Tag - Edgar Allan Poe

“Le nostre sorti incatenate”. Lou Reed riscrive Edgar Allan Poe
Mi ero imbattuto nell’ultimo disco in studio di Lou Reed (“The Raven”), quasi scettico per l’operazione proposta ma fortemente incuriosito. Essendo sia amante di Poe e dei suoi racconti plumbei e angosciosi, sia di Lou Reed, fin dagli albori della sua carriera nei Velvet Underground, l’ho ascoltato con sincera attenzione e voluto approfondire comperando in edizione Minimum Fax i testi integrali del lavoro poetico di riscrittura di Poe, che prendono il medesimo nome e dell’album e della celeberrima lirica del maestro del gotico, per la traduzione di Riccardo Duranti.  Scriveva nell’introduzione lo stesso Lou Reed:  > “Nella mia mente Poe è il padre di William Burroughs e di Hubert Selby > (ricordiamo quest’ultimo, per chi non lo conoscesse, come una specie di Joyce > maledetto e metropolitano). Cerco sempre di adattare il loro sangue alle mie > melodie. Perché facciamo quello che non dovremmo fare? (con un occhio > al Demone della perversità). Perché amiamo quello che non possiamo avere? > Perché abbiamo sempre una gran passione per la cosa sbagliata? E che cosa > intendiamo per ‘sbagliato’?… Mi sono innamorato ancora una volta di Poe e > quando mi si è presentata l’opportunità di riportarlo in vita attraverso > parole e musica – testo e danza – be’ (suggestione diabolica di vanità > autoriale?, ci chiediamo), l’ho afferrata al volo: come farebbe un rottweiler > con un osso sanguinolento. L’ho riletto e poi recitato ad alta voce e per la > prima volta ho capito Il cuore rivelatore…” Omettendo di dare uno sguardo ravvicinato all’album e alle prestigiose collaborazioni, soprattutto nei recitati, di artisti di grande calibro tra i quali William Dafoe, Steve Buscemi, Fisher Stevens, Amanda Plummer, possiamo senz’altro approcciare uno dei passaggi più significativi, a nostro modo di vedere, della preziosa versione integrale cartacea delle riscritture di Lou Reed presso i gangli più significativi dell’opera di Poe.  Prenderemo infatti in esame, principalmente, la riscrittura magnifica del racconto dal titolo Hop-Frog (il nano buffone di corte). Va detto, a giusta premessa, che Lou Reed raggiunge qui, ma anche di più altrove, vette inedite di estro poetico e cura filologica nell’uso di una parola aulica e tale da vibrare di musica assecondando l’estetica stessa dell’autore di origine. L’inizio pare una litania quasi insignificante dal lato della consistenza contenutistica, offrendo una versione scanzonata del personaggio a cavallo tra la vita di corte e la sua natura “salterina” (esiste niente di più buffo e caricaturale del salto di una rana). Prosegue alzando l’asticella, con lo scritto dal titolo “Ogni ranocchio ha la sua giornata di riscossa”. Qui il re esorta Hop-Frog a procurargli gaiezza e riso chiamandolo “mellifluo principe dei buffoni” ed egli risponde con tono serio che la giornata presente “non è adatta a farsi una risata”, perché quel momento “sacro è per i tramonti reali” piuttosto che “per lo sbraco comico o il suicidio dei giullari”. Il re incalza, dicendo imperativamente che a decidere è lui e il suo “cagnolino” deve suscitare la sua ilarità, tracannando vino e assecondandolo durante la festa. Hop-Frog sa bene che il vino gli dà alla testa e cerca di aggirare l’ostacolo, ma il re insiste con nerbo e comando. Ed ecco comparire Tripitena (auratica creatura, dal nome sonoramente fittizio che evoca quasi una onomatopea, e ingegnosa rappresentazione di Musa meta-parnassiana che intuisce il valore dinamitardo dell’arte di Hop-Frog, al quale si rivolgerà più tardi amorevolmente, con disprezzo profondo per il re e la sua corte)… Attenzione che nella versione palesemente denigratoria di Lou Reed la corte intera compare come accolita di squallidi affaristi e faccendieri, quindi in chiave più moderna e maturamente capitalistica. Esattamente come, in simmetria, “Il verme conquistatore” appare come il protagonista di un “escrementizio” numero di Broadway in cui luci, paillettes e ballerine, nascondono il marcio di un ricco intrattenimento che ottunde la ragione e tradisce la sincerità, facendo di Poe stesso una caricatura da show. E dice Tripitena, attraverso un espediente che fa leva sulla vanità della corona: “Riservate, mio possente Sire/ a nemici più degni le vostre ire”. Il re non desiste e apostrofa malamente Hop-Frog ingiungendogli nuovamente di farlo ridere. Ma il re, dichiara Tripitena nel magnifico monologo che costruisce il musicista newyorchese, dovrebbe chiamarsi in realtà “orinale”, in bisticcio con la propria indiscussa autorità e senza mezzi termini di condanna. Hop-Frog, invece, nella sua visione troneggia su tutti, e la regale compagine appare come una accolita di scimmioni festanti. Tripitena dice di aver osservato il nano destinato a giganteggiare e che il suo valore supera ampiamente la sua natura di nano, ed è superiore alla sua pur vertiginosa ampiezza d’animo e alla profondità di pena interiore che la suggella. Le sue parole sono vibranti d’amore: >  “O reietto ostinato, non vedi la luce del nostro amore – le nostri sorti > incatenate – i nostri cuori fusi insieme in un fine merletto di fili d’oro > intrecciati?” Il re e la sua accolita di ruffiani ascoltano “la musica degli idioti” e i loro affari e faccende sono sordidi. Non sono né cose angeliche né appartenenti ad alcun superiore avamposto a cui sia degno aspirare. Il re-affarista è creatura misera e indegna, e i suoi consiglieri sono “decrepite caricature di erudizione guidata dall’avidità”. Come negare che allo stato attuale faccendieri e cultura ruffiana, adulatrice del potere, sono all’ordine delle cose? E allora serve “disordine”… Arriva quindi il suggerimento di Tripitena che raccoglie lo snodo centrale del racconto di origine: far travestire tutti da scimmioni, con la scusa di una burlesca messa in scena per il triviale divertimento di costoro, e poi dar fuoco alle loro pellicce. Perché se a questo mondo la giustizia e fuggevole, per una volta sia lecito ascoltare il “raglio e il pianto” del sovrano-affarista”. Devono, tutti costoro, solo impersonare gli scimmioni che già sono, con catene e ridicole sottane, e poi perire nel rogo che appiccherà il buffone di corte. Perché chi lo sottovaluta “prima o poi è destinato a trovare la verità sublime e a sdraiarsi vuoto sulla griglia di un disordine sistematico”.  È una grande dichiarazione di anarchia e sovvertimento, di disordine che deflagra come una forza annientatrice dello status quo, della sordida vita che perpetra se stessa grufolando nel fango del potere e nei suoi abusi, nella bassezza di un ordine babelico di vizio e sopruso, guadagno ed esercizio vessatorio di potere. Il finale del monologo è assai crudo e Tripitena dichiara a chiare lettere che gli “affaristi” non sono degni neanche di farsi defecare addosso.                                                          Prosegue il testo con una domanda di carattere quasi esistenzialista: “Chi sono?” Ed è ancora Tripitena a parlare: ella vede nello specchio il tempo che ha arato la sua pelle durante il corso della rievocazione bruciante dei ricordi d’amore legati a Hop-Frog, preda di una passione che vince la ragione e le sue leggi. E in aggiunta, dice, si pensa a ciò che avremmo voluto diventare, ma la realtà che si affronta dedica a questi slanci uno spazio così esiguo da svuotarli. Si chiede chi sia, Tripitena, e chi ha fatto le foreste, il cielo, la tempesta e persino il crepacuore, e quanta vita possa ancora ella sopportare. Perché sogna e insiste nel sognare e immaginare mondi inesistenti e vorrebbe non dover neanche respirare, librandosi in volo come un “magico putto”, baciando un serafino in fronte, risolvendo l’enigma della vita col tagliare a qualcuno la gola o strappandogli il cuore. Rivolgendosi al nano, dichiarato già di una statura che non fa il paio con quella del suo sembiante ma solo per essere infinitamente maggiore, sembra dichiarare di essere trapassata ma ancora viva nella fiamma ardente di un amore che memorie ormai opache non sono tali da celebrare per la sua possanza e urgenza. E se il suo amato si aggrapperà alle sue ginocchia, udendo ancora il battito del cuore (immagine di sanguigno vitalismo e non tarlo della coscienza), allora non sarà un errore il pensiero di stringere in pugno il passato ormai morto… Altrimenti perché ci sarebbe dato ricordare? Ella si domanda chi sia, mentre il mondo corre e pare seminarla e il ragazzo di un tempo è ormai in età senile; si chiede cosa il futuro ha da