Paradosso, sospensione, spazio; all’interno dei microcosmi in cui impulso e
controllo, violenza e ironia convivono sotto la polvere, vige un luogo dove
fragilità e maestà si concedono al minimalista. In modo preciso e frammentario,
senza ridurre la complessità, si fa della poesia un laboratorio d’etica. Nel
panorama del materiale ci si confronta con la forza residua della parola, e gli
svizzeri rispondono audacemente con un equilibrio profondamente umano, fin
troppo.
Tra le voci più singolari della letteratura svizzera del secondo Novecento, Kuno
Raeber occupa un posto che sfugge a ogni definizione. Ex gesuita, visse la
scrittura come una forma di fede personale, e concepiva il suo lavoro “per sé
stesso, ‘L’art pour l’art’”, come confidò nel suo diario nel 1982. Questa
intransigenza lo rese un outsider, anche quando sembrava vicino al centro. Negli
anni del Gruppo 47 diventò amico di Ingeborg Bachmann e di Enzensberger, ma fu
presto respinto da quel mondo. L’insulto di Walter Jens in un convegno lo segnò
a fondo. La sua risposta fu radicale; fare della lingua il proprio rifugio
cosmico, un equilibrio di forze polari.
> “L’artista può solo essere identico a se stesso. Altrimenti non è nessuno”.
Dopo essere stato definito “un monomaniaco delle parole”, i suoi diari furono
paragonati a quelli di Kafka; entrambi scrivono come chi lotta per sopravvivere
alla parola stessa. Al cuore del suo pensiero, però, sta la teoria della memoria
artistica. Le cose cambiano con lo sguardo che le pensa. L’arte, per Raeber, non
inventa ma ricorda. Scava nella materia del mondo (Weltstoff) per far
riaffiorare significati nascosti. Da qui la sua avversione per l’astrazione e
per ogni forma di illusione mimetica. Il linguaggio, diceva, deve restare
“flessibile, chiaro e profondo”.
Nei suoi testi, mito e quotidiano si sovrappongono come in un palinsesto.
Influenzato da Ovidio e Borges, intreccia figure sacre e terrestri, corpi e
simboli, in una prosa densa e incantata. Negli anni Ottanta tornò alla poesia,
come se volesse chiudere il cerchio.
Morì di AIDS nel 1992, durante una visita a Basilea.
> “Tutto per me si riferisce sempre più decisamente ad esso. Per me non è altro
> che questo enorme poema, questa montagna di parole, questo libro totale che
> cerco di realizzare.”
Oggi Raeber è considerato un poeta di microcosmi lirici, capace di concentrare
in pochi versi la complessità dell’esperienza umana: violenza e ironia, presenza
e assenza, impulso e controllo. La sua poesia, tradotta in modo frammentario in
Italia, ha influenzato lettori e poeti contemporanei che cercano di esplorare la
fragilità della parola e la densità emotiva dei testi brevi. Raeber dà
importanza alla sonorità delle parole e al modo in cui esse possono diventare
esistenza autonoma. Tende a concentrare la sua attenzione sulla persistenza
della voce come residuo della presenza. In questa poesia, da me tradotta, si
trova l’immensità di una voce soavemente stridula.
Kuno Raeber (1922-1992)
Zikade (Cicala)
Einst bleibt (un giorno resterà)
von mir nur noch die Stimme. (di me soltanto la voce.)
Du wirst mich in allen (Tu mi cercherai)
Zimmern suchen, (in tutte le stanze,)
auf den Treppen, in den langen (sulle scale, nei lunghi)
Fluren, in den Gärten, (corridoi, nei giardini,)
du wirst mich suchen im Keller, (tu mi cercherai in cantina,)
du wirst mich suchen unter den Treppen. (tu mi cercherai sotto le scale.)
Einst wirst du mich suchen. (Un giorno mi cercherai.)
Und überall wirst du nur meine Stimme (E ovunque tu soltanto la mia voce)
hören, meine hoch monoton (sentirai, la mia alta, monotona,)
singende Stimme, überall wird (voce cantante,ovunque )
sie dich treffen, überall (ti troverà, ovunque)
wird sie dich foppen, in allen (ti prenderà in giro, in tutte)
Zimmern, auf den Treppen, in den langen (le stanze, sulle scale, nei lunghi)
Fluren, in den Gärten, im Keller, (corridoi, nei giardini, in cantina,)
unter den Treppen. Einst (sotto le scale. Un giorno)
wirst du mich suchen. Einst (tu mi cercherai. Un giorno)
bleibt von mir nur noch die Stimme. (resterà di me soltanto la voce
Già dall’incipit – “Einst bleibt von mir nur noch die Stimme” – Raeber rovescia
la concezione tradizionale della morte e della sopravvivenza poetica. Non è il
corpo a permanere, né l’opera in senso materiale, ma la voce; ciò che
dell’essere è destinato a risuonare oltre la fine. Il poeta non parla più come
un soggetto incarnato, ma come ciò che di lui continua a farsi udire nel mondo,
come pura vibrazione, come resto sonoro. L’idea di voce in Raeber non è dunque
fisica, bensì ontologica: essa è la traccia del passaggio dell’essere nella
parola. È la sopravvivenza del suono come forma di presenza, anche quando ogni
presenza concreta è scomparsa.
