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“Finirò per svelare i miei segreti amori”. Rassegna di poetesse giapponesi
Della poesia giapponese sorprende il contrasto senza mediazioni. Ciò che è lieve – il più misero sussulto del cuore – è in grado di flettere un astro, di fendere una montagna. Il velo nasconde una tigre; il cuore remissivo, devoto agli stracci, estrae da sé un ruggito. Allo stesso modo: che differenza c’è tra il vento che scuote l’erba e la spada che in frusciando ti decapita?  Che violenza l’haiku: poesia-libellula, che è come l’ultimo respiro. Rivelazione che resta nella cruna dell’orecchio; si cammina a piedi scalzi. Povertà di parole che rende angusto l’accesso, fa esplodere all’infinito la possibilità delle interpretazioni.   Se poi si parla di poesia giapponese scritta da donne è come se il contrasto si esasperasse. Appena letti, i versi paiono sparire, come neve tra le mani; allo stesso tempo, permangono imperituri, come il marmo – ogni poesia è un compito da adempiere. Imperiale è la presenza femminile nel canone nipponico: geishe, cortigiane, femmine relegate nell’ombra, nella clausura del verbo; sono le donne – da Murasaki Shikibu e Sei Shōnagon in poi, fino a Yosano Akiko e a Fumiko Enchi – ad aver forgiato la letteratura di laggiù. Gioco d’astuzia tra i paraventi, sortilegio di una lingua che fu labirinto e laboratorio. Alla legge, un legiferare tra i pettegolezzi.  Nel 1977 Kenneth Rexroth, l’intrepido poeta statunitense, raccoglie come Woman Poets of Japan, un’antologia di settantasette poetesse giapponesi, dall’epoca classica – la principessa Nukata, vissuta nel VII secolo – ai nostri giorni (la più giovane installata nel libro, Mieko Kanai, è nata nel 1947). È un lavoro a suo modo straordinario – di cui in calce abbiamo riferito alcuni estratti – edito da New Directions e frutto di una antica consuetudine di Rexroth con la poesia estremorientale: nel 1955, sempre per New Directions, aveva curato One Hundred Poems from the Japanese. Poeta estroso, dal polimorfico ingegno, è una gioia leggere Rexroth: si è occupato, con impareggiabile maestria e ‘orecchio’, di poeti dell’antica Cina e della Grecia classica, di William Blake e di Van Gogh, di gnosticismo e di Matteo Ricci, il gesuita che fu missionario in Cina nel XVI secolo. In qualche modo – in spregio agli accademismi, con l’arguzia dell’avventuriero – Rexroth ha continuato l’opera avventuriera inaugurata da Ezra Pound. In Italia, tolto il mio amico Flavio Santi – che di lui ha tradotto, nel 1999, per Marcos y Marcos, Su quale pianeta –, Rexroth fa quasi la parte del paria; InternoPoesia ha da poco pubblicato come Lasciati celebrare una selezione di poesie, a cura di Francesco Dalessandro: speriamo sia l’inizio della rivalutazione di questo poeta ‘totale’.  In un saggio del 1958 – The Poetry of the Far East in a General Education – Rexroth lamentava la mancanza di cultura poetica in generale e di quella orientale in particolare nei vasti programmi scolastici di educazione delle masse.  > “È curioso che l’intero programma umanistico diffuso nei nostri giorni ignori > la letteratura orientale e la poesia lirica. L’unica poesia che il nostro > sedicente risveglio umanistico sembra ammettere è quella epica e drammatica. > Nulla potrebbe differenziarci di più dai paesi dell’Estremo Oriente dove, per > tradizione, la poesia ha un’importanza primaria nel curriculum di un uomo > colto. Insieme ai trattati filosofici e a quelli che riguardano etica e > sociologia, la poesia è la base dell’educazione classica. Chiunque legga, > oggi, i quotidiani giapponesi si stupirà nell’osservare che ai concorsi di > poesia partecipino banchieri e statisti, diplomatici, generali e membri della > famiglia reale. D’altronde, funzionari di corte, imperatori e maestri della > guerra sono tra i maggiori poeti del canone giapponese e cinese”.  Al di là di questo aspetto – che rientra nella dizione: ‘poetica della politica’ – Rexroth fa un’osservazione non dissimile da quella che Iosif Brodskij avrebbe fatto dal pulpito del Nobel trent’anni dopo: > “Il valore della poesia nell’educazione risiede in questo: aiuta a rispondere > alla vita in maniera più profonda, vasta, intensa. È la poesia a renderci > uomini completi, compiuti. Ciò non significa che saremo uomini migliori – > questo dipende soltanto da noi, è ovvio – ma che, avendo familiarità con la > poesia, sapremo affrontare la vita e i suoi problemi, le relazioni con le > persone e le cose, in maniera universale”.  