riservarle e chi sia stato a dare la scintilla di creazione a questo immenso teatro di vita… Forse un Dio innamorato che ha lambito in bacio qualcuno che gli ha invece riservato amaro tradimento… Cosicché “l’amore senza Dio” ci ha scacciato tutti. Il seguito è serrato e brachilogico, una successione breve che disegna il rogo macchinato dal nano. Egli propone alla Maestà e ai suoi ministri un ballo in costume. Il suo suggerimento fa leva sullo spirito goliardico e volgare del re, insinuando l’idea che la messa in scena spaventerebbe e genererebbe scompiglio, assecondando così l’eccentricità che si conviene a un sovrano che tutto può solo per comando. Il giullare vendicherà così molti torti e torturerà i potenti vedendoli bruciare a morte.                                                                                       È il rovesciamento della statura apparente, è il far leva sull’inconsistente idiozia e pecoreccia volgarità di una corte di viziosi arrampicatori senza nerbo né morale, per consegnar loro la tortura e il marchio di fuoco di una vendetta che ristabilisce un ordine che appare perduto dacché si ha memoria. Il più piccolo e deriso, il più insignificante e angariato, usa l’ingegno e l’astuzia per far cadere in trappola il re e i suoi ministri con la compiacenza della loro smania di gaudio e sollazzo. Le parole che Tripitena aveva dedicato a Hop-Frog erano delicate e disegnavano una filigrana aurea e splendente di amore votivo, avevano invece tuonato feroci e lapidarie contro gli affaristi di corte e il re che incarnava un potere volgare fatto solo di guadagno e pochezza.                                        La parte finale dei testi di Lou Reed merita anch’essa una menzione, quasi che fosse il naturale continuo di questo episodio di vendetta e sovvertimento di regole simili a pesanti catene, e un epifanico avvento di giustizia vera e ragione incoronata di virtù; anzi, la virtù è la vera assente nella compagine regale, dedita al sudicio esercizio di mercimoni e speculazioni, così come moralmente decrepita e legata al vizio e alla dismisura dell’ego. La parte conclusiva cui accennavamo è la canzone L’angelo custode, dove recita un Poe giovane assieme a ogni altro personaggio che punteggia l’opera e nella quale è evocato l’angelo convocato al proprio capezzale da chi teme paura e solitudine, un angelo che dispensa e protegge dal male, un angelo che suggerisce che l’unico modo per rovinarsi è smettere di confidare in sé. Che ha sempre mostrato dove fosse il bene, tra tempeste perfide e tambureggiare di cristalli, alla destra di chi soffre e spera; e se l’istinto era in errore, questi suggeriva e correggeva.    Un angelo che mostra il sogno laddove è ben desto l’incubo. Per chi “vicino ai libri sotto le tazze da tè/ tiene una specie di inferno”, e per il quale panico e angoscia sono ospiti consuetudinari; per colui, infine, per il quale tutto è rifuso nelle immagini (di un simbolismo puntuale a icastico) che seguono: “il tappo di champagne – il gufo alla luce della luna/ un corvo e un’anatra/ la semenza di genitori in pena/ e del tuo amore che perde la speranza…”  Tutti sembrano avere un angelo che li protegge e veglia sui loro affanni e le loro speranze, così compenetrati da cambiare di volto gli uni con le altre, perché “Amore e fortuna hanno vite incantate/ e tutte le cose possono essere rivoltate” (e noi pensiamo a colpa/rovina e sollievo/trionfo, caduta e ascesa, al dominare e al soccombere, alla ragione più arrogante e al cuore più umile e grato, al sogno e all’incubo, alla statura apparente e a quella che cala l’ideale nel concreto, e tutte assieme che cozzano senza elidersi e danno fermento e vita al prodigioso spettacolo di una compagnia umana sospesa tra il sublime e la burla, tra il magnifico e l’infimo, tra le luci più fulgenti e le tenebre più mortifere, tra una virtù da “baraccone” ed una virtù inoppugnabilmente splendida). Ed è forse lecito ricordare, a questo punto, che ogni colpevole ha un testimone, se non altro in se stesso, e che una colpa orba a sé è la più esiziale delle menzogne. Ogni disegno ha una strada ma non tutto è giusto, non tutto risarcisce e sana, quasi niente è dato avere in amore, se non un sogno desto che si giustifica senza tregua, estenuanti sensi di