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Per una poetica della sparizione. Sulla poesia di Nicolas Bouvier
Dev’esserci, nella biografia di ogni poeta, un momento in cui la folgore cade senza preavviso. L’istante in cui la poesia si incista nel destino: le stimmate di una vocazione che è incontro fatale tra telos e contingenza. Per Nicolas Bouvier, questo accade nella valle di Erzurum, quando l’alba si leva verso il Caucaso, annunciata dagli occhi fosforescenti di una volpe: > “in fin dei conti, ciò che costituisce l’ossatura dell’esistenza, non è né la > famiglia, né la carriera, né ciò che gli altri diranno o penseranno di voi, ma > alcuni istanti di questo tipo, sollevati da una levitazione ancora più serena > di quella dell’amore, e che la vita ci distribuisce con parsimonia a misura > del nostro debole cuore”. * La storia è nota, l’esordio ha quasi i contorni della leggenda. È il 1953. Nicolas Bouvier, appena terminati gli studi universitari, parte dalla Svizzera a bordo di una Topolino per raggiungere l’amico Thierry a Belgrado. Insieme, in una sorta di sodalizio creativo e iniziatico, si mettono in viaggio verso est, con l’intento di arrivare fino in India. Attraversano la Turchia, l’Iran, il Pakistan e l’Afghanistan, spingendosi fino alle soglie del Passo Khyber.  Quando Thierry fa ritorno in Europa, Nicolas prosegue da solo. Si dirige in Sri Lanka, dove – preda di un delirio febbrile e visionario – scrive Il Pesce Scorpione. Raggiunge poi il Giappone, che agisce su di lui come un calmante spirituale e gli ispira alcune delle pagine più intense e limpide della sua opera. Il resto è un intreccio di ritorni e nuove partenze, un continuo attraversamento delle stesse rotte e l’invenzione di itinerari futuri. Ma il Passo Khyber, dove La polvere del mondo si arresta, rappresenta nell’itinerario creativo di Nicolas Bouvier un confine simbolico. Oltre quell’imponente sistema montuoso si apre un nuovo orizzonte: quello della creazione e della riflessione poetica. * Bouvier si accosta al linguaggio della poesia relativamente tardi, a 35 anni. Come racconta lui stesso in Routes et déroutes, la sua prima composizione risale al soggiorno a Tabriz, benché la maggior parte dei versi venga scritta in Giappone – il paese che, più di ogni altro, con la sua abbagliante sintesi di ossimori, gli appare come una sorgente inesauribile di ispirazione. Non è un caso, osserva, che proprio nel Sol Levante sia nata la forma dell’haiku, così perfetta nella sua studiata semplicità. All’origine della poesia c’è il soffio che riempie la cassa toracica, il daimon che piega i polsi e getta l’amo nei fiumi della creazione. Scrivere è un atto da rabdomanti, misteriosa trasmutazione alchemica. La poesia, dice, > “era l’unico legame che mi restava con le parole, l’ultima passerella”. Ma non basta. Il dettato poetico esige rigore: una lealtà da asceta, un lavoro in sottrazione che può durare mesi, anni, persino decenni. A colpi d’ascia, fino a raggiungere il cuore dorato del metallo – là dove si fronteggia la frontiera del silenzio. * Nel 2012 esce la versione italiana delle poesie di Bouvier, curata da Luigi Marfè, acuto indagatore del rapporto tra letteratura e viaggio. Il titolo della raccolta – Il doppio sguardo. Le dehors et le dedans – sceglie con l’aggiunta italiana una resa interpretativa, non letterale. Il doppio sguardo richiama infatti l’idea di una visione sdoppiata. Eppure lo sguardo di Bouvier sulle cose mi sembra piuttosto di natura “taoista”: non duplice, ma unitario nel suo accogliere il dentro e il fuori, specchio e fiamma di estremi che si compenetrano. Ecco che così dehors e dedans diventano due volti della stessa medaglia. Il fuori: il mondo nel quale siamo immersi, colto nella sua energia elementare, evocata da ciò che potremmo definire correlativi oggettivi. Il dentro: un’esplorazione implacabile e dimessa di sé, alla ricerca di accorati lampeggiamenti interiori. * Le poesie di Bouvier sono un irrimediabile ma necessario dissolvimento dell’io nella pienezza nuda della natura. Voglio dire: come gettare l’io in pasto ai lupi, seppellirlo sotto il candore della neve e trasfigurarlo nella notturna luce delle costellazioni.  