> “e piuttosto eccedi nell’amore: sono le due ali dello spirito per sollevarti
> al di sopra di tutte le cose terrene e di te stessa” (Maria d’Agreda, Mistica
> Città di Dio. Vita della Vergine Madre di Dio)
> “o nel corpo, o fuori del corpo non so, Dio lo sa” (Seconda Lettera ai
> Corinzi, 12, 2)
> “mentre la terra era vacua e vuota, la tenebra era al di sopra dell’abisso e
> l’alito di Dio aleggiava al di sopra delle acque” (Genesi, 1, 2)
a te, che tutto è cuore.
ne L’anima del mondo e il pensiero del cuore, James Hillman parla dei tre cuori
del mondo: il Cuor di leone, il Cuore di Harvey e il Cuore di Agostino. il Cuor
di leone rimanda al Re, all’oro e al rosso. è il cuore che ha fede nella
battaglia, nell’azione eroica, il cuore dell’agone. il Cuore di Harvey è quello
meccanico, misurabile. il Re di Cuor di leone qui diventa macchina, pezzo di
ricambio, “cuore-orologio”. è il cuore diviso della modernità. per arrivare alla
sua altra metà deve uscire da sé e circumnavigare se stesso. non ha più l’unità
solare del leone, è ambiguo, combattuto. il Cuore di Agostino è l’abisso, il
cuore di un “Io” che si confessa, parla in prima persona. cuore scrigno, cuore
anima “delle tempeste e delle lacrime”, passione della vita personale espressa
nel sentimento. “nell’intimo del mio cuore” (Conf., VII, 10). Confiteor:
ostendere, portare alla luce nello splendore. la preghiera, scrive Hillman,
offre una terapia della confessione quando opera una traslazione a qualcosa di
esterno, a una divinità, a delle figure immaginali di essa, una “capacità
teofanica di portare a visibilità il volto del divino”. Henri Corbin chiama
questa traslazione récit, “racconto”, quell’immaginazione attraverso la quale lo
spirito dal cuore muove verso le origini di tutte le cose. così, l’azione
caratteristica del cuore non è il sentire ma il vedere. il cuore è la sede
della vera imaginatio, e l’immaginazione è la sua voce più autentica. nel suo
studio su Ibn ‘Arabī, Corbin riconosce in questa potenza immaginifica del cuore
l’“himma”, l’enthymesisgreca: l’atto di immaginare, progettare, desiderare
ardentemente. l’himma crea come reali le figure dell’immaginazione in un afflato
panico, rendendole creature autentiche (Hillman 2002). nella Considerazione XXIX
sulla differenza tra teologia mistica e teologia speculativa Jean Gerson scrive
che quando l’intelletto è pervaso dall’amore per le realtà contemplate esso si
protende e si effonde tutto nella cosa desiderata, cercando di trasferirsi e di
unirsi ad essa: “Guardiamo gli occhi di certe persone: come scintillano, come
brillano, come vorrebbero riuscire ad abbracciare avidamente tutto” (Gerson
1992, 155). ciò è vicino alla volontà gioiosa dell’himma. i mistici Hanafi
Al-Khālidi e Ibn Mustāfā al-Kumush riconoscono diversi stadi dell’himma. il
primo è l’himma del risveglio (himmat al-ifāqa), l’attaccamento del cuore a Dio.
