Ogni struttura umana si rivela per incrinatura. Per Vladimir
Jankélévitch l’instant è una cesura generativa: il tempo, nel suo spezzarsi,
diviene occasione di creazione ermeneutica, morale e artistica. È nel cedimento
del simulacro che l’annuncio trova il suo varco: la fragilità è una categoria
dello spirito, una condizione del vero.
L’anello debole di Angelica Grivel Serra si muove in questo territorio sottile,
dove la fenditura diventa passaggio. Come nei Claros del bosque di María
Zambrano, l’oscuramento prelude al barlume. Ogni bemolle, ogni sincope, ogni
flessione emotiva concorre a questo discernimento: s’acquisisce nozione nel
lasciar cedere, nel contemplare la disgregazione.
Se l’instabilità è il principio che lascia affiorare il sostrato dell’essere,
ebbene ciò che declina, dischiude. René Char: “L’essentiel est sans cesse menacé
par l’insignifiant”[1]; e ancora: “Nous habitons un éclat de temps qui a refusé
de servir”[2]: è il suono fecondo di ciò che si spezza.
Nell’anello debole di Angelica Grivel Serra, lo screzio frange la forma e
l’attraversa, rendendola significante. Il testo di Grivel Serra riconosce nella
vulnerabilità il luogo del disvelamento: quell’istante del quasi nulla,
le presque-rien di Jankélévitch, che rifonda il reale. Ciò che sembra marginale
o inconsistente – un cenno, un’intonazione, un silenzio – denuda strutture
profonde, sin lì trattenute nell’implicito.
Tra luci e ombre parentali, L’anello debole racconta un brusco cambio di
direzione nella storia della famiglia Raccis: ne decifra l’invisibile anatomia
morale, i nodi di sangue, che stringono e reggono la trama del vivere; poi ne
dice gli eventi, unendo l’eco del mito domestico a una coscienza lucida,
dissettiva; pure, con un linguaggio sinfonico, vibrante; soffice come un
broccato.
La morte di Piera Raccis costituisce il fulcro da cui si irradia la tensione del
narrato: un centro di rifrazione da cui potenze elementari – disamore, denaro,
colpa, potere – trapelano nella loro essenza corrosiva. L’opera si configura
come una progressione di cerchi concentrici: il male vorace di Piera, la crisi
relazionale tra Claudio e la sorella, il degrado del ceppo familiare principe,
lo smarrimento del senso intrinseco del legame. L’anello che si spezza è, in
quest’ottica, la metafora di una catena più ampia — biologica, genealogica,
etica — che non regge più il peso della propria storia.
La figura di Claudio – anello debole – incarna un destino cagionevole che è
insieme reo e incolpevole: segnato, come nei tragici. Nella genealogia dei
Raccis, è lui il punto di frattura, la fiacchezza che tutto dissesta; e, nel
bilico, distende e dipana. Il disegno narrativo si muove attorno a questo
paradosso morale, restituendo il dramma di un mondo che freme tra lealtà e
diserzione, tra origine ed estraneità.
La dinastia Raccis, col suo ordito di rancori, omissioni e piccoli tradimenti,
si fa teatro del sospetto e del disamore. In essa si riflettono i meccanismi
segreganti e inquisitori della società contemporanea: la competizione travestita
da affetto, la gerarchia dei ruoli, l’eclissi del perdono.
A fronte di questo, c’è la piccola famiglia, nucleo-diamante di sopravvissuti:
coronata di faticosi valori, ma senza sublimazione: c’è l’inciampo, l’imbarazzo;
il turbamento, il dissidio, la criticità del denaro. L’esitazione, il
disinganno, il coraggio. Il coraggio, sopra ogni cosa, e l’umiltà e la dignità.
Cecilia, la Madre: amazzone del rigore, a districare l’entropia in ogni minimo
gesto quotidiano, a svelare i fulgori, uno a uno, dei propri figli, scartandoli
“dall’involucro dell’inespresso”, modulando sproni e consolazioni. Maieutica
accurata di custode. E poi, la scelta dell’uomo semplice: Claudio, anello
debole, pare inidoneo, incompiuto, eppure leale oltre il pensabile: lignaggio
d’uomo che si rivela nella durata, nel compito apparentemente basso: fischietta
nel mondare, nel depurare, brilla di devozione. C’è una mistica sottile nel
racconto di Grivel Serra, una filigrana valoriale di adorabile ascendenza:
quella propensione al voto fidato, alla speranza.
Letto in profondità, il testo si schiude come un’allegoria di cedimento
collettivo: reso manifesto nella cellula allargata della famiglia apparente,
sconfessato nel nucleo minimo. La stirpe dei Raccis incarna l’agonia di
un’equità più vasta, comunitaria. L’hospice iniziale, dove Piera si spegne,
spazio tra vita e dissoluzione, è dove la durata cede; allo stesso modo, il
tavolo domestico di una fatidica cena è il punto in cui un’illusoria quiete muta
in contesa e rancore. Come in Moravia, la scena domestica è per Grivel Serra un
teatro di conflitto e di discernimento, di prova e di resa dei conti, e tuttavia
il suo linguaggio conserva un’armonia lirica, paradossale e pacificata.