colpa e perdizione che tambureggiano come un tell-tale heart sotto l’assito dell’anima. Perché l’ordito di Lou Reed ricalca le opere di origine simile a una cuspide di luce capace di brillare oggi di un’aura ancora veritiera; e ferisce a fondo “l’arroganza della mente” – al di là di ogni colpa riconosciuta o non riconosciuta. Ed è proprio la colpa nelle sue proteiformi sembianze ad attraversare queste notevoli riscritture, assieme a un’esistenza di ombra o una vita come una macchia tumescente che insiste in ciò che “non si deve” recando danno precipuamente a sé. Il resto è un canto ora sommesso ora corrusco e vitale di ombre, visoni e parvenze larvate che si agitano nel teatro di una vita sognante almeno quanto ferita. Come appare ne La caduta della casa degli Usher, per Roderick (come per ogni creatura sensibile fino al morbo di sé) che ha sensi così acuiti da mangiare solo cibi insipidi, indossare abiti impalpabili, essere abbacinato da una luce appena meno fioca di un cero, e trovare opprimente perfino il profumo dei fiori, il confine tra sanità e malattia, tra tara e superstizione è assai labile e la visione non è il prodotto di “fenomeni elettrici” niente affatto rari, ma la rima funerea e veridica col proprio rimosso, una voce che ascoltare può condurre alla follia ma alla quale non si può rinunciare senza rendere le proprie armi vinte persino al cospetto di sé; il nemico siamo noi, in definitiva, e  > “la mente capricciosa si confonde con il futuro che essa stessa prevede e si > ripiega su di sé con ribrezzo e terrore. Con la premeditazione e con il > semplice pensiero, siamo condannati a conoscere la nostra fine”. E nella “valle inquieta” di Roderick “non sono forse tutte le cose belle lontane?” Una valle dal fiume malato e i monti raggelati in un “rigor mortis” atavico e inappellabile, lontana essa stessa come il sole “allettato nell’orizzonte luminoso”, e dove egli, come l’occhio umano, “si è chiuso per sempre” colpevole di non udire il pulsare del cuore ma “solo lacrime di perfetto pianto”. Là un tempo regnava “Re Pensiero”, la cui arguta saggezza era cantata da voci di impareggiabile dolcezza, in un reame dove il vento portava fragranza di rari fiori e tutto era armonia e virtù sotto l’egida di un fiero emblema baciato dal sole – pressappoco così scriveva Poe –, e là regnano ora discordanti melodie, disordine e risa, ma mai pi un sorriso. Mai più. E “mai più” è la parola chiave che compare con ripetute anafore anche ne Il corvo, l’originale. Da sottolineare che la vetta, forse, di questa raffinata opera di Lou Reed, rimane proprio la  riscrittura della lirica Il corvo, sublimemente fastosa, di un linguaggio poetico prezioso e decadente, in carattere con l’originale e tale da evocare con potenza un canto funebre e plutonico che echeggia di assenza fino quasi allo smarrimento del confine tra ragione e distorsione onirica, e in cui il lutto è compenetrato all’amore… L’amore un grido di impossibilità (non solo fisica) di adempienza alle leggi sovrane di un cuore stregato. Massimo Triolo L'articolo “Le nostre sorti incatenate”. Lou Reed riscrive Edgar Allan Poe proviene da Pangea.
November 5, 2025 / Pangea
Edgar Allan Poe parla al nostro cuore: la sua angoscia è anche la nostra
Un dannato della vita. Non trovo definizione migliore per riferirmi a Edgar Allan Poe (1809-1849). La sua fu un’esistenza breve, tormentata, trascorsa tra il disordine e gli eccessi, segnata da una compagna fedele e inseparabile: un’angoscia assoluta. Sul piano sentimentale ebbe una vita, per usare un eufemismo, complessa; il matrimonio, celebrato due volte a distanza di otto mesi, con una tredicenne che per di più era sua cugina la dice lunga al riguardo. Però, nonostante, mi correggo, grazie a questo grande guazzabuglio, lo scrittore americano ci ha lasciato una serie di racconti straordinari. Tra i tanti il mio preferito resta sempre Un uomo tra la folla, anche perché, secondo me, incarna nel modo migliore il suo autore. A tutti gli effetti è un autoritratto di Poe.  