Caro Vincenzo Frungillo,
è teatro perenne il tuo, scavo nella terra della parola. Non so se più Dante o
Vico, se più Artaud o Eluard. Si assiste a questo: da quello scavo avviene un
moto in risalita, insieme al crescere dei testi, uno sull’altro, impalcature,
all’inizio, poi si vede sfoggiare la facciata intera dell’edificio, mentre sotto
rimane la brace “[…] una torre di Resia sospesa nel lago,/ con un filo a piombo/
nella madre terra” (pag. 13). Parlo de La luce dell’eclissi (La vita felice,
2025). E come si spande l’eterno!, niente lo trattiene “[…] così si allunga la
linea della vita/ oltre il palmo di una mano,/ a segnare la riserva di carne
[…]” (pag. 14).
La scena è quella di un teatro del tempo, che annulla e riflette l’uomo, lo
moltiplica e lo esalta. Quante mortificazioni stanno sulla soglia,
imperversanti, fin dalla prima azione. Un fantasma sembra non mentire, in realtà
è falso.
“Cade verso un letto, cade di nuovo,
non smette di cadere, cade verso un letto,
si rialza, cade di nuovo, s’addormenta,
si sveglia, la prima immagine che vede
è ciò che spera, affila l’idea, ci lavora,
approssima la forma, l’avvicina all’orizzonte
– deve sopravvivere agli eventi –
gioca di fino, assottiglia il simulacro,
ora è un riparo, un recinto, mette a fuoco,
la prima immagine che vede è un cerchio,
con dentro un altro cerchio,
una macchia scura che diventa figura,
poi scena, habitat naturale, maniera.
Ci pensa, e ci ripensa, tra sé e il nulla.”
Tutto è falso, la verità sta in una particolare predisposizione dello sguardo:
osservare come s’inverte il passato, come si sdoppia. Una direzione procede
verso il futuro, apparentemente in avanti, un’altra rielabora ciò che è stato e
non cede, grida la sua sconfitta. “Si ripara in una piega che non è sua,/ si
abitua ad un’idea fino a darle forma,/ si difende dall’incedere delle ombre,/
dall’estraneo che bussa alla porta […]” (pag. 22). Puoi chiuderti dentro un
armadio, ma non c’è spazio, ogni cosa è più grande, grida la sua remota
immagine, immobile, significativa, che chiede conferma. Ma come?, ancora?, non è
bastato quello che abbiamo subito?
“Se dovessi indicare un inizio,
direi che è questo, lo spettro,
un fantasma che arriva,
e sai che arriva quando è già dentro”
Teatro della crudeltà, dove per crudeltà s’intende il lavoro che lo sguardo fa
sulle cose, offrendole, trasmettendole nella loro concezione carnale, sul punto
di svanire, su quel punto di… Cosa sta accadendo? “È sempre ripetere negando/ il
buco nero che ci sta accanto […]” (pag. 25). Eppure una rosa si protende e
parla. Figurati, una rosa! “[…] un salto temporale,/ che annulla la resistenza/
della quarta parete” (p. 39). Il poeta l’ascolta dalla parola che viene a
rivelarsi.
“La vita” ora ripete “non ha fine,
anche se resta in uno spazio chiuso,
è una rosa che si apre nel buio,
quando si stringono gli occhi e la luce
è catturata in una forma scura;
è la corolla della chiesa all’imbrunire,
quando il marmo perde le sue venature;
è la ferita che aumenta di volume
quando sussurro la parola padre,
mentre divento l’oggetto del suo male.”
Il teatro fatto di versi diventa scena metafisica, per dire in che cosa consiste
la poesia, l’umano, il vero, la natura. Capovolgiamo il mondo, specchiamolo. Non
so riportare in grafica le liriche della sezione intitolata Atto terzo, ma posso
descrivere la loro forma a triangolo, anzi, due triangoli uniti al vertice da
una parola o una lettera. Appena una parola o una lettera, al centro, che
ribalta la base del triangolo alto giù in basso, facendo assomigliare l’immagine
a una clessidra.
Se il disegno, o la parola che incarna è “una rosa bianca”, qui Artaud esce di
scena, lui che ha prospettato l’uscita di scena dell’autore, ora resta
sottoforma di fantasma; il corpo sofferente continua a gemere il martire che è
stato, precipita in sé stesso, anima che piomba nella propria carne devastata,
che grida facendo stridere la sua voce, attraverso i microfoni di una diretta
lontana nel tempo, al limite e senza più voce, in quanto anch’egli suicidato
dalla società. È per questo, caro amico, che puoi dire: “[…] l’incavo d’un
padre/ colpito alla schiena dal male […]” (pag. 53), oppure: “[…] l’istante
della rosa,/ il principio in cui tutto torna” (pag. 54), o ancora: “[…] Sono/
parola che illumina/ l’increato che mi sta intorno./ Faccio da specchio al vuoto
dell’universo” (pag. 57).
Come posso continuare, amico mio? La rosa è citata non so quante volte, diventa
il progetto per una messa in scena che riguarda Hans e Sophie Scholl, fondatori
e membri dell’organizzazione di resistenza al nazismo, La Rosa Bianca, appunto.
A questo s’intreccia il tema di Napoli. Napoli è un apice del bisogno nazionale,
ma il tragico è rimandato, sembra protetto dall’abisso che non arriva mai.
Lo sterminator Vesevo dorme, grazia la terra. Le forze in campo, i personaggi
che difendono dall’ecatombe (la madre e il padre, in particolare), salvano dalla
disfatta la città, che è la luce dell’eclissi, in grado di proporre una catarsi
millenaria, forse effetto di un più vero sterminatore dominante, fatto di un
intreccio indissolubile: il tempo, la storia, che paradossalmente risparmiano,
pazientano, rimandano a una maggiore radicalità dell’umano, che ogni volta
devia, trova il suo sviluppo in fantasmi primordiali, balenanti sulla scena
afflitta, di pensiero che tradisce la speranza. Scena eterna, antica, subito
scomposta in una sorta di assurdo cerimoniale presente. Non sarà possibile
evitare tanto dolore alla città, sembra testimoniare il libro, attraverso le
voci dei protagonisti, tra sconfitta e nuova visione. Di seguito, una delle
ultime poesie, a pagina 84.
“Mi credi un principe barocco,
una sposa del mezzogiorno,
ma sono la sorgente
che scopristi da ragazzo
in una serra, tra i palmeti;
era a Napoli, un luogo benedetto.
Quella visione ti ha reso vedovo,
vesti di nero, da allora.
Parlo a chi non ascolta,
alle parole della tradizione,
vergini invecchiate in fretta,
girano microfonate,
non hanno una regia,
esigono una vittima.”
Vincenzo Gambardella
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