Dev’esserci, nella biografia di ogni poeta, un momento in cui la folgore cade
senza preavviso. L’istante in cui la poesia si incista nel destino: le stimmate
di una vocazione che è incontro fatale tra telos e contingenza.
Per Nicolas Bouvier, questo accade nella valle di Erzurum, quando l’alba si leva
verso il Caucaso, annunciata dagli occhi fosforescenti di una volpe:
> “in fin dei conti, ciò che costituisce l’ossatura dell’esistenza, non è né la
> famiglia, né la carriera, né ciò che gli altri diranno o penseranno di voi, ma
> alcuni istanti di questo tipo, sollevati da una levitazione ancora più serena
> di quella dell’amore, e che la vita ci distribuisce con parsimonia a misura
> del nostro debole cuore”.
*
La storia è nota, l’esordio ha quasi i contorni della leggenda. È il 1953.
Nicolas Bouvier, appena terminati gli studi universitari, parte dalla Svizzera a
bordo di una Topolino per raggiungere l’amico Thierry a Belgrado. Insieme, in
una sorta di sodalizio creativo e iniziatico, si mettono in viaggio verso est,
con l’intento di arrivare fino in India. Attraversano la Turchia, l’Iran, il
Pakistan e l’Afghanistan, spingendosi fino alle soglie del Passo Khyber.
Quando Thierry fa ritorno in Europa, Nicolas prosegue da solo. Si dirige in Sri
Lanka, dove – preda di un delirio febbrile e visionario – scrive Il Pesce
Scorpione. Raggiunge poi il Giappone, che agisce su di lui come un calmante
spirituale e gli ispira alcune delle pagine più intense e limpide della sua
opera. Il resto è un intreccio di ritorni e nuove partenze, un continuo
attraversamento delle stesse rotte e l’invenzione di itinerari futuri. Ma il
Passo Khyber, dove La polvere del mondo si arresta, rappresenta nell’itinerario
creativo di Nicolas Bouvier un confine simbolico. Oltre quell’imponente sistema
montuoso si apre un nuovo orizzonte: quello della creazione e della riflessione
poetica.
*
Bouvier si accosta al linguaggio della poesia relativamente tardi, a 35 anni.
Come racconta lui stesso in Routes et déroutes, la sua prima composizione risale
al soggiorno a Tabriz, benché la maggior parte dei versi venga scritta in
Giappone – il paese che, più di ogni altro, con la sua abbagliante sintesi di
ossimori, gli appare come una sorgente inesauribile di ispirazione. Non è un
caso, osserva, che proprio nel Sol Levante sia nata la forma dell’haiku, così
perfetta nella sua studiata semplicità. All’origine della poesia c’è il soffio
che riempie la cassa toracica, il daimon che piega i polsi e getta l’amo nei
fiumi della creazione. Scrivere è un atto da rabdomanti, misteriosa
trasmutazione alchemica. La poesia, dice,
> “era l’unico legame che mi restava con le parole, l’ultima passerella”.
Ma non basta. Il dettato poetico esige rigore: una lealtà da asceta, un lavoro
in sottrazione che può durare mesi, anni, persino decenni. A colpi d’ascia, fino
a raggiungere il cuore dorato del metallo – là dove si fronteggia la frontiera
del silenzio.
*
Nel 2012 esce la versione italiana delle poesie di Bouvier, curata da Luigi
Marfè, acuto indagatore del rapporto tra letteratura e viaggio. Il titolo della
raccolta – Il doppio sguardo. Le dehors et le dedans – sceglie con l’aggiunta
italiana una resa interpretativa, non letterale. Il doppio sguardo richiama
infatti l’idea di una visione sdoppiata. Eppure lo sguardo di Bouvier sulle cose
mi sembra piuttosto di natura “taoista”: non duplice, ma unitario nel suo
accogliere il dentro e il fuori, specchio e fiamma di estremi che si
compenetrano. Ecco che così dehors e dedans diventano due volti della stessa
medaglia. Il fuori: il mondo nel quale siamo immersi, colto nella sua energia
elementare, evocata da ciò che potremmo definire correlativi oggettivi. Il
dentro: un’esplorazione implacabile e dimessa di sé, alla ricerca di accorati
lampeggiamenti interiori.