questa himma, che apre il cammino che porta all’essenza di Dio, fa in modo che
il “servitore” percepisca veramente quello che desidera attraverso l’“intuizione
chiara”. volgere la propria attenzione a Dio significa astenersi da ogni altra
riflessione o obiettivo:
con parole tue, “essere con, essere verso”
nel cono dell’unità. l’amore tende all’unità, “è la forza divina che supera le
distinzioni e compie ogni unità” (Barsotti 2002). per Ibn Mustāfā al-Kumush dai
primi stadi in cui l’himma è legata all’obbedienza di Dio si distoglierà
l’attenzione da ciò che effimero fino a portare tutte le himma ad una sola,
“l’attaccamento del proprio cuore alla felicità che sempre rimane”, ad
abbracciare l’amore divino,
in quell’“amore selvatico, che avvampava senza pensiero e senza margine”
per Ibn ‘Arabī progressivamente si arriva allo stadio in cui gli gnostici,
entrando in connessione con l’unità divina, scorgono l’unicità dietro la
molteplicità dei fenomeni; vanno oltre la realtà delle cose e vedono se stessi
come una manifestazione della realtà ultima, che è Dio. lasciando andare tutte
le cose nell’ascensione attraverso le tappe dell’himma alla fine resta solo Dio
(Lala 2023). allo stesso modo nel Salmo dell’estasi di Davide Agostino dice che
“nell’uscire da sé della mente si scorgono due cose, il timore o l’anelito alle
cose celesti sino al punto che, in un certo modo, vengono meno dalla memoria le
cose terrene” (Comm. ai Salmi, “Sullo stesso Salmo 30, Esposizione II”, Discorso
I, 2). questo impeto di accoglienza del divino è la capacità di dilatazione del
cuore data dal desiderio risoluto di ricevere Dio.
> SIGNORE, davanti a te è tutto il mio desiderio (Sal 38)
lo spazio interiore dell’essere umano è incommensurabilmente più angusto
dell’“amplissimo a largo” di Dio, eppure egli desidera ardentemente riceverlo, e
questa ricezione è possibile grazie alla capacità di dilatazione gioiosa del
cuore. rispetto ad essa, Agostino pensa che non si possa separare l’interno
dall’esterno poiché la dilatatio cordis, segno e attestazione della grazia, è
“ospitalità”, in cui host e guest
sono indistinguibili. la gioia è l’arrivo in noi di un “invitato improvvisato”
(Chrétien 2007, 62), lo Spirito Santo, che non siamo capaci di ricevere ma che
riceviamo dilatandoci, provando un desiderio acuto e intensificato. il mistico
domenicano Louis Chardon parla della dilatazione come di qualcosa di vertiginoso
che coglie quanti sono sul bordo dell’abisso dell’infinità divina, davanti alla
quale anche l’amore smisurato è insufficiente. per il mistico eremita Richard
Rolle nella dilatazione l’anima si riempie di una dolcezza di miele e il cuore,
cercando di stringere a sé questa dolcezza, compie uno sforzo continuo per
abbracciare l’incommensurabile e si dilata sempre di più (Chrétien 2007). il
desiderio di accogliere Dio non può non accompagnarsi a una purificazione del
cuore:
> “Angusta è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: allargala dunque;
> è in rovina: restaurala; alcune cose contiene, che possono offendere la tua
> vista, lo ammetto e ne sono consapevole: ma chi potrà purificarla, a chi
> griderò se non a te” (Conf., 1, 5; 6).
per Agostino è Dio che ci dilata. rimanere ‘rincuorati’ nel desiderio di Dio
secondo fede, speranza e carità, quest’ultima potenza dilatante per eccellenza,
è la condizione affinché la dilatazione avvenga; in questo modo l’essere umano
diventa capiente per accogliere Dio.
nel tuo arazzo celeste i tre cuori trovano il loro compimento, i loro cammini
diversi e complementari si intersecano, rondini inebriate. volta all’altissimo,
ma ti abbeveri all’anima mundi con il cuore netto del leone, non dimentichi cosa
fa della Terra la casa di una splendida finitudine:
> “Se solo ricordassimo l’argento che guizza nei pesci, la matematica del
> planare, come libero è il gettarsi in volo: rannicchiati fino al cielo i rami
> con la loro quiete, adorano nel sole l’umile eternità che, nelle radici, gli
> fa da madre senza sapere l’abbandono. Perché non sia dimenticato che pieno
> d’oro è il salire. Pieno di spettacolo”.
lo spettacolo del cuore immaginifico che si nutre della propria fantasmagoria di
bellezza. e allo stesso tempo segui “un’aorta incerta”, accogli il cuore diviso
esposto alla beatitudine e alla disperazione, fai luce della sua confessione.
