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“L’assoluto nella dissolutezza”. Sulla poesia di Ella Frears
Dentro la materia “il mare è senza fine, dolorante”, ed è necessario che questo dolore sia focalizzato, parossisticamente pro-vocato e registrato, perché solo vivendone persino la proiezione è possibile sentire ciò che vive, ri-sentire nella provocazione la relazione:  La pellicola Il sole splendeva mentre noi andavamo in giro per il campus a fermare ragazzi e uomini chiedendo che mi colpissero in pieno viso.               Si rifiutavano tutti all’inizio, ma noi spiegavamo che era arte ed era necessario così mi hanno schiaffeggiata, uno dopo l’altro.               Ho capito che per farglielo fare dovevo indurire gli occhi, provocare. Lo schiaffo dei ragazzi era comico – palmo sul viso, con scuse prima e dopo. Era caldo e luminoso.               Abbiamo flirtato con un geografo dallo schiaffo leggero, con le dita a sfiorarmi la guancia come girandomi il viso di lato per vedermi di profilo. Avevamo circa venti               uomini su pellicola. È arrivato il ragazzo della mia amica e gli abbiamo chiesto se volesse farlo. Lui l’ha baciata e si è piazzato di fronte a me. La mia amica ha premuto record, e ha detto               ‘vai’ e io ridevo, mi ero dimenticata di preparare il viso, con la guancia sinistra un po’ rosa dopo una giornata di schiaffi. Non ero preparata al suo rovescio. Rapido                e forte, un rumore strano come se mi avesse schiaffato via la risata, un dolore più spesso di una puntura, un’immediata perdita di respiro. Siamo rimaste in silenzio                un attimo, e io ho guardato la mia amica e la sua mano portata alla guancia automaticamente, la luce rossa della telecamera che ancora lampeggiava e ho saputo                che non avremmo mai guardato la pellicola, che avrei sentito la nausea e la colpa finché il livido durava – più a lungo – avendo chiesto ciò che non era mio.  Il linguaggio di Frears è materia ustoria che sbracia e riaccende il percorso da metafora a dato, rinnova il senso della referenza, iniziando da un contesto umile e concreto. È una tensione ipercinetica a svolgere e riavvolgere il cammino della parola, i cui passi e salti manifestano una nudità d’intenti che è anche desiderio di stabilire un contatto. Altezze delle cadute ma più intimità nel dolore, in questa operosità slabbrata si muove il verso narrativo in tante zone di Risplendi, cara (Taut, 2023), il piccolo corpo del vivente (così come il corpo testuale) si aggrotta pudico per espandersi subito dopo e arrivare a toccare vertigini celesti: Mito lunare Dato che abbiamo donato i nostri gioielli per il tabernacolo (e con noi intendo le donne e con donne intendo le allegorie) ci è stata assegnata la luna. Non una luna, la nostra luna, la nostra piccola luna litigiosa. Il mare delle crisi e quant’altro – la vecchia ‘pietra dell’oh issa’ che trascina le onde ai ciottoli fin dall’alba dei tempi. Il 58% delle donne dice ‘prendi quello che ti danno, prima che ci assegnino un corpo celeste ancora più piccolo.’ Ad ogni modo, tutti sanno che la tuba di Falloppio è un germoglio di luna. Tutti sanno che il sole è una stella-ragazzo, buono e caldo e luminoso e piuttosto semplice se ti ricordi di portare la crema solare. Certo che ha un cazzo. Quando mi metto una torcia in bocca le guance mi si accendono di rosso come una lanterna carnosa – niente argento, né crescente né calante; sono accesa o sono spenta. Non proprio da luna. oh Satellite, oh Artemide, oh Orbe della notte. Domanda: posso dare la colpa alla luna perché dormo poco? Il 73% delle donne si è detto ‘a disagio’ con il nuovo rito lunare testato settimana scorsa, che prevede un melograno, un frutto stella (e del simbolismo di mela ben calcato). Ora di un altro gruppo di discussione. Magari possiamo bruciare cose, oppure il fuoco è solo roba da sole? Hanno versato del vino nuovo in una vecchia brocca, e ci hanno detto che i miti si fanno così. Abbiamo bevuto tutto il vino e ci siamo esposte al plenilunio, quindi dovevano aver ragione. Luce e carne costruiscono il mito, arte di raccontare il minimo, che confonde perché include piccolo e grande, abbattendo il confine dell’ambivalenza. Frears è certa del malessere di dire ma lo espone, è consapevole dell’impossibilità della permanenza per questo apre al lettore la sua intimità, offrendola come in una parabola: Scopare in Cornovaglia La pioggia è spessa