Si svolge a Londra ed è la storia di un uomo che, dopo una lunga malattia, esce per la prima volta e si mette a osservare la folla da dietro le vetrate di un caffè. Comincia a guardare i passanti prima in modo impersonale, poi a poco a poco, attraverso i vestiti, il modo di incedere, l’espressione dei volti, cerca di capire a quale categoria sociale appartengano. A un tratto un vecchio dall’aspetto cupo e singolare cattura la sua attenzione e, spinto da un bisogno irrinunciabile di saperne di più su quella figura, l’uomo esce dal caffè e si mette a seguirlo attraverso le strade della città. Da lì ha inizio una furibonda cavalcata che dura tutta una notte e una giornata intera, con il vecchio sempre immerso tra la folla e terrorizzato all’idea di rimanere anche per pochi istanti da solo. L’inseguimento è tanto assillante quanto vano e terminerà senza nessun risultato se non la consapevolezza dell’impossibilità di capire il segreto dell’uomo della folla.  > «Annientato dalla fatica com’ero, al cader della seconda sera, affrontai > risolutamente lo sconosciuto e lo fissai negli occhi. Ma egli fece la vista di > non accorgersene. E riprese, d’un subito la sua solenne andatura, mentre io > rimanevo immobile a guardarlo, e a seguirlo non mi bastava più l’animo. > ‘Questo vecchio – dissi allora a me stesso – è il genio caratteristico del > delitto più efferato. Egli non vuole rimanere solo, è l’uomo della folla. > Sarebbe invano che io continuassi a seguirlo, giacché non riuscirei a sapere > di lui e delle sue azioni nulla più di quanto egli già non mi abbia fatto > sapere’.» Il significato del racconto è evidente: l’impossibilità di arrivare a una vera conoscenza e testimonia come il percorso della vita sia lungo, tortuoso, faticoso e ahimé senza alcun risultato perché alla fine non ci sarà nessuna scoperta della verità. Ma, come tutte le storie di Poe, anche questa è una fonte inesauribile di riflessioni. Prima di tutto pensiamo a quella smisurata folla, a tutti gli effetti la vera protagonista del racconto, così opprimente da togliere il fiato e in mezzo alla quale ci rendiamo tragicamente conto di essere immersi anche noi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Proprio come il vecchio del racconto, tutti sembriamo avere un bisogno coattivo della folla; una condanna tanto primitiva quanto incomprensibile che ci portiamo sulle spalle come le lumache con la loro conchiglia. Usciamo al mattino e andiamo al lavoro incolonnati insieme a una moltitudine di nostri simili; appena abbiamo un momento libero corriamo a distrarci in luoghi pieni di gente, sia un locale pubblico, uno stadio o un cinema; quando arrivano le vacanze ci muoviamo tutti insieme per poi ritrovarci ancora una volta in posti affollati da una moltitudine di nostri simili. Siamo perennemente nello stesso tempo uomini tra la folla e uomini sempre più soli, del tutto estranei a noi stessi come agli altri.  Con il suo racconto Poe dimostra di essere ben consapevole del destino crudele e beffardo a cui sembra costretta in modo inesorabile l’esistenza umana. Una folle corsa in fondo alla quale cerchiamo disperatamente di scorgere un barlume di luce, ma che invece ci vede già condannati in partenza alla sconfitta. Poe parla al nostro cuore. La sua angoscia non può non essere anche la nostra. A questo serve la letteratura. Quella vera si intende. Come il protagonista di Un uomo tra la folla siamo spinti da forze misteriose e a noi del tutto sconosciute a muoverci, ad agire, a parlare, ad andare sempre avanti senza sosta sotto la spinta inesorabile della nostra perenne ansia, piccole rotelline di un meccanismo infernale di cui non riusciamo a capire né l’origine né la fine.  Per tornare alla vita di Poe di cui si diceva all’inizio, va detto che anche la sua fine fu tragica e misteriosa, avvolta in una imperscrutabile miserevole grandezza, una scena che sembra uscire da uno dei suoi racconti. La mattina del 3 ottobre 1849 un uomo in preda al delirium tremens venne trovato in una lurida stanza di un alberghetto da due soldi di Baltimora. Nessuno lo conosceva, venne trasportato d’urgenza all’ospedale della città dove morì dopo qualche giorno senza riprendere conoscenza. Le ipotesi sulla causa della morte sono tutto un programma: cardiopatia, epilessia, sifilide, meningite, colera e, tanto per non farsi mancare niente, rabbia. Era Edgar Allan Poe, un uomo tra la folla. Silvano Calzini L'articolo Edgar Allan Poe parla al nostro cuore: la sua angoscia è anche la nostra proviene da Pangea.