L’autrice dosa con intelligenza le forze del tempo narrativo. L’alternanza tra
il tempo interno – i pensieri, i flashback, le risacche della memoria – e quello
esterno – le azioni, i gesti, gli scarti dialogici – si compone in un equilibrio
mirabile. I personaggi, anziché banalmente enunciati, affiorano piuttosto per
micro-rivelazioni: uno sguardo, uno scambio verbale, un atteggiamento corporeo.
Il dialogo descrive e determina, mentre il sottaciuto rifonda continuamente il
senso.
La voce narrante di Grivel Serra è diafana ma vigile, pare concedersi
all’ascolto più che alla direzione: un sismografo dell’anima collettiva, che per
ogni inflessione crea asilo e risonanza. La struttura del libro, di notevole
coesione formale, alterna l’evento e il ricordo, la voce interiore e la
restituzione scenica, con una piena padronanza degl’impianti narrativi. La
gestione del ritmo – con aperture dilatate e improvvise concentrazioni
drammatiche – consente all’artefice di far emergere il non detto come nucleo
tellurico di verità ulteriore del romanzo. In sintonia con i grandi moralisti
del Novecento, il narrato assume il dolore come via di conoscenza: la narrazione
sostiene sino alla fine un’alta densità normativa e simbolica, in cui la realtà
parentale è laboratorio di riflessione: sull’umano, sul vincolo; su colpa e
riscatto.
In questa ricerca gli ambienti sono determinanti: spazi intimi, segnati da cura
e rimembranza, parimenti ad angosce e amarezze: l’hospice come limen di congedo,
la casa come ventre originario, il giardino come apertura all’aria e alla luce;
e i luoghi mentali del ricordo: stanze morali – per avvicinarsi a concetti cari
a Thomas Mann[3] – che raccolgono le forze contrapposte degli eventi: la
dedizione e il risentimento, l’impulso e la misura, la tenuta e la resa.
Il dialogo tra piani temporali e voci interiori rimanda, per coerenza interna,
progettualità testuale e afflato etico, a certi modelli del romanzo novecentesco
europeo: l’intensità morale di Bernanos, la coralità di Faulkner, la limpidezza
di Ginzburg nell’elevare la cosa familiare a paradigma del destino collettivo.
Di fatto, la pagina attraversa la molteplicità, per usare la terminologia di
Calvino – enciclopedismo gaddiano incluso, come nel gentile edonismo della
pratica culinaria, così cromatico, lussureggiante[4] – per approdare
all’esattezza: dal groviglio delle presenze e azioni umane traspare una
razionalità, una sorta di geometria delle essenze che arriva a delineare un
messaggio cifrato, progressivo. In tal modo, l’opera si colloca in quella “zona
d’ordine” evocata dallo stesso Calvino[5], dove la scrittura si fa forma viva
dell’esistente, capace di sottrarre frammenti di significato al vortice
entropico del reale.
La lingua di Grivel Serra costituisce uno dei nuclei di maggior rilievo del suo
lavoro, perché unisce l’ardore armonioso e pulsante della parola poetica a una
disciplina sintattica di grande eleganza. Si tratta di una prosa levigata e,
insieme, sontuosa, in cui la densità semantica non compromette la leggibilità.
La scelta di un registro alto, mai retorico – talvolta accarezzato da un’ironia
appena percepibile – permette di rappresentare la complessità dei sentimenti
senza patetismi. La qualità musicale della frase, il ritmo modulato tra piani e
accelerazioni, il gusto per la precisione sensoriale e per il brillio delle cose
quotidiane – una finestra, un tessuto, un piatto di frutta – sono indizi di un
controllo stilistico che colloca l’autrice in una linea di grande
consapevolezza.
Rispetto alle attuali tendenze al minimalismo e all’omologazione stilistica, il
linguaggio di Grivel Serra, pur sorvegliatissimo, ha un impulso eversivo: a
cesellare e vivificare. Vi sono personaggi-simulacro, come la nonna Armida, così
intagliata e fatale; o il cugino Riccardo, sovrano di candida dolcezza, volto
maestro, garante di pace: il quale, sebbene nell’esile misura della senilità,
genera, in chi gli gravita accanto, un “improvviso decollo spirituale, cumuli di
tenerezza, sorprendenti rive di conforto”.
Le descrizioni sanno essere fosche, rugginose, intrise di un medievo del male –
“un cancro le aveva retroflesso, illividito, divorato la mammella che copriva il
cuore” –, i cui cupi grappoli sinestesici preludono sovente a improvvise,
cordiali schiarite; similmente, a latere dei tragici accadimenti dati
nell’intreccio, la scrittura si consacra, intarsiata e generosa, sino a una
dorsale dove eros, materia e pietas si sfiorano in un bagliore originario.
