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“Le nostre sorti incatenate”. Lou Reed riscrive Edgar Allan Poe
Mi ero imbattuto nell’ultimo disco in studio di Lou Reed (“The Raven”), quasi scettico per l’operazione proposta ma fortemente incuriosito. Essendo sia amante di Poe e dei suoi racconti plumbei e angosciosi, sia di Lou Reed, fin dagli albori della sua carriera nei Velvet Underground, l’ho ascoltato con sincera attenzione e voluto approfondire comperando in edizione Minimum Fax i testi integrali del lavoro poetico di riscrittura di Poe, che prendono il medesimo nome e dell’album e della celeberrima lirica del maestro del gotico, per la traduzione di Riccardo Duranti.  Scriveva nell’introduzione lo stesso Lou Reed:  > “Nella mia mente Poe è il padre di William Burroughs e di Hubert Selby > (ricordiamo quest’ultimo, per chi non lo conoscesse, come una specie di Joyce > maledetto e metropolitano). Cerco sempre di adattare il loro sangue alle mie > melodie. Perché facciamo quello che non dovremmo fare? (con un occhio > al Demone della perversità). Perché amiamo quello che non possiamo avere? > Perché abbiamo sempre una gran passione per la cosa sbagliata? E che cosa > intendiamo per ‘sbagliato’?… Mi sono innamorato ancora una volta di Poe e > quando mi si è presentata l’opportunità di riportarlo in vita attraverso > parole e musica – testo e danza – be’ (suggestione diabolica di vanità > autoriale?, ci chiediamo), l’ho afferrata al volo: come farebbe un rottweiler > con un osso sanguinolento. L’ho riletto e poi recitato ad alta voce e per la > prima volta ho capito Il cuore rivelatore…” Omettendo di dare uno sguardo ravvicinato all’album e alle prestigiose collaborazioni, soprattutto nei recitati, di artisti di grande calibro tra i quali William Dafoe, Steve Buscemi, Fisher Stevens, Amanda Plummer, possiamo senz’altro approcciare uno dei passaggi più significativi, a nostro modo di vedere, della preziosa versione integrale cartacea delle riscritture di Lou Reed presso i gangli più significativi dell’opera di Poe.  Prenderemo infatti in esame, principalmente, la riscrittura magnifica del racconto dal titolo Hop-Frog (il nano buffone di corte). Va detto, a giusta premessa, che Lou Reed raggiunge qui, ma anche di più altrove, vette inedite di estro poetico e cura filologica nell’uso di una parola aulica e tale da vibrare di musica assecondando l’estetica stessa dell’autore di origine. L’inizio pare una litania quasi insignificante dal lato della consistenza contenutistica, offrendo una versione scanzonata del personaggio a cavallo tra la vita di corte e la sua natura “salterina” (esiste niente di più buffo e caricaturale del salto di una rana). Prosegue alzando l’asticella, con lo scritto dal titolo “Ogni ranocchio ha la sua giornata di riscossa”. Qui il re esorta Hop-Frog a procurargli gaiezza e riso chiamandolo “mellifluo principe dei buffoni” ed egli risponde con tono serio che la giornata presente “non è adatta a farsi una risata”, perché quel momento “sacro è per i tramonti reali” piuttosto che “per lo sbraco comico o il suicidio dei giullari”. Il re incalza, dicendo imperativamente che a decidere è lui e il suo “cagnolino” deve suscitare la sua ilarità, tracannando vino e assecondandolo durante la festa. Hop-Frog sa bene che il vino gli dà alla testa e cerca di aggirare l’ostacolo, ma il re insiste con nerbo e comando. Ed ecco comparire Tripitena (auratica creatura, dal nome sonoramente fittizio che evoca quasi una onomatopea, e ingegnosa rappresentazione di Musa meta-parnassiana che intuisce il valore dinamitardo dell’arte di Hop-Frog, al quale si rivolgerà più tardi amorevolmente, con disprezzo profondo per il re e la sua corte)… Attenzione che nella versione palesemente denigratoria di Lou Reed la corte intera compare come accolita di squallidi affaristi e faccendieri, quindi in chiave più moderna e maturamente capitalistica. Esattamente come, in simmetria, “Il verme conquistatore” appare come il protagonista di un “escrementizio” numero di Broadway in cui luci, paillettes e ballerine, nascondono il marcio di un ricco intrattenimento che ottunde la ragione e tradisce la sincerità, facendo di Poe stesso una caricatura da show. E dice Tripitena, attraverso un espediente che fa leva sulla vanità della corona: “Riservate, mio possente Sire/ a nemici più degni le vostre ire”. Il re non desiste e apostrofa malamente Hop-Frog ingiungendogli nuovamente di farlo ridere. Ma il re, dichiara Tripitena nel magnifico monologo che costruisce il musicista newyorchese, dovrebbe chiamarsi in realtà “orinale”, in bisticcio con la propria indiscussa autorità e senza mezzi termini di condanna. Hop-Frog, invece, nella sua visione troneggia su tutti, e la regale compagine appare come una accolita di scimmioni festanti. Tripitena dice di aver osservato il nano destinato a giganteggiare e che il suo valore supera ampiamente la sua natura di nano, ed è superiore alla sua pur vertiginosa ampiezza d’animo e alla profondità di pena interiore che la suggella. Le sue parole sono vibranti d’amore: >  “O reietto ostinato, non vedi la luce del nostro amore – le nostri sorti > incatenate – i nostri cuori fusi insieme in un fine merletto di fili d’oro > intrecciati?” Il re e la sua accolita di ruffiani ascoltano “la musica degli idioti” e i loro affari e faccende sono sordidi. Non sono né cose angeliche né appartenenti ad alcun superiore avamposto a cui sia degno aspirare. Il re-affarista è creatura misera e indegna, e i suoi consiglieri sono “decrepite caricature di erudizione guidata dall’avidità”. Come negare che allo stato attuale faccendieri e cultura ruffiana, adulatrice del potere, sono all’ordine delle cose? E allora serve “disordine”… Arriva quindi il suggerimento di Tripitena che raccoglie lo snodo centrale del racconto di origine: far travestire tutti da scimmioni, con la scusa di una burlesca messa in scena per il triviale divertimento di costoro, e poi dar fuoco alle loro pellicce. Perché se a questo mondo la giustizia e fuggevole, per una volta sia lecito ascoltare il “raglio e il pianto” del sovrano-affarista”. Devono, tutti costoro, solo impersonare gli scimmioni che già sono, con catene e ridicole sottane, e poi perire nel rogo che appiccherà il buffone di corte. Perché chi lo sottovaluta “prima o poi è destinato a trovare la verità sublime e a sdraiarsi vuoto sulla griglia di un disordine sistematico”.  È una grande dichiarazione di anarchia e sovvertimento, di disordine che deflagra come una forza annientatrice dello status quo, della sordida vita che perpetra se stessa grufolando nel fango del potere e nei suoi abusi, nella bassezza di un ordine babelico di vizio e sopruso, guadagno ed esercizio vessatorio di potere. Il finale del monologo è assai crudo e Tripitena dichiara a chiare lettere che gli “affaristi” non sono degni neanche di farsi defecare addosso.                                                          Prosegue il testo con una domanda di carattere quasi esistenzialista: “Chi sono?” Ed è ancora Tripitena a parlare: ella vede nello specchio il tempo che ha arato la sua pelle durante il corso della rievocazione bruciante dei ricordi d’amore legati a Hop-Frog, preda di una passione che vince la ragione e le sue leggi. E in aggiunta, dice, si pensa a ciò che avremmo voluto diventare, ma la realtà che si affronta dedica a questi slanci uno spazio così esiguo da svuotarli. Si chiede chi sia, Tripitena, e chi ha fatto le foreste, il cielo, la tempesta e persino il crepacuore, e quanta vita possa ancora ella sopportare. Perché sogna e insiste nel sognare e immaginare mondi inesistenti e vorrebbe non dover neanche respirare, librandosi in volo come un “magico putto”, baciando un serafino in fronte, risolvendo l’enigma della vita col tagliare a qualcuno la gola o strappandogli il cuore. Rivolgendosi al nano, dichiarato già di una statura che non fa il paio con quella del suo sembiante ma solo per essere infinitamente maggiore, sembra dichiarare di essere