October 17, 2025 / Pangea
Toby Dammit Rewind. Un racconto di Massimo Triolo, “Caleidoscopio-Poe”
Era una notte d’autunno ferma come pietra, in cui il cielo, soffocato da nembi plumbei, sembrava non respirare più. In quei decadenti quartieri, l’aria – sottile e mefitica – si insinuava nei polmoni come un siero etereo e maligno, ma Toby Dammit pareva insensibile a ogni influsso del mondo materiale. L’universo intero era per lui divenuto un teatro desolato, illuminato appena dal chiarore esitante d’una luna che mai trovava riflesso nel mare tempestoso e caotico della sua mente. Camminava a passi pesanti e incerti, tanto lungo la strada che conduceva alla taverna quanto nei meandri oscuri del suo pensiero. Pareva immerso in un abisso senza eco, dove le ombre – ora beffarde e malevole, ora supplichevoli – s’intrecciavano con ciò che ancora rimaneva della realtà. I suoi occhi non erano più strumenti di visione: erano vetrine velate, cieche, come quelle d’un emporio abbandonato, svuotato da tempo d’ogni cosa da offrire, d’ogni vita, d’ogni luce. Un battito cupo, sommerso, pulsava nei recessi più profondi del suo cranio: un suono indistinto, simile al rantolo d’una morte mai compiuta, o d’una fiamma che consuma senza spegnersi. Poi, come accade nei sogni più infausti, anche quel battito cessò. Nei suoi sogni – che non erano sogni ma presagi – tornava sempre lei: la sua Morella. Ma era una presenza umbratile e di sortilegio. Una figura di velo e silenzio, eternamente sospesa in quegli antri interiori che solo il delirio riesce a popolare. Non parlava mai: lo guardava con occhi di vetro e tenebra, come un’onda staccatasi da un mare antico e senza rive. Sembrava scolpita nel gesso, una statua fissata per sempre nell’atto d’ammonire. Ma le sue parole – o quel che di esse Toby immaginava – risonavano senza tregua nella sua mente franta: “Tu mi hai violata, e ora è un plutonico vincolo che ci unisce… Per l’eternità.” Ogni passo nel regno del sogno lo conduceva più vicino a lei, e più lontano da se stesso. La sua mente era uno specchio ridotto in schegge, e in ogni frammento si specchiava la sua perdizione. Se Morella fosse stata solo una visione onirica dissolta all’alba, l’avrebbe forse benedetta. Ma ella era un emblema, un delirio, un simbolo della febbre perpetua dell’anima. Un tormento reso carne solo per strappargliela. La malattia che la consumava anche lui. E nei sogni la sua presenza era ancora più tormentosa, come se fosse messaggera di una colpa che lui non poteva risarcire. La vita di Toby, in quel tempo, si era tramutata in una sequenza di frammenti d’inferno, un dedalo intricato di presenze spettrali che si moltiplicavano e confondevano fino a dissolversi in un aggregato informe, al di là di qualsiasi cognizione sensoriale. Era un delirio costante, slogata dal solco di ciò che è reale e tangibile, e proiettata in incubi di forme vaghe e torturartici della sua anima. Non vi era più un ordine, né un principio che potesse guidarlo attraverso il mondo dei vivi; tutto ciò che lo circondava era ormai piegato e stravolto dalla sua mente, scivolando incessantemente tra la sostanza e l’irreale. La realtà – quel qualcosa che prima gli sembrava tangibile e immutabile – ora gli appariva come una distorsione maligna, un’eco vuota che si perdeva nell’abissale spessore dei suoi sogni febbrili e deliranti, e mentre l’immaginazione s’impossessava di lui, il confine tra ciò che era e ciò che non lo era si annullava, svaniva, lasciando dietro di sé un unico, indefinibile spirito di disfacimento. In questo magma di visioni oniriche e tormenti, un’altra figura tornava a ripresentarsi con una presenza quasi sacra, ma al contempo impossibile da concepire senza disperazione. Ella era Berenice, eppure non lo era, e Toby, tormentato dal contrasto tra la sua mente che definiva, la carne percepita, e l’anima ardentemente bramata, non era pari al dare a questa apparizione né nome né forma, se non come un’epifania di un mondo in cui le leggi dell’umano non avevano più alcun statuto. Non era corpo, né spirito, ma una cosa sola, eppure l’uno e l’altro in un abbraccio mostruoso. Berenice – no, non Berenice, ma piuttosto l’idea di Berenice – si rivelava in Toby come la quintessenza del desiderio e della distruzione, un’immagine forgiata dall’assenza, dall’impossibile. I suoi denti – quegli incredibili, perfetti, insostenibilmente bianchi denti – risplendevano in lui come simbolo di una purezza assoluta e irraggiungibile, come frammenti di un potere divino che, invece di elevare, annientava. Ogni scintillio di essi nella sua mente era una visione abbacinante che lo condannava a un’agonia, ne era certo, non avrebbe mai avuto fine. Non erano denti, ma strumenti