In questa prospettiva la poesia si avvicina a quella dimensione
che Heidegger definisce Stimme des Seins, la “voce dell’essere”. La voce, per
Heidegger, non è semplicemente il mezzo con cui l’uomo comunica, ma il luogo in
cui l’essere si apre all’ascolto. Essa richiama il Dasein, lo convoca nel mondo,
lo fa desto alla propria finitudine. La voce è ciò che resta dell’essere quando
il soggetto è venuto meno, il luogo in cui l’essere continua a dire se stesso.
Ma in Raeber questo è un gesto inquieto, quasi ossessivo. La voce che rimane è
“hoch monoton singende”, alta, monotona e cantante. Non consola, non lenisce,
ma perseguita chi ascolta. È una voce che non smette di ritornare, un suono che
non si placa mai.
Qui la riflessione di Raeber si avvicina a quella di Derrida, per il quale la
voce rappresenta la promessa e insieme l’impossibilità della presenza.
Nella trace, nella traccia, la voce si mostra come ciò che resta dell’assenza. È
presenza che non cessa di mancare, segno che rimanda sempre a un’origine
perduta. Così la voce di Zikade (Cicala) è ciò che resta del soggetto, ma anche
ciò che testimonia la sua dissoluzione; non è più “la mia voce”, bensì una voce
che parla al mio posto, che continua a risuonare quando il soggetto non è più.
Il tu lirico a cui la voce si rivolge – “du wirst mich in allen Zimmern suchen”
– rappresenta l’esperienza del lutto. È colui che cerca una presenza perduta,
che tenta di ricomporre la figura dell’altro attraverso ciò che di lui
rimane. Ma la voce di Raeber non conduce al ritrovamento. Essa sfugge e deride
chi la cerca. È una voce spettrale, che non si lascia afferrare né localizzare,
che risuona “überall”, dappertutto, nei giardini, nei corridoi, nella
cantina. Il suo essere ovunque è anche il suo essere in nessun luogo. Come lo
spettro descritto da Derrida in Spectres de Marx, la voce di Raeber non
appartiene né al regno dei vivi né a quello dei morti: è una presenza sospesa,
un’esistenza che insiste.
L’intera architettura del testo riflette questa condizione. Il poema è costruito
come una figura speculare, in cui la seconda metà ripete e varia la prima. Le
stesse parole (Zimmer, Treppen, Fluren, Gärten, Keller) ritornano, dispiegandosi
in un movimento di eco continuo. Questa ripetizione non è semplice insistenza
formale, ma incarnazione del tema stesso: la voce che ritorna, che si
rispecchia, che si ripete fino a svuotarsi. Il ritmo trocheo, con la sua caduta
regolare, e la predominanza dei suoni acuti e del dittongo ei, creano una
struttura sonora che traduce materialmente la “monotonia alta” evocata nel
testo. La poesia non parla della voce, È voce. Non rappresenta il suono, ma lo
produce; non descrive l’eco, ma lo diventa.
Il titolo Zikade chiarisce ulteriormente questa concezione. La cicala, nella
mitologia greca, è la creatura che ha rinunciato al corpo per vivere soltanto
nel canto. In Platone, nel Fedro, si racconta che le cicale erano un tempo
uomini, i quali, rapiti dal piacere del canto, dimenticarono di nutrirsi e
morirono. Le Muse li ricompensarono trasformandoli in esseri che non hanno più
bisogno di cibo né di riposo, e che possono cantare ininterrottamente fino alla
morte. Raeber recupera questa immagine, ma ne rovescia la valenza. Il suo canto
non è celebrazione, ma condanna; la cicala di Zikade è una voce che non sa
tacere, un suono che non trova pace, un canto che osa continuare dopo la vita.
> “L’opera d’arte, intesa non solo come espressione momentanea, ma come mondo
> completo, come progetto di un mondo alternativo, ha preso il posto della
> Chiesa.”
In questo senso la poesia di Raeber si colloca in uno spazio di confine tra voce
e scrittura. La voce di Zikade vive soltanto nella pagina, nella ripetizione
tipografica delle parole, e tuttavia quella scrittura si comporta come suono. La
poesia tiene insieme i due poli che la filosofia occidentale ha spesso
contrapposto; la voce come immediatezza della presenza e la scrittura come
distanza e rinvio. Raeber, invece, mostra che la voce poetica è possibile solo
dentro la scrittura, e che la scrittura è viva solo in quanto risuona.
La ripetizione, il minimalismo, gli enjambements e l’uso dello spazio fisico e
mentale creano una densità lirica che invita a sostare, a confrontarsi con la
complessità dell’altro e con le tensioni morali e psicologiche della vita. Tra
muse, cicale, scale e cantine, la sua voce, alta, monotona, ossessiva, continua
a vibrare oltre la morte. Come se alla fine non l’uomo, ma la lingua, fosse la
vera sopravvissuta.
Tommaso Filippucci
*In copertina: un’opera di Alfred Kubin (1877-1959)
L'articolo “Questo libro totale che cerco di realizzare”. Kuno Raeber,
monomaniaco delle parole proviene da Pangea.