“Finirò per svelare i miei segreti amori”. Rassegna di poetesse giapponesi

Pangea - Saturday, October 25, 2025

Della poesia giapponese sorprende il contrasto senza mediazioni. Ciò che è lieve – il più misero sussulto del cuore – è in grado di flettere un astro, di fendere una montagna. Il velo nasconde una tigre; il cuore remissivo, devoto agli stracci, estrae da sé un ruggito. Allo stesso modo: che differenza c’è tra il vento che scuote l’erba e la spada che in frusciando ti decapita? 

Che violenza l’haiku: poesia-libellula, che è come l’ultimo respiro. Rivelazione che resta nella cruna dell’orecchio; si cammina a piedi scalzi. Povertà di parole che rende angusto l’accesso, fa esplodere all’infinito la possibilità delle interpretazioni.  

Se poi si parla di poesia giapponese scritta da donne è come se il contrasto si esasperasse. Appena letti, i versi paiono sparire, come neve tra le mani; allo stesso tempo, permangono imperituri, come il marmo – ogni poesia è un compito da adempiere. Imperiale è la presenza femminile nel canone nipponico: geishe, cortigiane, femmine relegate nell’ombra, nella clausura del verbo; sono le donne – da Murasaki Shikibu e Sei Shōnagon in poi, fino a Yosano Akiko e a Fumiko Enchi – ad aver forgiato la letteratura di laggiù. Gioco d’astuzia tra i paraventi, sortilegio di una lingua che fu labirinto e laboratorio. Alla legge, un legiferare tra i pettegolezzi. 

Nel 1977 Kenneth Rexroth, l’intrepido poeta statunitense, raccoglie come Woman Poets of Japan, un’antologia di settantasette poetesse giapponesi, dall’epoca classica – la principessa Nukata, vissuta nel VII secolo – ai nostri giorni (la più giovane installata nel libro, Mieko Kanai, è nata nel 1947). È un lavoro a suo modo straordinario – di cui in calce abbiamo riferito alcuni estratti – edito da New Directions e frutto di una antica consuetudine di Rexroth con la poesia estremorientale: nel 1955, sempre per New Directions, aveva curato One Hundred Poems from the Japanese. Poeta estroso, dal polimorfico ingegno, è una gioia leggere Rexroth: si è occupato, con impareggiabile maestria e ‘orecchio’, di poeti dell’antica Cina e della Grecia classica, di William Blake e di Van Gogh, di gnosticismo e di Matteo Ricci, il gesuita che fu missionario in Cina nel XVI secolo. In qualche modo – in spregio agli accademismi, con l’arguzia dell’avventuriero – Rexroth ha continuato l’opera avventuriera inaugurata da Ezra Pound. In Italia, tolto il mio amico Flavio Santi – che di lui ha tradotto, nel 1999, per Marcos y Marcos, Su quale pianeta –, Rexroth fa quasi la parte del paria; InternoPoesia ha da poco pubblicato come Lasciati celebrare una selezione di poesie, a cura di Francesco Dalessandro: speriamo sia l’inizio della rivalutazione di questo poeta ‘totale’. 

In un saggio del 1958 – The Poetry of the Far East in a General Education – Rexroth lamentava la mancanza di cultura poetica in generale e di quella orientale in particolare nei vasti programmi scolastici di educazione delle masse. 

“È curioso che l’intero programma umanistico diffuso nei nostri giorni ignori la letteratura orientale e la poesia lirica. L’unica poesia che il nostro sedicente risveglio umanistico sembra ammettere è quella epica e drammatica. Nulla potrebbe differenziarci di più dai paesi dell’Estremo Oriente dove, per tradizione, la poesia ha un’importanza primaria nel curriculum di un uomo colto. Insieme ai trattati filosofici e a quelli che riguardano etica e sociologia, la poesia è la base dell’educazione classica. Chiunque legga, oggi, i quotidiani giapponesi si stupirà nell’osservare che ai concorsi di poesia partecipino banchieri e statisti, diplomatici, generali e membri della famiglia reale. D’altronde, funzionari di corte, imperatori e maestri della guerra sono tra i maggiori poeti del canone giapponese e cinese”. 

Al di là di questo aspetto – che rientra nella dizione: ‘poetica della politica’ – Rexroth fa un’osservazione non dissimile da quella che Iosif Brodskij avrebbe fatto dal pulpito del Nobel trent’anni dopo:

“Il valore della poesia nell’educazione risiede in questo: aiuta a rispondere alla vita in maniera più profonda, vasta, intensa. È la poesia a renderci uomini completi, compiuti. Ciò non significa che saremo uomini migliori – questo dipende soltanto da noi, è ovvio – ma che, avendo familiarità con la poesia, sapremo affrontare la vita e i suoi problemi, le relazioni con le persone e le cose, in maniera universale”. 

La pratica della traduzione è disciplina ‘marziale’ necessaria per affinare il proprio estro, estromettendo gli eccitamenti del mero io: 

“Quanto si perde nella traduzione dell’originale orientale? In un certo senso, tutto; in un altro, nulla. Il lavoro di traduzione della poesia cinese e giapponese, proprio perché si tratta di poesia per lo più intraducibile, ti obbliga a essere un poeta pienamente occidentale. Eppure: ti purifica dai vizi della poesia occidentale. Realizza in un colpo solo i vari programmi delle più svariate rivoluzioni poetiche del XX secolo: i manifesti imagisti e oggettivisti e così via devono essere introiettati per tradurre in maniera decente la poesia estremorientale. Non puoi tradurre con superficialità la poesia giapponese: è troppo sottile, degenererebbe nel più sdolcinato sentimentalismo”.