“Guarda là”
torni giù al guardare, strumento degli esseri umani, a “queste macchine
produttive del dolore”, a “questi margini allibiti, che portano l’incisione ad
armarsi d’ombra”. ritagli i bordi pesanti. eppure in compassione.
“e ulcere di legna verde, solo braciere la preghiera”
quella preghiera che sboccia acerba, a tentoni, “l’inizio sempre randagio”
per Gerson, come la legna verde fatica a ricevere il calore del fuoco per
accendersi a sua somiglianza, così colui che è destinato a ricevere il calore
dello Spirito santo e ad attingere all’amore puro dovrà sottoporsi alla
disciplina della penitenza. nel fuoco dell’amore la meditazione non cerca la
verità speculativa ma la compunzione che fa seguito alla scoperta della verità,
una penitenza necessaria per intraprendere il cammino verso la teologia mistica,
il cammino verso “l’abbraccio dell’amore unitivo” (Gerson 1992, 151),
del “crollare di candore”, “petto scalzo”,
> “il dolore rabdomante trova il corpo per dargli il suo cerchio di pace,
> disfandogli la boria di ogni saldezza dorsale: quello che placa è lo stare in
> ginocchio: nella nuda resa s’incontra l’eterno”
> “santuari di rotta carità nel preciso istante della resa, che è qui che si
> frana, su sé stessi di spalle”
Ti basta la mia grazia, poiché la forza si manifesta pienamente nella
debolezza (Seconda Lettera ai Corinzi, 12, 9).
si crolla di candore nello spavento della bellezza del divino,
> “Nel rosso cuore mio battente si posa il tuo nome, accanto alla paura,”
nello sguardo che sostiene a fatica la sua visione, poiché ogni sguardo non
trova avvenire che nello stesso luogo della sua estenuazione (Chrétien 1987),
ché nessun essere umano può guardare a Dio senza accecarsi. solo l’amore può
sostenere lo sguardo di eccesso dell’Amore, accomodarsi nell’abbaglio alla sua
evidenza, cioè alla sua prova (Marion 2018). questo principio di ostensione
insito nella confessione, nel crollo, che si esplicita nell’offerta dello
scrigno del terzo cuore, è, con le parole di Michel Henry, l’auto-rivelazione
della vita (Henry 2000). la vita parla nel cuore, nella sua “auto-rivelazione
patica immediata”, dove lo spazio tra la senzienza e la sua esplicitazione,
sotto forma di pensiero o linguaggio corrente, è annullato. dalla matrice prima
all’individuo, la tua fermagenesi è l’evento vitale di auto-donazione, e quindi
di auto-rivelazione, che non si guarda, fuori dal mondo, curvo sulla propria
pulsazione. cos’è che si dona a se stesso senza mondo, senza che la donazione
consista in un mondo? la vita. “la vita è qualcosa che prova se stessa”, scrive
Henry, prima cosa originaria, senza intenzionalità, “proprio perché l’assenza di
finalità, l’assenza di intenzione è l’essenza della bellezza del mondo” (Weil
2008, 135). e allo stesso tempo ha una soggettività assoluta, non risponde a un
“Io”, ai ruoli dell’identità. è oltre la messa in atto della rappresentazione,
sottratta ad ogni orizzonte di visibilità (Henry 2001). così tu, nel rovescio,
nel concavo, nell’inverso, sottrai in pudore quello che ami, per soverchiamento.
un privativo da cui sussurrare quell’infinito che arriva all’Uno, parafrasando
Meister Eckhart, gravida del nulla:
> “l’indimostrabile del cosmo che vibra”
vivere nell’immanenza della vita che prova se stessa nel mistero della simbiosi
tra gioia e sofferenza. in questo senso per Henry la nascita non è ‘venire al
mondo’, poiché siamo già nell’ostensione vitale della Vita assoluta. venire al
mondo implica un’intenzionalità, una coscienza, mentre la vita ci viene di per
sé, viene a sé e ci genera in quanto incessante auto-affezione.
fermagenesi nel suo mentre.