*
Le poesie di Bouvier sono un irrimediabile ma necessario dissolvimento dell’io
nella pienezza nuda della natura. Voglio dire: come gettare l’io in pasto ai
lupi, seppellirlo sotto il candore della neve e trasfigurarlo nella notturna
luce delle costellazioni.
Piuttosto: viaggiare per addestrarsi alla solitudine ferale, al silenzio
astrale, agli esordi mai approfonditi. Apprendere a fare della mappa geografica
della propria vita il collo dell’imbuto dove smussare e levigare gli angoli
taglienti dell’autobiografia. Ritrovarsi sdraiati, come nel sogno di Kafka, alla
stessa altezza dello sguardo degli animali. Indagare i miti che da millenni
incendiano covoni di grano e spremono il succo dalle vigne.
Il viaggio è la forma più elegante e raffinata per congedarsi dalla tentazione
dell’io. Bisogna annientare l’idea del viaggio come carezza esotica, spogliarlo
di ogni orpello, liberarlo da ogni illusione di spensierata evasione. Tutto,
nelle poesie di Bouvier, parla il linguaggio di una scabra essenzialità, fatta
di elementi naturali primari, di superfici rocciose rastremate dalla salsedine,
di colori quasi chagalliani: luoghi e parole tra cui si avverta il passaggio
dell’aria, come all’inizio dei tempi.
*
La citazione di un anonimo cinese posta in esergo alla prima sezione della
raccolta conferisce a quest’ultima una tonalità poetica del tutto particolare.
> “Domani, se qualcuno si preoccupa del nostro amico d’oltremare,
> dite che, posati i sandali, è tornato a casa a piedi nudi”.
E in effetti i versi sono sospesi in una levità quasi aerea, dove la scelta
delle parole e l’evocazione delle immagini sono al tempo stesso un’aspirazione
alla leggerezza e un richiamo alla condizione terrestre. Nuvole che ammantano il
cielo, piogge che strizzano lembi di azzurro, fumi che si levano da spiagge
nere. E ancora: mormorii, cantilene, sussurri e bozzoli che volteggiano
nell’aria. Ma anche fieri cavalli di concreta carnalità, pozzanghere e campi
disertati, stazioni di treni e mercati orientali.
Personaggi, luoghi e scenari naturali costituiscono il serbatoio da cui il poeta
attinge per le sue composizioni poetiche. Molti degli episodi che danno vita
alle poesie si ritrovano anche nelle opere in prosa di Bouvier. A ben vedere, i
temi ricorrenti nello scrittore svizzero sono gli stessi: hanno a che fare con
la sciarada del viaggio, con la consapevolezza del tempo che passa, con
l’avvistamento dell’ultima dogana, la morte. Ciò che colpisce, nell’iterazione
di queste immagini, è che il dettato poetico di Bouvier, pur recalcitrante
all’io, si declina infine in una forma di poesia perfettamente classica, di
stampo lirico-elegiaco.
La poesia di Bouvier è pura epifania: un’improvvisa rivelazione suggerita da
un’immagine, una visione, un suono. Può accadere contemplando un tramonto
iraniano, osservando dei pellegrini in cammino dal Tibet verso l’India, o
ascoltando un motivo jazz suonato per strada a New York. Ciò che importa è che
sempre, a un certo momento, il tempo sembra raggrumarsi: quando il vasto e
misterioso respiro del mondo spira nel dettato poetico e l’animo vi aderisce
intimamente, in un attimo di agnizione -dissolvendosi completamente nello
sguardo muto dell’universo.
Nella seconda parte della raccolta, Le dedans, assistiamo all’irruzione
del tu, come se l’interiorità non potesse prescindere da un’intimità
relazionale, oltre che grammaticale. Le tre composizioni poetiche del ciclo Love
Song sembrano accendere schegge di lirismo. In realtà, ogni picco di emozione
viene trattenuto, smagato. Come il viaggio e la scrittura, anche l’amore spoglia
l’io da ogni scoria. Rimane sempre, a sigillare tutto, una sorta di misterioso
ritegno:
> “ma che la neve caduta questa notte
> sia come un dito sulla tua bocca”
*
Nicolas Bouvier aveva in mente di scrivere un ciclo di libri intitolato Livre
des Merveilles. Vi avrebbe dovuto appartenere anche Le vide et le plein, forse
l’opera più intensa del Bouvier prosatore, dove la scrittura aderisce con rara
levità alle asperità e ai declivi dell’anima. Livre des merveilles: un titolo
che richiama alla mente i libri di viaggio medievali, i mirabilia, popolati da
tempeste procellose, mostri marini e apparizioni miracolose; o che evoca le
peregrinazioni cartografate da celebri mercanti veneziani. Tuttavia, è bene non
divagare. Nei racconti cinesi, il pittore delle nuvole, dopo aver dato l’ultima
pennellata al suo capolavoro, avvolge i pennelli e li fissa alla cintura, prima
di mettersi in cammino. I manipolatori delle marionette Bunraku, presenti sulla
scena insieme alle loro figure, indossano un cappuccio quando sono ancora
novizi; i maestri, invece, agiscono a volto scoperto: sono diventati a tal punto
il personaggio che animano, da risultare, letteralmente, invisibili allo
sguardo.