La pratica della traduzione è disciplina ‘marziale’ necessaria per affinare il proprio estro, estromettendo gli eccitamenti del mero io:  > “Quanto si perde nella traduzione dell’originale orientale? In un certo senso, > tutto; in un altro, nulla. Il lavoro di traduzione della poesia cinese e > giapponese, proprio perché si tratta di poesia per lo più intraducibile, ti > obbliga a essere un poeta pienamente occidentale. Eppure: ti purifica dai vizi > della poesia occidentale. Realizza in un colpo solo i vari programmi delle più > svariate rivoluzioni poetiche del XX secolo: i manifesti imagisti e > oggettivisti e così via devono essere introiettati per tradurre in maniera > decente la poesia estremorientale. Non puoi tradurre con superficialità la > poesia giapponese: è troppo sottile, degenererebbe nel più sdolcinato > sentimentalismo”. In Rexroth, la pratica del tradurre è una specie di via spirituale, di devozione alla ferocia: > “Una sensibilità abissale verso i moti dell’uomo, i suoi problemi morali, > sociali, spirituali, connessi all’universo vivente, sono il messaggio > fondamentale della poesia dell’Estremo Oriente. Questo costringe il > traduttore, se non vuole svanire in versi pseudo-immaginifici e tediosi, in > fondo banali, ad approfondire le proprie radici, a raccogliersi nelle proprie > tradizioni umane, ad avvicinarsi agli altri nei loro fondamenti, a tutti gli > uomini come parte della vita universale. Troppo spesso in Occidente tendiamo a > crederci soli di fronte a un cosmo inanimato, insensato, neutro. Da qui, > l’esistenzialismo e l’idea di un’anima individuale al cospetto di un creatore > solitario (i teologi esistenziali) o di fronte al nulla (Sartre & la sua > banda). Il dilemma esistenziale non esiste nella poesia di Tu Fu come nella > poesia di Francis Jammes. L’uomo è a casa sua in questo mondo. Dal momento che > ci impegniamo a rendere questo pianeta sempre meno simile a una casa, > qualsiasi propedeutica che ci faccia sentire bene al mondo, che nomini le cose > nel loro umano essere, ha un valore inestimabile”.  Non so quanto sia certo di questo irenismo – che è poi più che altro un eroismo. Di certo, vorrei essere al cospetto di una di queste poetesse giapponesi vissute una manciata di secoli fa: sussurrare parole artigliate contro i paraventi, confinarmi tra versi cifrati, dare fioritura alla notte, chiamare civetta l’ultima lanterna, avidità la luna che come untore appesta il nostro dire, il nostro ardore.  *** Poetesse giapponesi Imperatrice Jitō (645 – 703) Sfiorisce primavera forse è già estate: bianche  lenzuola al sole presso  la Collina del Profumo Celeste. * Per la morte dell’imperatore Tenmu Allora anche il fuoco può essere soffocato e recluso in una cassa. Per questo, ora voglio incontrare il mio signore morto da poco.  ** Kasa no Iratsume (VIII secolo) I celesti sono irragionevoli: davvero potrei morire senza incontrarti mai più? A sera il dolore mi travolge: vedo un fantasma che dice le stesse cose che dicevi tu. ** Shirome (X secolo) Se fossi certa di vivere per sempre non piangerei ogni volta che mi separo da te.  ** Fujiwara no Michitsuna no Haha (935 – 995) Sospiro, non riesco a dormire: dimmi quando piomberà l’alba. Quando soffia il vento lo interrogo: non ha responsi ma dilania le ragnatele che accecano il cielo.  ** Akazome Emon (956 ca. – 1041) Sarebbe stato meglio dormire e disertare la veglia piuttosto che attenderlo inutilmente fino alla fine del plenilunio. ** Ise no Taifu (989 – 1060) Nel lago imperiale l’acqua è limpida da così tante generazioni che puoi riconoscere la radice sul fondo: sono grata di essere stata scelta nonostante le mie umili origini.  * Solo la luna del mattino si annuncia nella mia stanza: nessun amante in vista.  ** Dama Sagami (XI secolo) La notte è ferita dai lampi, ma dov’è quel miraggio che ho appena  intravisto, di schiena? ** Principessa Shikishi (1149 – 1201) La vita è un filo e attraversa le mie gioie – spezzati! spezzati ora! La debolezza mi rende docile: se vivrò ancora finirò per svelare i miei  segreti amori.  ** Yokube (XII secolo) Ti sei rasato il cranio: come posso compatirti? Le corde del tuo cuore sono intoccabili come quelle di un arco: seguendo la tua Via mi sono fatta monaca.  ** Abutsu-Ni (1209 – 1283) Il mio cuore è nascosto è come il più profondo burrone della montagna: forse una lucciola si è accesa.  ** Kawai Chigetsu-Ni (1632 – 1736) Locuste  cinguettano nelle maniche  di uno spaventapasseri. * I gatti amoreggiano nel tempio ma se un uomo e una donna si accoppiassero in questo luogo, la gente urlerebbe allo scandalo.  ** Fukuda Chiyo-Ni (1703 – 1775) Cacciatore di libellule: fin dove hai vagato oggi? * Cuculo! Cuculo! Mentre meditavo su questo tema si alzò il sole.  ** Enomoto Seifu-Jo (1731 – 1814) Dormono tutti: nulla si frappone fra me e la luna. * Yosano Akiko (1878 – 1942) Speri sempre, mio cuore: per questo sempre accendo  una lampada al crepuscolo.  * Come il sole è il mio cuore: l’oscurità lo annienta la pioggia lo divora il vento lo bastona.  ** Chino Masako (1880 – 1946) Ho osato rivelarti il mio amore: ora mi nascondo nella luna è notte, è primavera. ** Baba Akiko (1928) Non conosco madre non sarò mai madre. Sorridiamo al sole io e una bambina senza volto.  * Autunno: le parole fanno il rumore dell’ascia – ho un demone dentro:  vuole alzarsi, andarsene.  ** Mitsuhashi Takajo (1899 – 1972) Cantano gli uccelli: i morti vagano sulle pianure del mare.  ** Yagi Mikajo (1924) L’utero del bosco è nel fiore: le sue branchie respirano.  * Le gambe di un maratoneta si aprono e chiudono come monaci sotto una cascata.  L'articolo “Finirò per svelare i miei segreti amori”. Rassegna di poetesse giapponesi proviene da Pangea.
October 25, 2025 / Pangea