e c’è un mezzo arcobaleno sulla spiaggia umida; mettimi la mano fin sopra. Ho camminato per quel museo di paese centinaia di volte e ho deciso che il cagnolino imbalsamato, etichettato: il cane più piccolo del mondo, è un falso. Baciami in un panificio di pasty con tutti i forni accesi. Ho stretto un uovo fresco e caldo in una fattoria e ho pensato a scopare. Ho stretto un piccolo granchio verde nel palmo della mano. Ho teso la manica fin sopra le dita e ho raccolto un’ortica e l’ho stretta contro la gola di un ragazzo come una spada. Slacciami le scarpe in quel vicolo e sollevami delicata sui cassonetti. Il sole luminoso del mattino viene e viene e i bambini vacanzieri sono pronti con i loro secchi gialli. Ti ricordi cosa si provava a scavare un buco tutto il giorno con una paletta solo per vederlo riempirsi di mare? Lo voglio così – come l’acqua che indovina un percorso al di  sopra del bordo. Come due anemoni rosso acceso in una pozza di marea, i tentacoli in onde estatiche. Come se la ginestra si è incendiata attraverso la brughiera e tu sei il fantasma di un pescatore, che ha sempre odiato la terra. Umiltà e fede, praticamente agostiniane, non sono eluse ma reindirizzate a nuove “apparizioni”, come fossero l’ossessione scaturente da un rapporto in perdita. La poesia si fa strumento, allora, che avvicina distanziando, che aspira e solo per poco accompagna: > Per favore capisci che non è addosso a te, è con te. Co-ire è sfiorare il rapporto mistico, l’assoluto nella dissolutezza dell’amore, è il tentativo che la carnalità si superi in un oltre desiderante e iper-percettivo. Ma cosa può l’essere umano esplorare l’infinito impraticabile della vita? Forse solo attraversandola facendosene infaticabile ricognitore, forse. Non cacciamo Giovanna, non cacciamo l’ossessione di sentire sempre e sempre più a fondo: Giovanna d’Arco ci perseguita Lei sa come trema il vetro prima che venga scagliata la pietra, come le tubature sibilano le une alle altre a mo’ di serpenti attraverso la casa. Ha sentito la prima spinta del fungo verso l’alto, ha mappato l’incedere furtivo della propria ombra sul terreno variabile. Cerca di ascoltare il tonfo minuto del cuore di un coniglio; ha sempre amato il calore del sangue anche mentre se ne va dal corpo, affonda nel fango. Ha sentito lo schiaffo rapido di uno sparo, la lenta leccata della lingua di un cervo, sa che il dolore si modella nella mente come la brina. Il sole le cuoce il corpo, le sue orecchie bacinelle di piccole pozze d’ombra nel fulgore, il rumore di un aereo nel cielo le ronza dentro. Nelle giornate storte lega i vestiti in complicati nodi, invita i passanti a fare lo stesso. Zitta, Giovanna, diciamo noi. Vai a contare i crochi. Et lux in tenebris lucet, afferrare o perdere la luce è la posta in gioco dell’incontro e della poesia che lo cerca. Frears dice di aver “sentito dire che il nemico che indossa le scarpe/ o troverà Dio o Lo perderà”, il che può essere tradotto nel desiderio e nella ricerca costante del bene nel male, in una spoliazione di sé e delle proprie acquisizioni. Frears spalanca la lingua della poesia e accoglie il mondo, prendendo e tremando: A una festa un ragazzo mi segue nel bagno sostenendo che quando ho lasciato la stanza gli ho fatto cenno di seguirmi. Davvero? Sapeva che non lo avevo fatto? Lo lascio entrare, perché quasi quasi mi prendo quello che mi dicono che desidero – chissà, magari ha ragione. * Mi chiama per controllare che non gli abbia dato un numero falso, mi lascia un messaggio in segreteria con il mio capezzolo nella sua bocca.       Il mattino seguente, da sola, ascolto la sua voce – un bambino che parla con la bocca piena                                                                         e poi io, come una madre noiosa, distante:                                piano,    piano,    piano. Nella compravendita che l’esistenza diventa quando lo slancio e il trasporto all’altro si interrompono, occorre confrontarsi con “l’agonia del deserto” e provarsi in un altro attraversamento. Nonostante “il mare imbestialito” sarebbe necessario accostarsi e sentire “l’orecchio bagnato del diavolo”, lasciarsi scorticare nella fuga continua che immagina una meta, in una tensione mai soddisfatta: Sulla cordatura della forma Esse sono la raffica di vento marino che ti tormenta mentre scendi in spiaggia; l’ambiguità sessuale dell’amico del tuo amico con cui ci stai provando in un bar.      