Scrivere, come viaggiare, vuol dire scomparire. Scaraventare carta e inchiostro
e fuggire nel caldo ventre della terra.
Lorenzo Giacinto
**
Ulisse
A sud del parapetto,
non c’è più nulla fino alla Terra Antartica.
Leviatani e sirene solcano questi pascoli marini,
questo portolano increspato d’onde,
dove immense porzioni di cielo
si abbattono in scrosci spossati,
senza che Dio stesso
ne sia messo al corrente.
Ogni sera guardi il calice del sole
tuffarsi urlando nel mare a chiazze,
tra gli ammiccamenti dei grossi gatti di bordo
accovacciati tra le gomene.
I pescespada blu sfrecciano davanti alla prua,
come una banda di gioiellieri in fuga.
Sono mesi che non ricevi una lettera,
sei l’ultimo dei paria a bordo di questa nave,
il cuore sfatto, uno straccio di stoppa in mano,
già tutto nero di ricordi.
Ti annulli nel fremito delle eliche,
ascolti l’antico canto del sangue nelle orecchie –
coaguli di sole della memoria,
e l’inventario delle meraviglie,
quando sapevi vivere di poco,
e la vita ti seguiva come uno sciame d’api,
e pagavi, senza mercanteggiare,
il prezzo esorbitante della bellezza.
*
Hira – Mandi
Ultima bottega ancora aperta
nella notte della città –
ghirlande di peperoncini,
samovar e falene,
alone bianco dell’acetilene.
La barba del padrone è tinta
di un rosso birichino.
Tre uomini vestiti di cuoio
sorseggiano il tè versato nei piattini.
Alti zigomi,
che brillano nei volti color rame
sotto la frangia di cappelli informi.
Sono pellegrini del Tibet,
in cammino verso l’India del Gange
per appendere il loro mulinello da preghiera
ai rami del fico del Buddha,
prima di tornare alle loro terre
a fiato corto, a piccoli passi,
attraverso quei confini impraticabili
che passano sopra le nuvole.
Anch’io ho un appuntamento con un albero.
E in ogni caso non c’è più verso di dormire
quando la luna veleggia come una vela gonfia,
così brillante, così veloce,
che persino l’anima ne proietta un’ombra.
*
Love Song III
Quando attizzare le parole per un po’ di colore
non sarà più compito tuo,
quando il rosso del sorbo e le curve delle ragazze
non ti faranno più rimpiangere la tua giovinezza,
quando un nuovo volto, tutto scheggiato d’assenza,
non farà più tremare ciò che credevi solido,
quando il freddo avrà salutato il freddo
e l’oblio dirà addio all’oblio,
quando tutto avrà assunto la silenziosa opacità del
vischio –
quel giorno,
qualcuno ti aspetterà al margine della strada
per dirti che è stato giusto così,
che dovevi concludere il tuo viaggio
senza più nulla,
del tutto disarmato,
allora forse…
ma che la neve caduta questa notte
sia anche come un dito sulla tua bocca.
Nicolas Bouvier
Traduzione di Lorenzo Giacinto
L'articolo Per una poetica della sparizione. Sulla poesia di Nicolas Bouvier
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Nel 1978, per la Christopher’s Books di Santa Barbara, piccola editrice eletta
all’anticonformismo, esce un libro di spregiudicata bellezza. S’intitola The
Love Poems of Marichiko; in copertina spiccano aerei, ermetici calligrammi.