Piuttosto: viaggiare per addestrarsi alla solitudine ferale, al silenzio astrale, agli esordi mai approfonditi. Apprendere a fare della mappa geografica della propria vita il collo dell’imbuto dove smussare e levigare gli angoli taglienti dell’autobiografia. Ritrovarsi sdraiati, come nel sogno di Kafka, alla stessa altezza dello sguardo degli animali. Indagare i miti che da millenni incendiano covoni di grano e spremono il succo dalle vigne.  Il viaggio è la forma più elegante e raffinata per congedarsi dalla tentazione dell’io. Bisogna annientare l’idea del viaggio come carezza esotica, spogliarlo di ogni orpello, liberarlo da ogni illusione di spensierata evasione. Tutto, nelle poesie di Bouvier, parla il linguaggio di una scabra essenzialità, fatta di elementi naturali primari, di superfici rocciose rastremate dalla salsedine, di colori quasi chagalliani: luoghi e parole tra cui si avverta il passaggio dell’aria, come all’inizio dei tempi. * La citazione di un anonimo cinese posta in esergo alla prima sezione della raccolta conferisce a quest’ultima una tonalità poetica del tutto particolare. > “Domani, se qualcuno si preoccupa del nostro amico d’oltremare, > dite che, posati i sandali, è tornato a casa a piedi nudi”. E in effetti i versi sono sospesi in una levità quasi aerea, dove la scelta delle parole e l’evocazione delle immagini sono al tempo stesso un’aspirazione alla leggerezza e un richiamo alla condizione terrestre. Nuvole che ammantano il cielo, piogge che strizzano lembi di azzurro, fumi che si levano da spiagge nere. E ancora: mormorii, cantilene, sussurri e bozzoli che volteggiano nell’aria. Ma anche fieri cavalli di concreta carnalità, pozzanghere e campi disertati, stazioni di treni e mercati orientali. Personaggi, luoghi e scenari naturali costituiscono il serbatoio da cui il poeta attinge per le sue composizioni poetiche. Molti degli episodi che danno vita alle poesie si ritrovano anche nelle opere in prosa di Bouvier. A ben vedere, i temi ricorrenti nello scrittore svizzero sono gli stessi: hanno a che fare con la sciarada del viaggio, con la consapevolezza del tempo che passa, con l’avvistamento dell’ultima dogana, la morte. Ciò che colpisce, nell’iterazione di queste immagini, è che il dettato poetico di Bouvier, pur recalcitrante all’io, si declina infine in una forma di poesia perfettamente classica, di stampo lirico-elegiaco. La poesia di Bouvier è pura epifania: un’improvvisa rivelazione suggerita da un’immagine, una visione, un suono. Può accadere contemplando un tramonto iraniano, osservando dei pellegrini in cammino dal Tibet verso l’India, o ascoltando un motivo jazz suonato per strada a New York. Ciò che importa è che sempre, a un certo momento, il tempo sembra raggrumarsi: quando il vasto e misterioso respiro del mondo spira nel dettato poetico e l’animo vi aderisce intimamente, in un attimo di agnizione -dissolvendosi completamente nello sguardo muto dell’universo.  