erinnici… O sigilli. Sigilli che lo legavano a un desiderio oscuro e carnale, ad una fame che non avrebbe mai potuto essere saziata, un appetito che bruciava d’assenza e tormento. In uno dei suoi più recenti incubi, incubi che non erano più sogno ma continua reiterazione di visioni infernali, Toby trovava il corpo di Morella, disteso nel suo sepolcro, e senza pensare, senza fermarsi, mosso da un impulso che non avrebbe potuto spiegare nemmeno se lo avesse voluto, si avventava sulla sua tomba, riesumandola, liberandola da quella fredda prigione. Ma ciò che il suo corpo toccava non era più Morella, era Berenice. Berenice. L’ossessione si compiva. La figura che giaceva davanti a lui era l’esatto contrario di quello che il nome evocava: era la carne di una donna morta, eppure viva di un’altra forma di vita, quella che si alimentava non di sangue, ma di desiderio inestinguibile.Toby non toccava più la morte di Morella, ma la morte di Berenice, che pure non era mai stata viva, se non nell’abisso della sua fantasia più contorta. Nell’allucinato stato di quell’ultima notte, poi, aveva rivisto sua madre nel letto di morte ed aveva avuto una timida erezione. In quell’istante di suprema decadenza, un fremito lo attraversava: non d’affetto, non di pietà, ma d’un impulso mostruoso, silenzioso, indegno. Ed è in quell’abisso che le figure di Berenice e della madre si erano confuse e fuse, divenendo una sola cosa. Toby avvertiva l’indicibile, il vergognoso, l’orrido: il desiderio di ciò che lo aveva generato. Lì, in quell’attimo, il male, il desiderio, il peccato e l’ossessione si erano fatte una sola cosa, e Toby non aveva più visto né la madre né l’amata, ma solo l’orrore ineffabile di aver amato ciò che lo aveva partorito, ciò che avrebbe dovuto elevarlo e invece lo faceva assoggettato a un desiderio oscuro e nefando, profanatore. In quell’orrore il demone della perversità, gli faceva bramare un passo oltre verso il precipizio, verso la rovina di sé. * Nella taverna, luogo malfamato e di perdizione, l’aria greve di fumo recava risa sguaiate e chiacchiere rumorose e moleste. Toby si sedette davanti a un bicchiere di vino che sembrava l’unico filo di salvezza rimasto tra lui e la follia. Lì, nella penombra di quello scantinato pieno di avvinazzati, la Berenice del suo delirio gli si avvicinò, ma non per parlare. Gli si fece più vicina, come se ogni passo che compiva in direzione di lui fosse un passo verso la sua fine. E quando il volto di Berenice si avvicinò al suo, i suoi occhi divennero fiaccole sataniche, la bocca si spalancò e Toby vide i denti uscirne come artigli affilati: “Mi desideri? Mi desideri ancora?”. Toby ebbe un singulto e sgranando gli occhi tornò alla realtà con lo sguardo fisso su un avventore che lo squadrava incuriosito dalla scena. Il silenzio fu rotto dalle squille bronzine della Chiesa di Saint Sebastian: due rintocchi simili a scossoni nel suo corpo stravolto. Un gatto gli si strusciò alle caviglie. Era nero come un monito e aveva occhi di giada che lo guardavano grandi e profondi. Lo prese per la collottola e se lo pose in grembo per carezzarlo, ma il gatto lo graffiò con l’impeto dinamico di due artigliate profonde su una mano. Non vedeva più dall’ira e lo scagliò lontano da sé. Quello urtò il fianco contro una colonna di legno e si allontanò con incedere malfermo. Toby bevve ancora e ancora e poi uscì in strada in preda ai fumi dell’alcol. I suoi passi risuonavano in modo tetro per le viuzze del borgo. Era quasi giunto a casa ma vide un vecchio cencioso e sporco, dal volto butterato e lo sguardo dilavato, che girava un angolo verso di lui. Non vi badò e il vecchio lo superò proseguendo d’opposta banda alle spalle di Toby. Ma l’orrido più ripugnante si presentò nelle sembianze di un secondo vecchio, identico al primo, che voltò lo stesso angolo incedendo a sua volta in sua direzione. La scena si ripeté talché poté contare sette vecchi identici. Sentiva di perdere la ragione e corse forsennatamente verso casa lasciandosi alle spalle quella vista insostenibile. Giunto davanti al portone fece per cercare le chiavi ma non le trovò. Si vuotò le tasche, frugò la giacca: niente. Dovevano essergli cadute o alla taverna o durante la corsa. Il campanile batté tre rintocchi. Un gatto, anche questo nero, gli si strusciò alle caviglie. La sua corporatura corrispondeva a quella del gatto della taverna, anzi avrebbe potuto essere lo stesso, senonché aveva un’orbita vuota come un cratere nero e un solo occhio azzurro come ghiaccio in una notte di luna. Ne rimase inorridito. Tornò sui suoi passi. In quell’istante comparve in sembianze umane una creatura di cui percepì malvagità estranea a questo mondo, come un gelido refolo da lui a