Kenneth Rexroth, il traduttore, ha settantatré anni, è nato tre giorni prima del
Natale del 1905, a South Bend, Indiana. Il padre, venditore di farmaci,
alcolizzato, muore che Kenneth è un ragazzino, nel 1919; la madre se n’era
andata tre anni prima. Cresciuto con gli zii, a Chicago, reso spregiudicato
dalla solitudine, Kenneth a diciannove anni prende la strada, gira il paese in
autostop, si dà a diversi lavori – quello più proficuo sembra essere stato la
guardia forestale. “Trovai lavoro a Marblemount. Zaino in spalla, mi presentai
presso il Forest Service. Mi aprì Tommy Thompson, un tipo meraviglioso. ‘Vieni a
cena con noi. Forse ho qualcosa’. Era uno dei paesaggi più selvaggi degli Stati
Uniti: non sapevo nulla di scienze forestali, non conoscevo le ruvide vertigini
delle montagne. Da bambino, ero stato nelle Alpi. Tommy mi disse di aprire un
sentiero, oltre il bosco, verso il ghiacciaio. Partii con una sega, un’ascia,
cibo nello zaino per una settimana”. Così scrive Kenneth in uno dei suoi reperti
autobiografici; che sono, poi, l’autobiografia di un paese, tra vendemmia di
vento e metropoli nell’urlo.
Fronte ampia, baffi geroglifici, occhi pieni di pietà. Kenneth Rexroth pubblica
il primo libro importante nel 1940, s’intitola In What Hour. Introdotto alla
poesia da Louis Zukofsky, diventerà amico di Lawrence Ferlinghetti. A San
Francisco, il 7 ottobre del 1955, è Rexroth il gran cerimoniere del leggendario
“Six Gallery reading”, quello in cui Allen Ginsberg legge Howl, specie di
Pentecoste dei Beat. Quando qualcuno gli dice di essere stato il profeta dei
Beat, il Giovanni Battista di quella generazione di imbestiati e ‘battuti’,
Rexroth si ribella – li credeva, Kerouac, Ginsberg & Co., tumefatti dalla fama,
affratellati ai santi, in fondo, dei traditori. Lui era rimasto ciò che era: un
uomo docilmente ribelle ai canoni imposti, un anarchico, un ulisside cercatore.
Più prossimo al medianico Ezra Pound che al mediatico ribellismo di
quella generation, Rexroth aveva tracciato da tempo la sua via verso Oriente:
autodidatta, avventuriero dalla mente Bucefalo, per la New Directions aveva
tradotto One Hundred Poems from the Japanese (1955) e One Hundred Poems from the
Chinese (1956).
Implacabile poligrafo, animato da una curiosità, si direbbe, animalesca, Rexroth
ha tradotto García Lorca e Machado, Pierre Reverdy e Antonin Artaud, Basho e
Wang Wei, Saffo e Leopardi (L’infinito attacca così: “This lonely hill has
always/ Been dear to me, and this thicket / Which shuts out most of the final/
Horizon from view…”). Nella prefazione a The Phoenix and the Tortoise (1944)
dichiarò di rifarsi “a fonti ellenistiche, bizantine e tardo romane – e a
Marziale”. La poesia si sviluppava secondo “un più o meno sistematico, più o
meno preciso punto di vista”; il poeta dichiarava il proprio “senso di
disperazione e di abbandono di fronte al collasso di un intero sistema di valori
culturali”. La raccolta era dedicata a David Herbert Lawrence – “morto nel
tentativo di rifondare una famiglia spirituale” – e ad Albert Schweitzer,
“l’uomo che, in questi tempi, ha realizzato il sogno di Leonardo da Vinci –
Leonardo, che morì impotente, lasciando i suoi progetti a metà, che ha
dimostrato che la volontà umana è una porta troppo stretta perché una persona
possa forzarla verso l’universale”.
Infaticabile ‘molestatore’ culturale, nel 1949 Rexroth firma un’antologia che
raduna il meglio dei New British Poets, dedicata, in parti uguali, a James
Laughlin, il suo editore, e, “come sempre”, alla moglie, Marie. Lì, senza tema
di discepoli, sono stivati i poeti che seguono il dominio di Eliot e di W.H.