trapassata ma ancora viva nella fiamma ardente di un amore che memorie ormai opache non sono tali da celebrare per la sua possanza e urgenza. E se il suo amato si aggrapperà alle sue ginocchia, udendo ancora il battito del cuore (immagine di sanguigno vitalismo e non tarlo della coscienza), allora non sarà un errore il pensiero di stringere in pugno il passato ormai morto… Altrimenti perché ci sarebbe dato ricordare? Ella si domanda chi sia, mentre il mondo corre e pare seminarla e il ragazzo di un tempo è ormai in età senile; si chiede cosa il futuro ha da riservarle e chi sia stato a dare la scintilla di creazione a questo immenso teatro di vita… Forse un Dio innamorato che ha lambito in bacio qualcuno che gli ha invece riservato amaro tradimento… Cosicché “l’amore senza Dio” ci ha scacciato tutti. Il seguito è serrato e brachilogico, una successione breve che disegna il rogo macchinato dal nano. Egli propone alla Maestà e ai suoi ministri un ballo in costume. Il suo suggerimento fa leva sullo spirito goliardico e volgare del re, insinuando l’idea che la messa in scena spaventerebbe e genererebbe scompiglio, assecondando così l’eccentricità che si conviene a un sovrano che tutto può solo per comando. Il giullare vendicherà così molti torti e torturerà i potenti vedendoli bruciare a morte.                                                                                       È il rovesciamento della statura apparente, è il far leva sull’inconsistente idiozia e pecoreccia volgarità di una corte di viziosi arrampicatori senza nerbo né morale, per consegnar loro la tortura e il marchio di fuoco di una vendetta che ristabilisce un ordine che appare perduto dacché si ha memoria. Il più piccolo e deriso, il più insignificante e angariato, usa l’ingegno e l’astuzia per far cadere in trappola il re e i suoi ministri con la compiacenza della loro smania di gaudio e sollazzo. Le parole che Tripitena aveva dedicato a Hop-Frog erano delicate e disegnavano una filigrana aurea e splendente di amore votivo, avevano invece tuonato feroci e lapidarie contro gli affaristi di corte e il re che incarnava un potere volgare fatto solo di guadagno e pochezza.                                        La parte finale dei testi di Lou Reed merita anch’essa una menzione, quasi che fosse il naturale continuo di questo episodio di vendetta e sovvertimento di regole simili a pesanti catene, e un epifanico avvento di giustizia vera e ragione incoronata di virtù; anzi, la virtù è la vera assente nella compagine regale, dedita al sudicio esercizio di mercimoni e speculazioni, così come moralmente decrepita e legata al vizio e alla dismisura dell’ego. La parte conclusiva cui accennavamo è la canzone L’angelo custode, dove recita un Poe giovane assieme a ogni altro personaggio che punteggia l’opera e nella quale è evocato l’angelo convocato al proprio capezzale da chi teme paura e solitudine, un angelo che dispensa e protegge dal male, un angelo che suggerisce che l’unico modo per rovinarsi è smettere di confidare in sé. Che ha sempre mostrato dove fosse il bene, tra tempeste perfide e tambureggiare di cristalli, alla destra di chi soffre e spera; e se l’istinto era in errore, questi suggeriva e correggeva.    Un angelo che mostra il sogno laddove è ben desto l’incubo. Per chi “vicino ai libri sotto le tazze da tè/ tiene una specie di inferno”, e per il quale panico e angoscia sono ospiti consuetudinari; per colui, infine, per il quale tutto è rifuso nelle immagini (di un simbolismo puntuale a icastico) che seguono: “il tappo di champagne – il gufo alla luce della luna/ un corvo e un’anatra/ la semenza di genitori in pena/ e del tuo amore che perde la speranza…”  Tutti sembrano avere un angelo che li protegge e veglia sui loro affanni e le loro speranze, così compenetrati da cambiare di volto gli uni con le altre, perché “Amore e fortuna hanno vite incantate/ e tutte le cose possono essere rivoltate” (e noi pensiamo a colpa/rovina e sollievo/trionfo, caduta e ascesa, al