livello politico. Come però già in casi precedenti, basti pensare alle
controversie relative a Facebook o a TikTok, le polemiche contingenti rischiano
di oscurare le questioni strutturali di fondo. Si tende a dimenticare, infatti,
che le tecnologie della comunicazione sono sempre state cruciali strumenti di
potere e quindi sono sempre state – e oggi, più che mai, sono – tecnologie
intrinsecamente politiche. Chi comunica con chi, quando, con quale frequenza, di
che cosa e in quali circostanze sono informazioni che il potere – nelle sue
varie forme e articolazioni, sia pubbliche, sia private – ha sempre desiderato
possedere.
Inoltre, il potere ha sempre desiderato controllare il più possibile il flusso
di informazioni che in qualche modo potevano influenzarne l’azione o intaccarne
la legittimità. Due pulsioni, quella di tutto conoscere e quella di tutto
controllare, rese entrambe ancora più intense in periodi di guerra o, comunque,
di tensioni politico-sociali.
Leggi l'articolo di De Martin su "Il Manifesto"
La Francia ha arrestato Pavel Durov, fondatore di Telegram, ma allo stato delle
norme e della giurisprudenza sembra impossibile che in Europa il gestore di un
servizio digitale globale possa essere considerato concorrente in possibili
reati compiuti dagli utenti della piattaforma, al punto di subire un ordine di
custodia cautelare per il fondatore.
In che misura il gestore di un servizio di messaggistica istantanea può essere
considerato concorrente in possibili reati compiuti dagli utenti della
piattaforma, al punto di subire un ordine di custodia cautelare per il
fondatore?
Attenzione che la responsabilità penale è personale, e per poter concorrere in
un reato occorre la coscienza e volontà di commettere un reato, anche se sotto
forma di una condotta agevolativa, non basta ipotizzare che attraverso il
servizio di messaggistica che ha milioni di utenti, possano essere compiuti
degli illeciti dai singoli utenti.
leggi l'articolo
Per indebolire un giornale online basta renderlo invisibile. Il DDoS è uno
strumento economico per raggiungere l’obiettivo. Per difendersi servono reti di
relazioni e peso specifico. E qui sta parte del problema
Per quasi due settimane, dal 5 al 18 luglio, IrpiMedia non è stata raggiungibile
ai suoi lettori a causa di un attacco informatico. In gergo si parla di DDoS,
distributed denial of service, ovvero di quella tecnica che prevede l’impiego di
una complessa rete composta da migliaia di computer o server, impegnati a
collegarsi contemporaneamente a un unico sito Internet in modo da mandarlo in
crash e renderlo inaccessibile a chiunque.
È quanto accaduto proprio a noi, che siamo stati bersaglio di una quantità
sproporzionata di connessioni per settimane, arrivata a picchi di 26 milioni di
tentativi di accesso in 24 ore, rispetto alle decine di migliaia alle quali
siamo abituati.
In parole povere, qualcuno ha deciso di spendere tempo e soldi per impedirci di
restare online e, conseguentemente, per impedire a voi di leggerci.
Leggi la storia completa
Stati uniti. Su Instagram, Threads, e presto su Facebook gli utenti non vedranno
più i post "problematici" per la piattaforma
In un post pubblicato sul proprio blog all’inizio di febbraio, Meta, la
compagnia di Facebook e Instagram, aveva annunciato l’intenzione di rimuovere i
contenuti politici dalle raccomandazioni che arrivano quando si usano Instagram
e Threads. All’epoca, la società spiegò questa decisione affermando di non
volersi intromettere tra gli utenti e i post che vedono, ma di non volere
«nemmeno consigliare contenuti politici da account che non segui». Di questa
mossa non si è più parlato fino a due giorni fa, ora, con le elezioni che si
avvicinano e la campagna elettorale che entra sempre più nel vivo. Senza nemmeno
avvisare gli utenti della modifica, questa funzionalità è stata ufficialmente
implementata, per cui se già si sta seguendo l’account di qualcuno si vedono i
suoi contenuti normalmente, ma se non si è un follower di quell’account non si
vedranno più i suoi contenuti che contengano riferimenti “politici”.
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