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“Canterò cose che nessuno ha mai visto”. Keith Douglas, un poeta in guerra
Probabilmente, è bene cominciare dalla fine.  Il ragazzo decide di partecipare allo sbarco in Normandia. Mobilitato in Nord Africa, chiede ai superiori di essere impiegato durante il “D-Day”. Il ragazzo ha i grandi di capitano, l’ostinato desiderio di essere al ‘centro della Storia’. Tre giorni dopo lo sbarco, è il 9 giugno del 1944, il suo reggimento si impantana a Tilly-sur-Seulles, piccolo borgo del Calvados – ad oggi, supera di poco i mille e cinquecento abitanti. Il ragazzo – abile nel disobbedire, desto nel prendere l’iniziativa – sbarca dal suo tank, avanza in ricognizione solitaria. Un colpo di mortaio lo ammazza. Il cappellano del reggimento, il capitano Leslie Skinner, lo seppellisce alla buona, presso una siepe. Più tardi, sedata la guerra, i resti del ragazzo vengono sepolti nel cimitero militare di Tilly-sur-Seulles: lotto 1, fila E, tomba 2. Il ragazzo si chiamava Keith Douglas. Poeta.  Destino infero quello dei poeti della Seconda guerra. Ce ne sono stati tanti, eccellenti – pensiamo, alle nostre quote, al Diario d’Algeria di Vittorio Sereni, oppure a Fogli d’Ipnos, la raccolta del poeta ‘resistente’ René Char, tradotta guarda caso da Sereni – eppure è stato il reportage, il documentario ‘in diretta’; è stato il cinema a dire, con sicurezza definitiva, la Seconda guerra. Al contrario, la Prima guerra è stata una sorta di ‘laboratorio’ per la poetica del nuovo mondo, dei tempi nuovi: lo dimostra – in Italia – la quantità eccezionale di repertori antologici (Vallecchi editava una straziante Antologia degli scrittori morti in guerra; va visto, in particolare, l’“Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale”, Le notti chiare erano tutte un’alba, ideata da Andrea Cortellessa per Bompiani nel 2018). La nostra poesia ‘moderna’ nasce in trincea, con Giuseppe Ungaretti.  È come se la Seconda guerra, per sovrabbondanza d’orrore, non possa essere narrata: dev’essere subita, a operare nei recessi dell’anima, quando non vista (tradotta in film, anatomizzata nei reperti documentari). Nel mondo inglese, così, per “War Poets” s’intendono, in particolare, i Poets of the First World War, quelli gloriosamente onorati nel “Poet’s Corner” a Westminster, tra Shakespeare e Lord Byron, tra Chaucer e Dickens (tra gli altri, Rupert Brooke e Isaac Rosenberg, Wilfred Owen e Robert Graves; per un approfondimento, si veda l’antologia War Poets. Nelle trincee della Prima guerra mondiale, costruita da Paola Tonussi per le Edizioni Ares nel 2022). Dei poeti della Seconda guerra si fa memoria occasionale – spesso ci si dimentica di loro, sepolti da un disastro incomparabile, tacito accordo sull’ineluttabile irresolutezza dell’arte, della poesia di fronte alla morte.  Nato nel gennaio del 1920, Keith Douglas morì che aveva da poco compiuto ventiquattro anni. Dalla sua poesia esala la facondia immaginativa, la complessità della ‘scena’ e delle scelte lessicali, un certosino distacco nel vegliare sui fatti di guerra, che al posto di idealizzarsi in muta indifferenza esalta una tenuta, una postura poetica in grado di estrarre il dettaglio al diamante dal nulla bellico. Nato nel Kent, Douglas studiò al Christ’s Hospital mettendosi in luce sia per il talento, esagitato, che per l’animo, poco disposto a subire i rigori dell’educazione britannica. Pubblicò le prime poesie sedicenne; decise di arruolarsi perché pensava che la guerra fosse il ‘grande argomento’ della letteratura del suo tempo. Fu disciplinato nel Derbyshire Yeomanry, praticò al Cairo e in Palestina, partecipò – anche lì, per ardimento: non voleva più servire per lavori d’ufficio – alla Seconda battaglia di El Alamein: guidava un carro armato. Il suo superiore era il colonnello Edward O. Kellett, che sarebbe stato ucciso l’anno dopo, in azione, in Tunisia. Di quell’esperienza, Douglas ha lasciato un memoir, Alamein to Zem Zem, pubblicato da Faber, introdotto da Lawrence Durrell.  Nella scelta di arruolarsi di Douglas agì anche la situazione familiare. Figlio di un militare in congedo, con cui aveva pessimi rapporti, Douglas crebbe, in sostanza, solo, in collegio. La madre collassò in un’encefalite letargica grave; il padre mollò la famiglia, risposandosi, che Keith aveva dieci anni.  In molti riconoscono in Keith Douglas i prodromi del grande poeta, il cupo carisma dell’inattuato, dell’inespresso. Fu Edmund Blunden, il poeta veterano di guerra – per altro, ricordato nel “Corner” –, più volte nominato al Nobel per la letteratura, a riconoscere in Keith Douglas la stazza del talento puro. Nel 1938 inviò una scelta di sue poesie a Thomas S. Eliot, che le apprezzò. Il ragazzo era giovane, i fatti precipitarono. I Collected Poems di Keith Douglas vengono stampati da Faber nel ’46, con un’introduzione di Blunden. A quella seguiranno diverse altre edizioni: la più nota – Selected Poems, 1964 – è introdotta da Ted Hughes, che ha sradicato Keith Douglas dalle malie del ‘poeta di guerra’, utile a fini non soltanto estetici, “è la sua poesia, in generale, a serbare un valore unico, che rende il poeta più vivo che mai”. Tese tra le stelle e il cadavere, le poesie di Keith Douglas irrompono in noi con corvina tenerezza – come incisioni sulle ossa.   *** La Bestia Meraviglia Barone dei mari, il grande pesce spada dei tropici, straziato sul famelico ponte dove i marinai lo hanno ucciso nel paradisiaco Pacifico: lama che indaga occhio che fugge e stana la preda nei regni oscuri dov’era re; arma forgiata nella semi-tenebra, eppure, strappata dal cadavere di questo estroso viaggiatore, è una lente d’ingrandimento che riflette l’inusuale zampillo del sole. Con quella lama un marinaio incide sul legno il nome di una prostituta abbordata  nell’ultimo porto. È uno degli strumenti più strani custoditi dalle onde –  suppongo che la querula voce dei marinai marciti in spettri digeriti dalle ingorde maree potrebbe descriverne molti.  Che siano i vostri ospiti, che vi conducano negli abissi dove brucano i loro vascelli dimenticati – che tutto risorga nell’occhio  che arde. Per incidere quel verbo, il sole perfora la potenza del mare e urla il suo nome, omaggia quella meraviglia.  Linney Head, Galles, 1941 * Come si uccide Sotto la parabola di una palla un bambino diventato uomo fissa l’aria troppo a lungo. La palla mi è caduta in mano, canta nel pugno chiuso: Usami Usami sono un dono ideato per uccidere.  Ora nel mirino vedo il soldato che sta per morire. Sorride, si muove nei modi che solo sua madre conosce.  Fili sul suo viso: è l’ora in cui piango. La morte è il mio  più intimo familiare e muta  in polvere un uomo di carne.  Ma questa è la mia stregoneria. Sono un dannato, amo ammirare il centro dell’amore spalancarsi e un’onda di amore vagare nel vuoto.  È così facile creare un fantasma. La zanzara, leggerissima, tocca la misera ombra sulla pietra: con quanta, infinta tenerezza l’uomo e la sua ombra si incontrano. Si fondono. L’uomo è un’ombra  e le zanzare obbediscono alla morte.  * Fioriture nel deserto Soltanto i fiori proliferano nei paesaggi selvaggi –  ripeto soltanto ciò che stavi dicendo, Rosenberg –  la conchiglia e il falco ad ogni ora uccidono uomini e gerboa, uccidono la mente: ma i corpi possono soddisfare gli affamati fiori e i cani che gridano come  uomini, di notte, la cosa più dura di tutte. Ma questa non è una novità. Ogni volta che la notte lancia stracci sugli occhi, lascia la mente desta, guardo ai lati della porta del sonno cerco la piccola moneta necessaria  per comprare il segreto che non saprò mantenere. Vedo uomini che soffrono come alberi confondono i dettagli e l’orizzonte. Metti la moneta sulla mia lingua  canterò cose che nessuno ha mai visto.  * Vergissmeinnicht Tre settimane dopo i guerrieri erano spariti: tornammo su quel campo da incubo – il soldato era  ancora lì, disteso, incubato dal sole.  All’ombra della canna del suo fucile. Avanzavamo quel giorno e lui colpì il mio carro come  se fosse la mascella di un demone. Guarda. Qui, nella trincea dirupo la fotografia disfatta della sua donna: ha scritto Steffi. Vergissmeinnicht con una calligrafia gotica perfetta.  Ci sembra felice, ormai degradato, deriso dalla sua stessa divisa così dura e superba quando il corpo è in decomposizione. Ma lei piangerebbe, oggi, nel vedere le mosche che si muovono oscure sulla sua pelle, la polvere sull’iride di carta, lo stomaco squarciato come una grotta. Perché qui amante e assassino sono lo stesso, hanno un solo corpo e un solo cuore. La morte che ha eletto quel soldato ha avvelenato con un male mortale l’amante.   * Stelle (Per Antoniette) Le stelle marciano ancora, in ordine sparso da nulla a nulla. Guardatele, sono immobili sul campo notturno, autentica terra di nessuno. Lì, lontana, con spada e cintura, dev’essere Orione. Per i commissari di questa guerra da esaltati è il Carro. Nessuno favoloso confine può annientare il loro coraggio, nessuna banda le sfiderà: soltanto la disciplina le ha mobilitate e le mantiene vive. Così  le hanno viste il Tempo e i suoi avi. Così  combattere il disordine è il loro compito e la vittoria persiste nelle loro mani.  Dal limite delle vecchie colline fino a quelle pianure, laggiù, si estende  il loro accampamento. Gli eterei ufficiali salutano, da tenda a tenda, i messaggeri  cometa. Guardiamo in alto, con dolore a quei compagni lontani, quelle plaghe  che non possiamo calpestare.  1939 * Canoa  Questa potrebbe essere la mia ultima estate e non voglio perdermi nulla del piacere che dona l’antica arte  dell’ozio. Non mi lascio terrorizzare dal destino che aleggia sullo sfondo mentre l’erba e le case e il fiume insonne credono di poter durare per sempre e si scambiano sussurri sommessi –  impera l’afa. Quale terribile fato potrà  impedire alla mia ombra di vagabondare da queste parti il prossimo anno? Fischia: ti sentirò e verrò, a sera, sulla stessa barca con cui vai verso Iffley mentre fissi il cielo in attesa del tuono che come una campana preannuncia  pioggia – il mio spettro ti sfiorerà le labbra.  Keith Douglas L'articolo “Canterò cose che nessuno ha mai visto”. Keith Douglas, un poeta in guerra proviene da Pangea.
November 4, 2025 / Pangea