dominare e al soccombere, alla ragione più arrogante e al cuore più umile e grato, al sogno e all’incubo, alla statura apparente e a quella che cala l’ideale nel concreto, e tutte assieme che cozzano senza elidersi e danno fermento e vita al prodigioso spettacolo di una compagnia umana sospesa tra il sublime e la burla, tra il magnifico e l’infimo, tra le luci più fulgenti e le tenebre più mortifere, tra una virtù da “baraccone” ed una virtù inoppugnabilmente splendida). Ed è forse lecito ricordare, a questo punto, che ogni colpevole ha un testimone, se non altro in se stesso, e che una colpa orba a sé è la più esiziale delle menzogne. Ogni disegno ha una strada ma non tutto è giusto, non tutto risarcisce e sana, quasi niente è dato avere in amore, se non un sogno desto che si giustifica senza tregua, estenuanti sensi di colpa e perdizione che tambureggiano come un tell-tale heart sotto l’assito dell’anima. Perché l’ordito di Lou Reed ricalca le opere di origine simile a una cuspide di luce capace di brillare oggi di un’aura ancora veritiera; e ferisce a fondo “l’arroganza della mente” – al di là di ogni colpa riconosciuta o non riconosciuta. Ed è proprio la colpa nelle sue proteiformi sembianze ad attraversare queste notevoli riscritture, assieme a un’esistenza di ombra o una vita come una macchia tumescente che insiste in ciò che “non si deve” recando danno precipuamente a sé. Il resto è un canto ora sommesso ora corrusco e vitale di ombre, visoni e parvenze larvate che si agitano nel teatro di una vita sognante almeno quanto ferita. Come appare ne La caduta della casa degli Usher, per Roderick (come per ogni creatura sensibile fino al morbo di sé) che ha sensi così acuiti da mangiare solo cibi insipidi, indossare abiti impalpabili, essere abbacinato da una luce appena meno fioca di un cero, e trovare opprimente perfino il profumo dei fiori, il confine tra sanità e malattia, tra tara e superstizione è assai labile e la visione non è il prodotto di “fenomeni elettrici” niente affatto rari, ma la rima funerea e veridica col proprio rimosso, una voce che ascoltare può condurre alla follia ma alla quale non si può rinunciare senza rendere le proprie armi vinte persino al cospetto di sé; il nemico siamo noi, in definitiva, e  > “la mente capricciosa si confonde con il futuro che essa stessa prevede e si > ripiega su di sé con ribrezzo e terrore. Con la premeditazione e con il > semplice pensiero, siamo condannati a conoscere la nostra fine”. E nella “valle inquieta” di Roderick “non sono forse tutte le cose belle lontane?” Una valle dal fiume malato e i monti raggelati in un “rigor mortis” atavico e inappellabile, lontana essa stessa come il sole “allettato nell’orizzonte luminoso”, e dove egli, come l’occhio umano, “si è chiuso per sempre” colpevole di non udire il pulsare del cuore ma “solo lacrime di perfetto pianto”. Là un tempo regnava “Re Pensiero”, la cui arguta saggezza era cantata da voci di impareggiabile dolcezza, in un reame dove il vento portava fragranza di rari fiori e tutto era armonia e virtù sotto l’egida di un fiero emblema baciato dal sole – pressappoco così scriveva Poe –, e là regnano ora discordanti melodie, disordine e risa, ma mai pi un sorriso. Mai più. E “mai più” è la parola chiave che compare con ripetute anafore anche ne Il corvo, l’originale. Da sottolineare che la vetta, forse, di questa raffinata opera di Lou Reed, rimane proprio la  riscrittura della lirica Il corvo, sublimemente fastosa, di un linguaggio poetico prezioso e decadente, in carattere con l’originale e tale da evocare con potenza un canto funebre e plutonico che echeggia di assenza fino quasi allo smarrimento del confine tra ragione e distorsione onirica, e in cui il lutto è compenetrato all’amore… L’amore un grido di impossibilità (non solo fisica) di adempienza alle leggi sovrane di un cuore stregato. Massimo Triolo L'articolo “Le nostre sorti incatenate”. Lou Reed riscrive Edgar Allan Poe proviene da Pangea.
November 5, 2025 / Pangea