Nella seconda parte della raccolta, Le dedans, assistiamo all’irruzione del tu, come se l’interiorità non potesse prescindere da un’intimità relazionale, oltre che grammaticale. Le tre composizioni poetiche del ciclo Love Song sembrano accendere schegge di lirismo. In realtà, ogni picco di emozione viene trattenuto, smagato. Come il viaggio e la scrittura, anche l’amore spoglia l’io da ogni scoria. Rimane sempre, a sigillare tutto, una sorta di misterioso ritegno: > “ma che la neve caduta questa notte > sia come un dito sulla tua bocca” * Nicolas Bouvier aveva in mente di scrivere un ciclo di libri intitolato Livre des Merveilles. Vi avrebbe dovuto appartenere anche Le vide et le plein, forse l’opera più intensa del Bouvier prosatore, dove la scrittura aderisce con rara levità alle asperità e ai declivi dell’anima. Livre des merveilles: un titolo che richiama alla mente i libri di viaggio medievali, i mirabilia, popolati da tempeste procellose, mostri marini e apparizioni miracolose; o che evoca le peregrinazioni cartografate da celebri mercanti veneziani. Tuttavia, è bene non divagare. Nei racconti cinesi, il pittore delle nuvole, dopo aver dato l’ultima pennellata al suo capolavoro, avvolge i pennelli e li fissa alla cintura, prima di mettersi in cammino. I manipolatori delle marionette Bunraku, presenti sulla scena insieme alle loro figure, indossano un cappuccio quando sono ancora novizi; i maestri, invece, agiscono a volto scoperto: sono diventati a tal punto il personaggio che animano, da risultare, letteralmente, invisibili allo sguardo.  Scrivere, come viaggiare, vuol dire scomparire. Scaraventare carta e inchiostro e fuggire nel caldo ventre della terra.  Lorenzo Giacinto ** Ulisse A sud del parapetto, non c’è più nulla fino alla Terra Antartica. Leviatani e sirene solcano questi pascoli marini, questo portolano increspato d’onde, dove immense porzioni di cielo si abbattono in scrosci spossati, senza che Dio stesso ne sia messo al corrente. Ogni sera guardi il calice del sole tuffarsi urlando nel mare a chiazze, tra gli ammiccamenti dei grossi gatti di bordo accovacciati tra le gomene. I pescespada blu sfrecciano davanti alla prua, come una banda di gioiellieri in fuga. Sono mesi che non ricevi una lettera, sei l’ultimo dei paria a bordo di questa nave, il cuore sfatto, uno straccio di stoppa in mano, già tutto nero di ricordi. Ti annulli nel fremito delle eliche, ascolti l’antico canto del sangue nelle orecchie –  coaguli di sole della memoria, e l’inventario delle meraviglie, quando sapevi vivere di poco, e la vita ti seguiva come uno sciame d’api, e pagavi, senza mercanteggiare, il prezzo esorbitante della bellezza. * Hira – Mandi Ultima bottega ancora aperta nella notte della città –  ghirlande di peperoncini, samovar e falene, alone bianco dell’acetilene. La barba del padrone è tinta di un rosso birichino. Tre uomini vestiti di cuoio sorseggiano il tè versato nei piattini. Alti zigomi, che brillano nei volti color rame sotto la frangia di cappelli informi. Sono pellegrini del Tibet, in cammino verso l’India del Gange per appendere il loro mulinello da preghiera ai rami del fico del Buddha, prima di tornare alle loro terre a fiato corto, a piccoli passi, attraverso quei confini impraticabili che passano sopra le nuvole. Anch’io ho un appuntamento con un albero. E in ogni caso non c’è più verso di dormire quando la luna veleggia come una vela gonfia, così brillante, così veloce, che persino l’anima ne proietta un’ombra. * Love Song III Quando attizzare le parole per un po’ di colore non sarà più compito tuo, quando il rosso del sorbo e le curve delle ragazze non ti faranno più rimpiangere la tua giovinezza, quando un nuovo volto, tutto scheggiato d’assenza, non farà più tremare ciò che credevi solido, quando il freddo avrà salutato il freddo e l’oblio dirà addio all’oblio, quando tutto avrà assunto la silenziosa opacità del vischio –  quel giorno, qualcuno ti aspetterà al margine della strada per dirti che è stato giusto così, che dovevi concludere il tuo viaggio senza più nulla, del tutto disarmato, allora forse… ma che la neve caduta questa notte sia anche come un dito sulla tua bocca. Nicolas Bouvier Traduzione di Lorenzo Giacinto L'articolo Per una poetica della sparizione. Sulla poesia di Nicolas Bouvier proviene da Pangea.