In Rexroth, la pratica del tradurre è una specie di via spirituale, di devozione alla ferocia:

“Una sensibilità abissale verso i moti dell’uomo, i suoi problemi morali, sociali, spirituali, connessi all’universo vivente, sono il messaggio fondamentale della poesia dell’Estremo Oriente. Questo costringe il traduttore, se non vuole svanire in versi pseudo-immaginifici e tediosi, in fondo banali, ad approfondire le proprie radici, a raccogliersi nelle proprie tradizioni umane, ad avvicinarsi agli altri nei loro fondamenti, a tutti gli uomini come parte della vita universale. Troppo spesso in Occidente tendiamo a crederci soli di fronte a un cosmo inanimato, insensato, neutro. Da qui, l’esistenzialismo e l’idea di un’anima individuale al cospetto di un creatore solitario (i teologi esistenziali) o di fronte al nulla (Sartre & la sua banda). Il dilemma esistenziale non esiste nella poesia di Tu Fu come nella poesia di Francis Jammes. L’uomo è a casa sua in questo mondo. Dal momento che ci impegniamo a rendere questo pianeta sempre meno simile a una casa, qualsiasi propedeutica che ci faccia sentire bene al mondo, che nomini le cose nel loro umano essere, ha un valore inestimabile”. 

Non so quanto sia certo di questo irenismo – che è poi più che altro un eroismo. Di certo, vorrei essere al cospetto di una di queste poetesse giapponesi vissute una manciata di secoli fa: sussurrare parole artigliate contro i paraventi, confinarmi tra versi cifrati, dare fioritura alla notte, chiamare civetta l’ultima lanterna, avidità la luna che come untore appesta il nostro dire, il nostro ardore. 

***

Poetesse giapponesi

Imperatrice Jitō

(645 – 703)

Sfiorisce primavera
forse è già estate: bianche 
lenzuola al sole presso 
la Collina del Profumo Celeste.

*

Per la morte dell’imperatore Tenmu

Allora anche il fuoco
può essere soffocato
e recluso in una cassa.
Per questo, ora voglio
incontrare il mio signore
morto da poco. 

**

Kasa no Iratsume

(VIII secolo)

I celesti sono irragionevoli:
davvero potrei morire
senza incontrarti mai più?

A sera il dolore mi travolge:
vedo un fantasma che dice
le stesse cose che dicevi tu.

**

Shirome

(X secolo)

Se fossi certa
di vivere per sempre
non piangerei ogni volta
che mi separo da te. 

**

Fujiwara no Michitsuna no Haha

(935 – 995)

Sospiro, non riesco a dormire:
dimmi quando piomberà l’alba.

Quando soffia il vento
lo interrogo: non ha responsi
ma dilania le ragnatele
che accecano il cielo. 

**

Akazome Emon

(956 ca. – 1041)

Sarebbe stato meglio
dormire e disertare la veglia
piuttosto che attenderlo
inutilmente fino alla fine
del plenilunio.

**

Ise no Taifu

(989 – 1060)

Nel lago imperiale l’acqua è limpida
da così tante generazioni che puoi
riconoscere la radice sul fondo:
sono grata di essere stata scelta
nonostante le mie umili origini. 

*

Solo la luna del mattino
si annuncia nella mia stanza:
nessun amante in vista. 

**

Dama Sagami

(XI secolo)

La notte è ferita
dai lampi, ma dov’è
quel miraggio
che ho appena 
intravisto, di schiena?

**

Principessa Shikishi

(1149 – 1201)

La vita è un filo e attraversa
le mie gioie – spezzati!
spezzati ora!
La debolezza mi rende
docile: se vivrò ancora
finirò per svelare i miei 
segreti amori. 

**

Yokube

(XII secolo)

Ti sei rasato il cranio:
come posso compatirti?
Le corde del tuo cuore
sono intoccabili
come quelle di un arco:
seguendo la tua Via
mi sono fatta monaca. 

**

Abutsu-Ni

(1209 – 1283)

Il mio cuore è nascosto
è come il più profondo burrone
della montagna: forse una lucciola
si è accesa. 

**

Kawai Chigetsu-Ni

(1632 – 1736)

Locuste 
cinguettano nelle maniche 
di uno spaventapasseri.

*

I gatti amoreggiano nel tempio
ma se un uomo e una donna si accoppiassero
in questo luogo, la gente urlerebbe allo scandalo. 

**

Fukuda Chiyo-Ni

(1703 – 1775)

Cacciatore di libellule:
fin dove hai
vagato oggi?

*

Cuculo!
Cuculo!
Mentre meditavo
su questo tema
si alzò il sole. 

**

Enomoto Seifu-Jo

(1731 – 1814)

Dormono tutti:
nulla si frappone
fra me e la luna.

*

Yosano Akiko

(1878 – 1942)

Speri sempre, mio cuore:
per questo sempre accendo 
una lampada al crepuscolo. 

*
Come il sole è il mio cuore:
l’oscurità lo annienta
la pioggia lo divora
il vento lo bastona. 

**

Chino Masako

(1880 – 1946)

Ho osato rivelarti
il mio amore: ora
mi nascondo nella luna
è notte, è primavera.

**

Baba Akiko

(1928)

Non conosco madre
non sarò mai madre.
Sorridiamo al sole
io e una bambina senza volto. 

*

Autunno: le parole fanno il rumore
dell’ascia – ho un demone dentro: 
vuole alzarsi, andarsene. 

**

Mitsuhashi Takajo

(1899 – 1972)

Cantano gli uccelli:
i morti vagano
sulle pianure del mare. 

**

Yagi Mikajo

(1924)

L’utero del bosco
è nel fiore: le sue
branchie respirano. 

*

Le gambe di un maratoneta
si aprono e chiudono come
monaci sotto una cascata. 

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