> “Rossi erano i cuori, battenti, un attimo prima del mondo”
si è dati a se stessi senza che questa donazione rilevi da se stessi. non siamo
affetti da null’altro, generati come un Sé nell’auto-affezione della Vita
assoluta. e se chiamiamo la vita Dio, allora il Sé è la condizione della
possibilità trascendentale di ogni individualità concepibile: “Dio mi genera
come se stesso” (Meister Eckhart in Henry 2004, 132). Una Vita inesprimibile con
il linguaggio, puro avvenimento,
> “ortogonale al parlato,
> è l’ago di luce che pronuncia l’essere di ognuno tacendo”
per questo la scienza non può fondare l’individuo, il cui anelito a liberarsi
dal confine, dalla misura che vige nel mondo terreno, all’alterità circoscritta
ed empirica attraverso gli oggetti, è nel rovesciamento di Novalis: “Quando non
saranno più i numeri e le figure/ Che gireranno le chiavi di tutte le creature,/
Quando coloro che cantano e abbracciano/Ne sapranno più dei profondi dottori
[…]/ Quando il mondo si sarà arreso/ Alla vita libera e sarà restituito al
mondo, […]/ Allora basterà una sola parola segreta/ Perché si involi tutto il
modo di essere rovesciato delle cose” (Novalis in Marion 2014, 242). ossia la
‘realtà’ empirica del senso comune.
> “il denaro come un’ara di plastica, che canta i numeri per fare più marcate le
> ombre”
> “mentre tutto tramonta e spiffera il segreto”
mi vengono in mente “Hilda Welcomed” e “Communication”, due opere di Stanley
Spencer in cui le persone si abbracciano in modo quasi ossessivo in un intreccio
che disegna linee energetiche. Spencer dipinge esseri difformi, tremolanti,
presi nella vibrazione che sottende quello che è visibile, solo apparentemente
‘dritto’. gesti apocalittici, torti, visti attraverso la lente aberrante
dell’amore, portatori di cuore selvatico e scosso. i personaggi di Spencer sono
colti nelle loro azioni quotidiane ma sembra che tutto sia immobile, rapito in
una vertigine sotterranea che scuffia lo spazio, i corpi, senza spostarli. in
una delle sue Crocifissioni (1958), la scena sovrasta i tetti delle case di
mattoni di una cittadina dei primi del ’900. il Cristo guarda verso l’alto
mentre due sgherri con un ventaglio di chiodi tra le labbra glieli piantano
nelle mani. ai piedi della croce, una figura femminile è prostata a terra con le
braccia divaricate. nei quadri di Spencer le braccia sono elemento vivo. nella
Crocifissione si confondono con le assi della croce. braccia protese, levate,
continua invocazione verso un abbraccio superiore di Amore verso cui si tende
vibrando, “essere verso”. anche Spencer anela all’altissimo guardando con
compassione le creature del suo sottomondo, l’infinitamente piccolo, mortale,
orfano, dell’incommensurabile evento di fermagenesi.
più che rovesciamento essa è arrovesciamento, terremoto da fermi che vivifica
non i cuori materia ma il loro rosso.