April 29, 2025 / Pangea
“Il cuore di un lupo mannaro”. Viaggio in Oriente con Kenneth Rexroth
Nel 1978, per la Christopher’s Books di Santa Barbara, piccola editrice eletta all’anticonformismo, esce un libro di spregiudicata bellezza. S’intitola The Love Poems of Marichiko; in copertina spiccano aerei, ermetici calligrammi. Kenneth Rexroth, il traduttore, ha settantatré anni, è nato tre giorni prima del Natale del 1905, a South Bend, Indiana. Il padre, venditore di farmaci, alcolizzato, muore che Kenneth è un ragazzino, nel 1919; la madre se n’era andata tre anni prima. Cresciuto con gli zii, a Chicago, reso spregiudicato dalla solitudine, Kenneth a diciannove anni prende la strada, gira il paese in autostop, si dà a diversi lavori – quello più proficuo sembra essere stato la guardia forestale. “Trovai lavoro a Marblemount. Zaino in spalla, mi presentai presso il Forest Service. Mi aprì Tommy Thompson, un tipo meraviglioso. ‘Vieni a cena con noi. Forse ho qualcosa’. Era uno dei paesaggi più selvaggi degli Stati Uniti: non sapevo nulla di scienze forestali, non conoscevo le ruvide vertigini delle montagne. Da bambino, ero stato nelle Alpi. Tommy mi disse di aprire un sentiero, oltre il bosco, verso il ghiacciaio. Partii con una sega, un’ascia, cibo nello zaino per una settimana”. Così scrive Kenneth in uno dei suoi reperti autobiografici; che sono, poi, l’autobiografia di un paese, tra vendemmia di vento e metropoli nell’urlo. Fronte ampia, baffi geroglifici, occhi pieni di pietà. Kenneth Rexroth pubblica il primo libro importante nel 1940, s’intitola In What Hour. Introdotto alla poesia da Louis Zukofsky, diventerà amico di Lawrence Ferlinghetti. A San Francisco, il 7 ottobre del 1955, è Rexroth il gran cerimoniere del leggendario “Six Gallery reading”, quello in cui Allen Ginsberg legge Howl, specie di Pentecoste dei Beat. Quando qualcuno gli dice di essere stato il profeta dei Beat, il Giovanni Battista di quella generazione di imbestiati e ‘battuti’, Rexroth si ribella – li credeva, Kerouac, Ginsberg & Co., tumefatti dalla fama, affratellati ai santi, in fondo, dei traditori. Lui era rimasto ciò che era: un uomo docilmente ribelle ai canoni imposti, un anarchico, un ulisside cercatore. Più prossimo al medianico Ezra Pound che al mediatico ribellismo di quella generation, Rexroth aveva tracciato da tempo la sua via verso Oriente: autodidatta, avventuriero dalla mente Bucefalo, per la New Directions aveva tradotto One Hundred Poems from the Japanese (1955) e One Hundred Poems from the Chinese (1956). Implacabile poligrafo, animato da una curiosità, si direbbe, animalesca, Rexroth ha tradotto García Lorca e Machado, Pierre Reverdy e Antonin Artaud, Basho e Wang Wei, Saffo e Leopardi (L’infinito attacca così: “This lonely hill has always/ Been dear to me, and this thicket / Which shuts out most of the final/ Horizon from view…”). Nella prefazione a The Phoenix and the Tortoise (1944) dichiarò di rifarsi “a fonti ellenistiche, bizantine e tardo romane – e a Marziale”. La poesia si sviluppava secondo “un più o meno sistematico, più o meno preciso punto di vista”; il poeta dichiarava il proprio “senso di disperazione e di abbandono di fronte al collasso di un intero sistema di valori culturali”. La raccolta era dedicata a David Herbert Lawrence – “morto nel tentativo di rifondare una famiglia spirituale” – e ad Albert Schweitzer, “l’uomo che, in questi tempi, ha realizzato il sogno di Leonardo da Vinci – Leonardo, che morì impotente, lasciando i suoi progetti a metà, che ha dimostrato che la volontà umana è una porta troppo stretta perché una persona possa forzarla verso l’universale”.  