sé. La figura, allampanata in abito scuro elegante si tolse la mantella dello stesso colore ma con una federa cremisi che guizzò nella luce dei lampioni. Fece un inchino e si presentò. Disse di essere un creditore d’anime. Un gentiluomo vecchia maniera che stringeva patti che nessuno dotato di ragione non avrebbe potuto credere allettanti. Un commerciante, a suo modo, solo che vendeva sogni rendendoli realtà. Era come se lo conoscesse ma lo vedesse per la prima volta. Un sogno ormai passato bussò alle porte della sua mente ma lo ricacciò via! Del resto la sua ragione era sfibrata, allo stremo, febbricitante e caotica da tempo, e confondeva i sogni con la realtà, anche per la sua grave dipendenza dall’alcol. “Hai dimenticato queste”, disse l’uomo che gli si stagliava davanti come un basilisco e fece tintinnare appese a due dita le chiavi di casa di Toby. Poi aggiunse: “Hai un desiderio? Com’è vero che sei di carne e ossa, io lo esaudirò.” Lo fissava con occhi di brace carichi di una inquieta attesa. “Se quanto dici è vero. Riporta a me la mia amata Morella. “Sei sicuro di quanto hai chiesto?” “Sì” disse in modo sicuro e stentoreo. “È già qui. Voltati.” Morella era alle sue spalle, alta e bella, la pelle di cera e gli occhi intensi che lo guardavano con un amore velato di angoscia. Non parlava. Restava muta e lo fissava. Inclinò il viso un po’ di lato e versò lacrime arricciando la bocca come se fosse sofferente di una sofferenza innominabile. Poi disse: “Mi sono svegliata e non c’eri. Ti ho cercato… Perché l’hai fatto?” La sua voce era come ovatta intrisa di un liquido. “Morella mia, di che parli?” Le si avvicinò ma lei indietreggiava. Il commerciante d’anime si trasse di tasca un foglio e lo lasciò cadere a terra. Toby guardò sul marciapiede e vide che era un foglio piegato, simile a un sottile cencio di carta lisa. “Raccogli quel foglio. Leggilo, mio amato, creatura infelice,” disse Morella in un sussurro gorgogliante.” L’uomo nerovestito aveva un ghigno feroce stampato in faccia: “Diciamo che quella è una copia del predente accordo. Leggi, leggi pure miserando!” Lui corse con gli occhi sulle righe e capì. Le righe parevano vergate con grafia elegante nel sangue ormai secco e brunito: Bene. Il patto è compiuto. Hai promesso: dovrai restare nella tua dimora con Morella almeno fino al terzo rintocco di questa notte e poi sarete sempre insieme, felici, la sua malattia regredirà e avrete un futuro assieme. Facile, no? Ma, bada bene, se non rispetterai il patto i tuoi incubi peggiori si faranno carne nella tua amata Morella, col suggello del destino della Berenice che sempre sogni. E tu sai cosa hai fatto e continuerai a fare a Berenice. La tua anima sarà dannata nella colpa. Per sempre. Il viso di Morella si fece una smorfia di terrore e pena, spalancò la bocca e un rivo denso e rubino le scese le labbra: non aveva un solo dente. Il misterioso commerciante d’anime aprì la mano destra e ne rovesciò il contenuto sul piancito: ne cadde uno spicinio di denti macchiati di sangue. “Ma… Ma Berenice mi appariva solo in sogno! Non è reale, io non ho colpa, non l’ho fatto davvero!” “Hai la tua Berenice nel corpo di Morella. Prenditela e affoga nella colpa! L’hai sempre desiderata, in fondo. O no?” Improvvisamente ricordò tutto. Si era svegliato nel letto accanto a Morella come con la vivida traccia mnemonica di quello che credeva esser stato un incubo.  Era davvero sicuro di aver sognato tutto? Ma non importava più: sogno o realtà, tutto si compenetrava sinistramente, come in una farragine di attimi indistinguibili. Sul tavolo di cucina un foglio in evidenza campeggiava come un’azzurra, viva bestiola alla luce lunare filtrante dalla finestra. Un richiamo tenace come una voce da un lembo d’Aldilà lo spingeva verso il foglio, come se fosse un oggetto sacro e importante. Vi era posto sopra un calamaio come per metterlo in evidenza.  Il richiamo dell’alcol però l’aveva subito rapito e distratto torcendogli le budella, e si era recato come ogni sera alla taverna per lenire il suo tormento nell’alcol. Morella dormiva, serena, con volto bambino, per la prima dopo tante notti di agonia. Le aveva baciato candidamente la fronte che per una volta non scottava. Felice se n’era compiaciuto ed era andato dietro alle lusinghe dell’alcol. Come ogni sera. Un rintocco dal campanile della piazza era risuonato cupo nell’etere. Non è la vita tutta un sogno dentro al sogno? Massimo Triolo *In copertina: poster di “Toby Dammit”, episodio filmato da Federico Fellini da “Tre passi nel delirio” (1968), tratto dall’opera di Edgar Allan Poe L'articolo Toby Dammit Rewind. Un racconto di Massimo Triolo, “Caleidoscopio-Poe” proviene da Pangea.
September 8, 2025 / Pangea