Guidi in una galleria;             trattieni il respiro. Sono sette solide frasi spezzettate lungo un’idea; un singolo filo di ragnatela teso tra due corpi che dormono; i punti di sutura nella tua ferita sullo stomaco mentre ti allunghi verso il telecomando;        una macchina in bilico su una scogliera per sessant’anni. Sono la suspense mentre ti lavi il viso, sapendo che le probabilità di trovarti un assassino in casa sono aumentate mentre avevi gli occhi chiusi;       il picco febbrile che questa paura raggiunge mentre             chiudi l’armadietto a specchio del bagno. Non sono la tua autocoscienza, spalmata finemente sul tuo toast mattutino; non possono sedurre tua madre nella hall di un hotel. Ma sono un aeroplano di carta lanciato attraverso una stanza fumosa,       e sono esattamente come svegliarsi              per gli occhi di un insonne. Stai tornando a casa a piedi da un incontro / uno spettacolo /  negozi, hai con te gli ingredienti per la cena che hai deciso di fare – facendo dondolare un po’ il sacchetto semplicemente sentendo il peso di ciò che sarà. La sera è di un blu smorzato / arancio, l’aria non è né fredda, né calda. Di punto in bianco ti senti insignificante in un modo molto lussuoso e proprio in quell’istante il lampione sotto cui stai camminando si accende, tipo illuminazione. Attorno non c’è nessuno. Senti solo quella sensazione e continui verso casa. Corde – infilate e fisse:      una sensazione enorme, contenuta all’interno                di un piccolo corpo, sotto un cielo enorme. Enorme come ogni parola che s’inoltra e perde l’orientamento, come la luce che investe la strada mentre ad attraversarla il vivente vaga e prova. Sente? > Ci hai mai provato tu? È la luce più simile > all’acqua, a pozzanghera sulle tue palpebre, fresca > e senza parola sulla tua lingua. L’enorme si nientifica perché risgorghi lo slancio e ridiventi inondazione, pensiero lungo, racconto. La vita di ogni giorno è epica e metafisica, e solo così vivifica l’esperienza. La scrittura in versi di Frears e soltanto esperienza nell’urlo e nell’abbraccio, nell’alto come nel basso che comunicano, puro sentire: Elegia per la sonda Cassini 1997-2017 Pensavo alla tua morte. Cercavo di immaginare l’istante in cui la pressione diventa troppo forte o il calore troppo elevato.            E poi verso le quattro del pomeriggio ho sentito delle urla tremende. I suoni si diffondono in modo strano nel nostro vicolo cieco e non riuscivo a capire se fosse lontano o appena sotto la mia finestra.            Parte dell’orrore è non sapere da cosa proviene il suono. E infatti nei film fatti bene, la cosa brutta si intravede appena o non si vede per nulla. Ho sostato sulla porta cercando di capire: un cane abbaiava, un uomo gridava, una donna urlava.            E poi sentito un corpo che veniva colpito con un oggetto. Sapevo che era un corpo e non una cosa dal modo in cui gli altri suoni gli si piegavano attorno. Il traffico, le urla, gli alberi e il vento distorti da queste percosse sorde, irregolari. Gli sono corsa incontro.            Dietro una piccola staccionata, un uomo picchiava un cane con un badile. C’erano vicini alle finestre e per strada, guardavano. C’è stato il suono distante di sirene e l’uomo si è fermato ed è tornato dentro.            Il cane non faceva rumore, guardava nel vuoto verso il cielo. Ci siamo raccolti attorno alla staccionata. Respirava, poi non più.            Cassini, oggi, mentre ti tuffavi tra gli anelli di Saturno raccogliendo dati, ho visto un cane morire – una tristezza distaccata ma molto reale. Un ohh interiore, sfinito, come un palloncino che si sgonfia.            Gli altri cani nel vicolo cieco non hanno mai smesso di abbaiare fino al mattino. Sapevano. Dubito che sarà così anche per te. Non me li vedo i corvi che si levano improvvisamente dagli alberi, o un’anziana sulla strada di casa che di colpo inspira: se n’è andato!            Ieri notte i miei sogni erano pieni di quel suono – badile contro cane. Un miliardo di chilometri sono troppi per sentire la violenza della tua perdita, mi spiace. Invece mi immaginerò le lune, che sbirciano oltre gli anelli di Saturno come vicine di casa silenziose che guardano impotenti mentre tu inizi a tremare, bruciare e distruggerti.   Gianluca D’Andrea *In copertina: Ella Frears, photo Etienne Gilfilla L'articolo “L’assoluto nella dissolutezza”. Sulla poesia di Ella Frears proviene da Pangea.
October 29, 2025 / Pangea