Infaticabile ‘molestatore’ culturale, nel 1949 Rexroth firma un’antologia che raduna il meglio dei New British Poets, dedicata, in parti uguali, a James Laughlin, il suo editore, e, “come sempre”, alla moglie, Marie. Lì, senza tema di discepoli, sono stivati i poeti che seguono il dominio di Eliot e di W.H. Auden: George Barker e Hugh Macdiarmid, Lawrence Durrell e David Gascoyne, Stephen Spender e Denise Levertov. Il cuore dell’antologia è Dylan Thomas (“Non c’è dubbio che sia lui il giovane poeta più influente che scriva oggi in Inghilterra. L’unanimità con cui tutti, tranne gli irriducibili stalinisti e i versificatori domestici, da rivista, lo indicano come il più formidabile fenomeno della poesia contemporanea è semplicemente sbalorditiva”); mirabili le pagini introduttive: > “Dylan Thomas è sfacciato. Non si mostra mai a cuore aperto. Ti prende per il > collo. Ti incunea il cuore in gola. Ti colpisce il muso con un cuore > sanguinante e odoroso, un cuore pieno di vermi e di aghi, di nerosangue, > spinato, il cuore di un lupo mannaro… Dylan Thomas scrive come se non avesse > mai incontrato essere umano, come se non conoscesse lo spazzolino da denti. > Non c’è nulla di male in questo. Egli è un capo selvaggio che guida la sua > spedizione di cacciatori, per fare lo scalpo ai visi pallidi. Appartiene a una > stirpe di eroi”.  In fondo estraneo ai patronimici della fama, ai club, alle combine dei premi, spesso disperso in piccole edizioni d’arte, Rexroth ha scritto di William Blake e di Rimbaud, dei canti dei nativi americani e del jazz, di Isaac B. Singer e della controcultura americana, dell’Ecclesiaste e della Cabbala. Un suo saggio sonda i legami tra Coleridge e lo Zen; un articolo pubblicato sul “San Francisco Examiner” – di cui era editorialista – s’intitola The Tao of Fishing, esce nell’agosto del 1960: il mese prima si era occupato del teatro Kabuki e di Samuel Beckett. È difficile, intendo, trovare un poeta dagli interessi tanto poliedrici ed eterogenei: leggere Rexroth è una gioia del cervello, obbliga a una perpetua gimkana tra comodità e convenzioni, è un poeta sempre in allarme, Rexroth, è un poeta-sentinella, alle pendici di un evo appena intuito. Ha scritto, con la stesso assiduo, generoso genio, con l’audacia del perpetuo dilettante, del bambino eterno, di Simone Weil e degli haiku, di Matteo Ricci, il gesuita nato a Macerata che partì nel Cinquecento ad evangelizzare la Cina, e delle lettere di Van Gogh. In Italia, tuttavia, Rexroth è per lo più un paria. L’ho conosciuto grazie a Flavio Santi: nel 1999, per Marcos y Marcos, ha curato l’antologia Su quale pianeta; esiste, ormai, nel mercato secondario. InternoPoesia, per la cura di Francesco Dalessandro, pubblicherà un mannello di “poesie scelte” come Lasciati celebrare.La celebreremo.   Cristina Giorcelli ha scritto che Rexroth, “Tenace oppositore del materialismo contemporaneo, nutrì palingenetiche speranze nelle filosofie orientali e nella poesia. Nella sua visione, mistica e sensuale a un tempo, la poesia costituisce l’atto comunicativo, ‘sacramentale’, per eccellenza: in poesia, infatti, il suono, il ritmo, l’attenzione alla calligrafia (quale si rivela nella resa grafica delle traduzioni di Rexroth di poesia cinese e giapponese), la cura tipografica del testo, devono partecipare all’‘estasi del senso’”.  In appendice, diamo minimo conto dell’affinità tra Rexroth e il mondo orientale: le sue traduzioni dicono – poundianamente – di un’armonia da lotofago, l’ingordigia della bellezza. Il poeta che traduce divorando.  Rexroth morì a Santa Barbara nel giugno del 1982. Poco prima, si era convertito al cattolicesimo; nel 1978 aveva pubblicato come The Burning Heart una selezione di “poetesse giapponesi”. Fu una raccolta di successo, poi ripresa da New Directions: per la prima volta, si squarciavano i paraventi di un’era remota, di una femminilità irredenta. The Love Poems of Marichiko pareva un’appendice a quell’assiduo lavoro di ricerca. Le poesie sono delicatissime, scritte su veli di carta, da mollare ai venti: > “Fare l’amore con te > è come bere acqua di mare. > Più bevo > più sete mi setaccia > niente