> “un plotone di cuori rossi battenti nelle fiamme mai prese al laccio”
lo scintillio del fuoco fa presagire un mondo in cui non ci sarà più che il
fuoco del baleno, dove ogni cosa sarà come un fulmine (Chrétien 1992). “Rimani,
se puoi, proprio in quel primo istante in cui sei attraversato da un lampo,
quando viene detto: ‘verità’” (Agostino in Meister Eckhart, 2013, 85). rosso non
è un colore, è perenne gioco di specchi tra l’arsura del credente nella sua
protensione e la fiamma del Sacro Cuore, che chiama colui che crede,
incarnazione del sacrificio cristico,
> “sangue acceso di fiume aperto”
creatura di saturazione, il cuore cinto di spine apparso a Margherita Maria
Alacoque, conchiuso nel corpo straziato di Cristo. rosso dono totale, dono senza
intelletto che aderisce come la cieca fedeltà animale al suo versamento.
Margherita Maria lo accoglie nel suo stesso seno. Giovanni della Croce parla del
“volo” “alto e leggero di contemplazione” della colomba, arsa nell’amore,
“rapimento ed estasi dello spirito a Dio” (Canto spirituale B, 13, 7-8). cuore
nella sua transverberazione, “ferita d’amore”, un tocco d’amore che come saetta
di fuoco ferisce e trapassa l’anima, “fiamma d’amor viva”, Spirito Santo. “Nel
frattempo – dice Beatrice di Nazareth – l’Amore si fa talmente smisurato e
soverchiante nell’anima, come fuoco la marchia nel cuore, che è come se il cuore
fosse trafitto da ogni dove” (I sette modi del santo Amore). e così Teresa
d’Avila: “Mi colpì con una freccia/ Avvelenata d’amore,/ E la mia anima divenne/
Una cosa sola con il suo Creatore” (“Sulle parole ‘Dilectus meus mihi’”).
> “bocciolo di punta”
rosso come risposta alla chiamata di Dio. una chiamata che fende gli epifenomeni
del senso comune e solleva la pura vita alla pura vita, la chiamata cui non deve
seguire la parola perché ogni nostra reazione risponde ad “un’eco immemoriale,
nella caduta di un doppio eccesso” (Chrétien 1992, 30), chiamata nella totalità
del mondo in cui non si è che nel coro di una perpetua incoazione, nel mentre
dell’auto-donazione. questa chiamata all’essere non è temporale, ma eterna e
istantanea. per risuonare nella verità non può che risuonare nel vuoto,
radicalmente altra dalle chiamate terrene che sollecitano il possibile, il
contingente. “Per costituire, destituisce. Per dare, priva. Per creare, disgrega
tutto quello che si considerasse forte di per sé prima della chiamata o
indipendentemente da essa” (Idem, 33).
penso a quanto tu ripeta di questo travaglio cangiante alla chiamata, un pigolìo
di preghiera che ti ruscella nel torace, e incessantemente riannodi braccia e
gambe con una pazienza insopportabile. ti smonti e poi riprendi ogni pezzo in un
tuo brusio ardente caro alla nullità. così testarda nell’amore, rannicchiata in
una cavità in cui rinbomba un avvento che ti lascia sola. mi assale, questo tuo
bianco che sbocca, si apre in corolle di ghiaccio e sconfina verticale, Candida
Rosa. ma scrivi dell’estrema cima perché hai guardato in attenzione coloro che
sopra non scorgono. aneli da basso, cucendo i tuoi angeli di organza. saperti lì
assorta, ogni nuova infanzia.
Cristiana Panella
*
Riferimenti bibliografici
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Lala, Ismail, “Turning Religious Experience into Reality: The Spiritual Power of
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Marion, Jean-Luc, Certezze negative, Firenze: Le Lettere, 2014.
Marion, Jean-Luc, Prolégomène à la charité. Parigi: Grasset, 2018.
Meister Eckhart, Commenti all’Antico Testamento. Testo latino a fronte. A cura
di Marco Vannini. Milano: Bompiani, 2013.
Teresa d’Avila, Tutte le opere. Testo spagnolo a fronte. A cura di Massimo
Bettetini. Milano: Bompiani per Giunti Editore, 2018.
Weil, Simon, Attesa di Dio. Milano: Adelphi, 2008.
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