Auden: George Barker e Hugh Macdiarmid, Lawrence Durrell e David Gascoyne,
Stephen Spender e Denise Levertov. Il cuore dell’antologia è Dylan Thomas (“Non
c’è dubbio che sia lui il giovane poeta più influente che scriva oggi in
Inghilterra. L’unanimità con cui tutti, tranne gli irriducibili stalinisti e i
versificatori domestici, da rivista, lo indicano come il più formidabile
fenomeno della poesia contemporanea è semplicemente sbalorditiva”); mirabili le
pagini introduttive:
> “Dylan Thomas è sfacciato. Non si mostra mai a cuore aperto. Ti prende per il
> collo. Ti incunea il cuore in gola. Ti colpisce il muso con un cuore
> sanguinante e odoroso, un cuore pieno di vermi e di aghi, di nerosangue,
> spinato, il cuore di un lupo mannaro… Dylan Thomas scrive come se non avesse
> mai incontrato essere umano, come se non conoscesse lo spazzolino da denti.
> Non c’è nulla di male in questo. Egli è un capo selvaggio che guida la sua
> spedizione di cacciatori, per fare lo scalpo ai visi pallidi. Appartiene a una
> stirpe di eroi”.
In fondo estraneo ai patronimici della fama, ai club, alle combine dei premi,
spesso disperso in piccole edizioni d’arte, Rexroth ha scritto di William Blake
e di Rimbaud, dei canti dei nativi americani e del jazz, di Isaac B. Singer e
della controcultura americana, dell’Ecclesiaste e della Cabbala. Un suo saggio
sonda i legami tra Coleridge e lo Zen; un articolo pubblicato sul “San Francisco
Examiner” – di cui era editorialista – s’intitola The Tao of Fishing, esce
nell’agosto del 1960: il mese prima si era occupato del teatro Kabuki e di
Samuel Beckett. È difficile, intendo, trovare un poeta dagli interessi tanto
poliedrici ed eterogenei: leggere Rexroth è una gioia del cervello, obbliga a
una perpetua gimkana tra comodità e convenzioni, è un poeta sempre in allarme,
Rexroth, è un poeta-sentinella, alle pendici di un evo appena intuito. Ha
scritto, con la stesso assiduo, generoso genio, con l’audacia del perpetuo
dilettante, del bambino eterno, di Simone Weil e degli haiku, di Matteo Ricci,
il gesuita nato a Macerata che partì nel Cinquecento ad evangelizzare la Cina, e
delle lettere di Van Gogh.
In Italia, tuttavia, Rexroth è per lo più un paria. L’ho conosciuto grazie a
Flavio Santi: nel 1999, per Marcos y Marcos, ha curato l’antologia Su quale
pianeta; esiste, ormai, nel mercato secondario. InternoPoesia, per la cura di
Francesco Dalessandro, pubblicherà un mannello di “poesie scelte” come Lasciati
celebrare.La celebreremo.
Cristina Giorcelli ha scritto che Rexroth, “Tenace oppositore del materialismo
contemporaneo, nutrì palingenetiche speranze nelle filosofie orientali e nella
poesia. Nella sua visione, mistica e sensuale a un tempo, la poesia costituisce
l’atto comunicativo, ‘sacramentale’, per eccellenza: in poesia, infatti, il
suono, il ritmo, l’attenzione alla calligrafia (quale si rivela nella resa
grafica delle traduzioni di Rexroth di poesia cinese e giapponese), la cura
tipografica del testo, devono partecipare all’‘estasi del senso’”.
In appendice, diamo minimo conto dell’affinità tra Rexroth e il mondo orientale:
le sue traduzioni dicono – poundianamente – di un’armonia da lotofago,
l’ingordigia della bellezza. Il poeta che traduce divorando.
Rexroth morì a Santa Barbara nel giugno del 1982. Poco prima, si era convertito
al cattolicesimo; nel 1978 aveva pubblicato come The Burning Heart una selezione
di “poetesse giapponesi”. Fu una raccolta di successo, poi ripresa da New
Directions: per la prima volta, si squarciavano i paraventi di un’era remota, di
una femminilità irredenta. The Love Poems of Marichiko pareva un’appendice a
quell’assiduo lavoro di ricerca. Le poesie sono delicatissime, scritte su veli
di carta, da mollare ai venti:
> “Fare l’amore con te
> è come bere acqua di mare.