può placarla, se non: > bere il mare per intero” > “E un giorno, sei pollici di > cenere sarà ciò > che resta del nostro incendio > mentale, di tutto il mondo creato, > di questo amore, l’origine > la dissipazione” Dietro il volto della giovane poetessa contemporanea Marichiko, si nascondeva Kenneth Rexroth. Estremo gioco d’ombre di un cannibale del linguaggio. Rexroth eccelleva nella poesia d’amore; l’arte dei famelici. ** GIAPPONE Yosano Akiko (1878-1942) Neri i capelli in mille rivoli annodati annodati i capelli annosi annodati nodosi ricordi delle nostre infinite notti d’amore. * L’autunno sfiorisce: nulla dura per sempre.  Il fato sfata le nostre vite. Accarezza i miei capezzoli con le tue mani da manovale.  * Cogli i miei seni squarcia ogni mistero un fiore esplode è cremisi e profuma.  * Fukao Sumako (1895-1974) Casa luminosa Che casa luminosa: nessuna stanza è resa al buio. La casa si erge alta sulle scogliere, scandita come un faro.  Quando arriva la notte depongo una luce una luce più grande del sole e della luna. Pensa  al mio cuore che si flette quando con dita tremanti accendo un fiammifero nella sera. Sollevo il petto inspiro ed espiro al rumore dell’amore come la figlia del guardiano del faro.  Questa è una casa luminosa. Voglio creare un mondo che nessun uomo può costruire.  * Noriko Ibaragi (1926-2006) La mente di una bambina Ecco cosa aveva in mente una bambina: perché la schiena delle mogli odora così forte di magnolia o di gardenia?  Cos’è  quel futile velo di nebbia sulle spalle delle mogli? Ne voleva avere  quella meravigliosa cosa che alle vergini è vietata.  La bambina crebbe divenne moglie – fu madre.  Un giorno capì: la tenerezza che si ammucchia sulle spalle delle mogli non è che fatica di amare – amare giorno dopo giorno.  * CINA Huang O (1498-1569) Sopra la melodia “Nuvole imbizzarrite” Hai tenuto il mio fiore di loto tra le labbra, hai slabbrato il pistillo. Abbiamo rubato un frammento del magico corno del rinoceronte: insonni per tutta la notte – per tutta la notte la cresta leonina del gallo  si è fermata. Per tutta la notte l’ape si è incuneata tremando tra gli stami del fiore. Oh mio dolce gioiello! Soltanto il mio signore domina sul sacro stagno di loto: ogni notte fa esplodere in me i suoi fiori di fuoco.  * Sun Yün-Feng  (1764-1814) Sulla strada, attraversando Chang-te L’anno scorso ho attraversato questo luogo: mi è piaciuto e sono felice di esserci ancora.  Il mercato del pesce si inabissa tra ombre blu. Da una locanda con il tetto di paglia si snoda il fumo del tè.  Le sabbie, a riva, interrano la bianca luna: il fiume sussurra. I salici attendono il verde della ventura primavera. I versi di una poesia mi lacerano. L’ho preteso: fermi per un po’, destriero.  * Viaggio tra le montagne  Il vento occidentale invita alla nostalgia: la polvere del carro sale fino alle nubi – è sera.  Le cicale fischiano tra le foglie ingiallite.  Al tramonto l’ombra di un uomo è spaventosa come una montagna – gli uccelli si ritirano tra i greti del sonno. Vago senza fermarmi – ho perso la via di casa. Mentre ammiro il fiume, un brivido d’invidia per il pescatore che siede in solitudine: pensa pensieri eleganti, senza peso.  * Qiu Jin (1875-1907) Una lettera alla Signora T’ao Ch’iu Sono sola con la mia ombra mormoro e scrivo strani  caratteri nell’aria, come Yin Hao.  Vino e malanni non mi spezzano non soffro per chi non c’è più: per avere ragione del mio cuore Li Ch’ing-chao ha messo sotto  torchio una città intera. Nessuno può capirmi: le mie visioni superano quelle degli uomini che mi stanno al fianco –  ma sopravvivere è impossibile.  A cosa serve il cuore di un eroe in abiti femminili? Il mio destino è il rischio: imploro il Cielo – le eroine del passato hanno mai  conosciuto l’invidia? L'articolo “Il cuore di un lupo mannaro”. Viaggio in Oriente con Kenneth Rexroth proviene da Pangea.
April 12, 2025 / Pangea