Il cibo è certamente la manifestazione più immediata di vitalismo sensuale:
l’azione dell’approntare, del preparare, mostra, a corollario della precisione,
un brio erotico sfolgorante: “Sin dalle sette della sera, l’inconfondibile
profumo balsamico dell’abete di Natale si alternava con la fragrante, croccante
e aulentissima menta della sfogliata di pecorino, a pervadere in sintonia tutta
la casa. Le lamelle di carasau, base della sfogliata, rispondevano alle attese
dei morsi, ben umettate già dalla sera prima con tre mestoli del brodo di pollo
impreziosito da tre cuori di carciofo, quattro carote, due piccole cipolle, una
rossa, una bianca, un mazzo di prezzemolo e sei rosseggianti pomodorini secchi.
Quei tre mestoli avevano la provvidenziale mansione d’imbibire l’alternanza di
strati a comporre il sapore corposo e allegro della sfogliata, nell’avvicendarsi
di fette del fresco, dolce e filante pecorino giovane di venti giorni di
maturazione a quelle del veterano pecorino mezzo stagionato, dalla bionda pasta
occhiellata. Strato dopo strato, si raggiungeva la cima, e lì la sfogliata
esibiva la menta, a catinelle, assisa in tripudio.”
Nondimeno, l’anello debole è percorso da una sensualità diffusa, che investe i
chiarori, gli elementi, i corpi e la lingua stessa. Ciò che vive trasfonde
un’energia primaria, un’intenzione: è la resistenza del sensibile, alla cui
chiamata il gesto percettivo accorre: è antidoto alla desolazione il seguitare a
toccare il mondo.
C’è luce carnale, tattile, non mistica: una sostanza che investe i corpi e li
definisce: palmare e densa, corteggia gli oggetti, li innamora. E c’è una grande
attenzione olfattiva e tattile: l’aroma di ricotta, limone e arancia
delle pardulette, il profumo acerbo delle giovani albicocche, il riso basmati e
il suo “sentore gioioso di popcorn e sala buia di cinema”; o l’odore sacro
d’incenso, il vapore buono della doccia; i tessuti, la polvere, le stoviglie, la
pelle: tutto vive e odora come un organismo.
Questa sensualità diffusa trasforma la sostanza in linguaggio affettivo: il
cosmo reagisce, ha temperatura, spessore, attrito. Gli oggetti sono investiti di
un calore percettivo che li sottrae all’inerzia. In accezione bachelardiana,
potremmo dire che Grivel Serra ridesta le fibre del visibile.
E così la cura, che è diligenza, assiduità; ma creativa, sempre sorretta da
soave tepore sensoriale: la casa che, da “scatola da scarpe, umida come una
fungaia”, diviene dimora incantata per “radicale correzione”. Tutto parla di un
ordine magnifico del cuore, in specie nell’asse femminile, in splendida
dialettica con quello maschile, così teneramente imbibito di bellezza fragile,
se pur fisicamente poderosa: Rocco, il fratello di avvenenza alessandrina, le
sue nitidezze statuarie, a rilievo. Claudio, padre ritrovato, intento tra
“bulloni”, “nastri isolanti, rondelle, grasso, salviette da pulizia”, che
ritorna il venerdì ancora in tenuta da operaio, “con quel furore segnaletico di
rosso e grigio” avvolto nella nobiltà della stanchezza. Nell’anello debole di
Grivel Serra maschile e femminile sono tesi nel cercarsi, talora oltraggiarsi, e
ridarsi alla luce: la morbidezza tutta muliebre che, nascostamente, sostiene e
consola; il fare, nativamente materico, intensamente virile, che riporta al
dinamismo dell’utilità, fino al culmine del riorientamento nello Spirito, che
sia piano e limpido il saper attuarsi. “Perché il retaggio di un uomo si
determina dal modo in cui finisce la sua storia”.
Angelica Grivel Serra con L’anello debole, nell’equilibrare linearità diegetica
e profondità psicologica, intensità materica e sottigliezze spirituali,
circolarità del tempo assise in riverberi e proiezioni, sembra raccogliere
l’eredità di un Novecento ancora sospeso, col suo portato d’incanti e policrome
risonanze; nondimeno mettendo a fuoco, con incisivo acume, la condizione umana
presente: scissa tra vincolo e spaesamento, tra anelito al casato e tensione
alla libertà. Un racconto dall’aura quasi esemplare, di parabola, che rinviene
nella lacuna, nella pecca – con moto quietamente metafisico – possibili
redenzioni e inedite lealtà.
Isabella Bignozzi
*In copertina e nel testo: disegni di Georges Seurat (1859-1891)
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[1] Feuillet 62, in Feuillets d’Hypnos, Gallimard 1946; poi in Œuvres complètes,
coll. “Bibliothèque de la Pléiade”, Gallimard, 1983 e successive ristampe, p.
189
[2] Feuillet 150, ivi, p. 208
[3] Thomas Mann, Considerazioni di un impolitico, a cura di Marianello
Marianelli e Marlis Ingenmey, Adelphi 1997
[4] Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio.
Con uno scritto di Giorgio Manganelli, Mondadori 2019, p. 106
[5] ivi, p. 70
L'articolo “Ridestare le fibre del visibile”: su “L’anello debole” di Angelica
Grivel Serra proviene da Pangea.