> Più bevo
> più sete mi setaccia
> niente può placarla, se non:
> bere il mare per intero”
> “E un giorno, sei pollici di
> cenere sarà ciò
> che resta del nostro incendio
> mentale, di tutto il mondo creato,
> di questo amore, l’origine
> la dissipazione”
Dietro il volto della giovane poetessa contemporanea Marichiko, si nascondeva
Kenneth Rexroth. Estremo gioco d’ombre di un cannibale del linguaggio. Rexroth
eccelleva nella poesia d’amore; l’arte dei famelici.
**
GIAPPONE
Yosano Akiko
(1878-1942)
Neri i capelli
in mille rivoli annodati
annodati i capelli annosi
annodati nodosi ricordi
delle nostre infinite notti d’amore.
*
L’autunno sfiorisce:
nulla dura per sempre.
Il fato sfata le nostre vite.
Accarezza i miei capezzoli
con le tue mani da manovale.
*
Cogli i miei seni
squarcia ogni mistero
un fiore esplode
è cremisi e profuma.
*
Fukao Sumako
(1895-1974)
Casa luminosa
Che casa luminosa:
nessuna stanza è resa al buio.
La casa si erge alta
sulle scogliere, scandita
come un faro.
Quando arriva la notte
depongo una luce
una luce più grande del sole e della luna.
Pensa
al mio cuore che si flette
quando con dita tremanti
accendo un fiammifero nella sera.
Sollevo il petto
inspiro ed espiro al rumore dell’amore
come la figlia del guardiano del faro.
Questa è una casa luminosa.
Voglio creare un mondo
che nessun uomo può costruire.
*
Noriko Ibaragi
(1926-2006)
La mente di una bambina
Ecco cosa aveva in mente una bambina:
perché la schiena delle mogli
odora così forte di magnolia
o di gardenia?
Cos’è
quel futile velo di nebbia
sulle spalle delle mogli?
Ne voleva avere
quella meravigliosa cosa
che alle vergini è vietata.
La bambina crebbe
divenne moglie – fu madre.
Un giorno capì:
la tenerezza
che si ammucchia sulle spalle delle mogli
non è che fatica
di amare – amare giorno dopo giorno.
*
CINA
Huang O
(1498-1569)
Sopra la melodia “Nuvole imbizzarrite”
Hai tenuto il mio fiore di loto
tra le labbra, hai slabbrato
il pistillo. Abbiamo rubato
un frammento del magico corno
del rinoceronte: insonni
per tutta la notte – per tutta
la notte la cresta leonina del gallo
si è fermata. Per tutta la notte l’ape
si è incuneata tremando tra gli stami
del fiore. Oh mio dolce gioiello!
Soltanto il mio signore domina
sul sacro stagno di loto:
ogni notte fa esplodere in me
i suoi fiori di fuoco.
*
Sun Yün-Feng
(1764-1814)
Sulla strada, attraversando Chang-te
L’anno scorso ho attraversato questo luogo:
mi è piaciuto e sono felice di esserci ancora.
Il mercato del pesce si inabissa tra ombre blu.
Da una locanda con il tetto di paglia
si snoda il fumo del tè.
Le sabbie, a riva, interrano
la bianca luna: il fiume sussurra.
I salici attendono il verde
della ventura primavera.
I versi di una poesia mi lacerano.
L’ho preteso: fermi per un po’, destriero.
*
Viaggio tra le montagne
Il vento occidentale invita alla nostalgia:
la polvere del carro sale fino alle nubi – è sera.
Le cicale fischiano tra le foglie ingiallite.
Al tramonto l’ombra di un uomo è spaventosa
come una montagna – gli uccelli si ritirano tra i greti del sonno.
Vago senza fermarmi – ho perso la via di casa.
Mentre ammiro il fiume, un brivido
d’invidia per il pescatore che siede
in solitudine: pensa pensieri eleganti, senza peso.
*
Qiu Jin
(1875-1907)
Una lettera alla Signora T’ao Ch’iu
Sono sola con la mia ombra
mormoro e scrivo strani
caratteri nell’aria, come Yin Hao.
Vino e malanni non mi spezzano
non soffro per chi non c’è più:
per avere ragione del mio cuore
Li Ch’ing-chao ha messo sotto
torchio una città intera.
Nessuno può capirmi:
le mie visioni superano quelle
degli uomini che mi stanno al fianco –
ma sopravvivere è impossibile.
A cosa serve il cuore di un eroe
in abiti femminili?
Il mio destino è il rischio:
imploro il Cielo – le eroine
del passato hanno mai
conosciuto l’invidia?
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