Qualcun altro per lui ha seminato bene crepuscoli. Sotto lo sguardo vigile di
Cerbero, vendemmia grappoli di tenebra nei suoi occhi prima ancora che nel
cielo. Al ritmo di un precipitare, dà coordinate esatte alla disperazione.
Grodek, 1914, novanta commilitoni squarciati nella carne e nell’anima che
chiedono sollievo e l’inutile perché di una guerra: troppo esili le sue spalle
per farsi carico di quel dolore, solo e senza farmaci – non resta che spingere
la prosodia fino alle porte dell’Orco per strapparla un’ultima volta alla sua
morsa. C’è Grete, “oscuro amore/ d’una selvaggia stirpe” e solo per questo casa
vuol dire ancora qualcosa. Compagna di sangue e di abisso; sorella di
un’innocenza che hanno perduto insieme, mano nella mano. Distilla bagliori
autunnali in punta di dita, come “oro di stelle cadute” (Al fanciullo Elis).
Si cammina in giorni bui come nei boschi fitti – che riparo c’è, dove –, nella
stagione signora del freddo e delle foglie ingiallite, non si capisce, nel tempo
che impiegano a cadere dondolando, se la musica muta che le muove è giuramento
di una prossima, lontana rifioritura o memoria volatile di un verde
irripetibile. L’eterno, ciclico incedere pare spezzarsi e le pupille inchiodano
un tramonto dove anche Dio, per un istante tutto umano, si raccoglie in
solitudine al termine della battaglia quotidiana col poeta. L’orlo di un
bicchiere di vino promette naufragi di porpora per domande troppo oscure, mentre
il sambuco tace e “presto s’annideranno stelle nelle ciglia dell’estenuato”
(L’autunno del solitario).
Georg Trakl, nato dipartito. Con perizia di aruspice indaga le viscere del
mondo, in un allucinato andare e tornare tra sogno e veglia ma sempre verso sé
stesso, come scrive in una lettera ad Irene Amtmann. L’amico fraterno Karl
Kraus, il bianco pontefice della Verità in una poesia a lui dedicata, non
comprende del tutto come Georg possa vivere. E infatti, come si vive quaggiù non
essendo di quaggiù? Sempre straniero in questa distesa sublunare che lacrima
sangue nel clamore delle armi, dentro il quale tutti gli orizzonti cortissimi
dell’eclissi del sacro cadono uno dopo l’altro, anche loro come soldati.
L’indigenza dell’arrischiato, scritta con la calma dei passi inesorabili, è la
frantumazione del centro. Schegge di uno specchio rotto, le immagini familiari
(la casa, un vecchio album di famiglia, il padre, la madre, etc…) sono ombre e
volti di pietra; tutte le cose, dice Trakl, tacciono mentre gli enigmi
dell’anima si sottraggono ad una chiarezza.
Nella poesia di Trakl – secondo Angelo Lumelli giocata tutta contro le
aspettative del discorso – il poeta raccoglie e accoglie come compagnia, lungo
la strada della parola, fantasmi, cioè silenzi che non redimono le domande più
ostinate, rinunciando a scioglierle in risposte comode ma fragili. Sacrifica la
tentazione di dire l’indicibile e per questo apre varchi ad azzurri diversi da
quelli del pensiero.
[…] Sotto cupi abeti
due lupi mescolavano il loro sangue
in abbraccio pietroso; d’oro
si perdeva la nuvola sul varco,
pazienza e silenzio dell’infanzia.
Di nuovo s’incontra il tenero cadavere
Sullo stagno del Tritone
Assopito nella sua chioma di giacinto.
Oh finalmente s’infrangesse il fresco capo!
Ché sempre segue, azzurra fiera,
un occhieggiare tra ombre crepuscolari d’alberi,
questi varchi più bui
vegliando e mossa da notturna armonia,
dolce delirio;
o suonava di oscura estasi
piena la musica
ai freschi piedi dell’espiatrice
nella città di pietra.
Cosa va distruggendo in poesia, mentre tocca ad una “fiera azzurra” la custodia
dell’”armonia degli anni spirituali” (Declino dell’estate)? Qui disperazione non
è semplicemente sprofondare; è il tentativo di recuperare la durata, di
strappare la vita alla marcescenza dell’epoca.
Ogni grande poeta va capito nel paradosso. Proprio perché si sottrae alle
allodole del discorso, Trakl non canta la morte, ma dice, sanguinando, dunque
proprio morendo, la vita. Al piano di sopra, noi che non siamo poeti e crediamo
di essere al riparo dei paradossi, dei loro agguati, chiamiamo vita
quest’andatura più o meno ordinata, regolare, ignari che c’è un poeta, proprio
dove non osiamo scendere, pronto ad ingaggiare per il troppo amore quel duello
decisivo contro il sole falso che abbiamo posto a misura dei nostri destini
traditi. Sui passi di quella fiera azzurra, torna il poeta verso la sua
infanzia, verso sé stesso con sfrontatezza da angelo caduto.
III
Voi grandi città
innalzate di pietra
Sulla pianura!
Così muto segue
chi non ha patria
con oscura fronte il vento,
alberi spogli sul colle.
Voi correnti che lontane albeggiate!
Potente affanna
orrore d’un tramonto
nei nembi della tempesta
Voi popoli morenti!
Pallida onda
che si rompe alla spiaggia della notte,
cadenti stelle.
(Occidente)
(I versi citati sono nella traduzione di Leone Traverso)
Livia Di Vona
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sogno e veglia proviene da Pangea.